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Alcune riflessioni sulla storia della situazione sanitaria in Zimbabwe

Zupi Marco

Esattamente cento anni fa, l’attuale Zimbabwe divenne una colonia britannica autogestita della Rhodesia Meridionale. Nel 1965 ci fu la dichiarazione unilaterale di indipendenza, seguita nel 1970 dalla proclamazione del regime repubblicano a maggioranza bianca. Nel 1978 fu concluso l’accordo di governo transitorio per l’istituzione di un esecutivo bi-razziale, e alla fine del 1979 ci furono la firma dell’accordo di cessate il fuoco e il ritorno al regime britannico ad interim. Infine, il 18 aprile 1980 avvenne il raggiungimento dell’indipendenza de jure del Paese come Repubblica dello Zimbabwe, festeggiata con il concerto di Bob Marley nello stadio Rufaro della capitale Harare, per celebrare la fine del governo coloniale che aveva imposto un regime simile a quello dell’apartheid sudafricano. Da allora, per quasi quaranta anni, il Paese è stato governato da Robert Mugabe, capo dello Zimbabwe African National Union – Patriotic Front (ZANU-PF). Mugabe è stato una figura rappresentativa e controversa del cosiddetto socialismo africano post-coloniale, simboleggiato negli stessi anni da Kenneth Kaunda nel vicino Zambia. Durante il periodo dominato da Mugabe, la nuova costituzione venne approvata con referendum il 16 marzo 2013 e adottata il 22 maggio dello stesso anno.

Inizialmente, Mugabe fu considerato un eroe rivoluzionario della lotta di liberazione africana contro il colonialismo e il dominio della minoranza bianca e le premesse del suo governo erano giudicate incoraggianti. Ad esempio, nel 1982 una legge sulla maggiore età migliorò in modo significativo lo status giuridico delle donne (tra l’altro con il diritto di scelta personale del marito, il diritto di possedere beni immobili e la possibilità di stipulare contratti d’affari). Tuttavia, tale legge fu attuata in modo disomogeneo e parziale a causa del suo conflitto con le tradizioni e nel 2018, un anno dopo che i membri del suo partito avevano spodestato Mugabe con un colpo di Stato, le donne native nere erano ancora per la maggior parte impiegate in faticose attività dell’agricoltura di sussistenza, mentre le donne di etnia europea ed asiatica potevano trovare alcune occupazioni nei settori impiegatizi e dei servizi.

Lo Zimbabwe è un Paese con una superficie più grande del 30% rispetto a quella dell’Italia e una popolazione attuale di appena 16 milioni di abitanti. È un Paese di cui si sa e si parla poco da noi. Lo Zimbabwe è tuttavia abbastanza noto per quattro aspetti.

Anzitutto, chi lo ha visitato sarà rimasto senz’altro colpito dalla bellezza e potenza delle Cascate Victoria, sicuramente tra le più affascinanti dell’Africa, con il fiume Zambesi, largo un chilometro e mezzo, che scende di 100 metri in una stretta gola creando una quantità tale di spruzzi da far nascere una foresta pluviale lussureggiante nelle immediate vicinanze e producendo un rumore fortissimo, che si sente a distanza di chilometri, ed effetti come i doppi arcobaleni e le nuvole di nebbia. Non a caso il suo nome tradizionale era Mosi O Tunya (“il fumo che tuona”). Oltre alla bellezza della natura coi suoi grandi parchi nazionali, ci sono anche le “Rovine del Grande Zimbabwe”, a circa 250 km. dalla capitale, descritte dagli archeologi come la più grande e importante struttura in pietra precoloniale a sud del Sahara, che si estende in un’area di 7 km².

Anche chi non ha visitato il Paese forse ricorderà la drammatica crisi economica dello Zimbabwe, che tra il 2001 e il 2009 registrò tassi di inflazione superiore al 100% annuo, e dal 2006 salì a oltre il 1.500% annuo. L’iperinflazione in Zimbabwe terminò solo nell’aprile 2009, dopo quasi dieci anni. A partire dagli anni ‘90, il deficit del bilancio dello Zimbabwe aveva cominciato a crescere a ritmi esponenziali, con aumento della spesa pubblica più rapido delle entrate, corruzione diffusa, spese militari ingenti a sostegno di un governo sempre più autocratico e bisognoso di mantenere il consenso elettorale, per esempio introducendo bonus non preventivati per i veterani della guerra d’indipendenza e con il coinvolgimento nella seconda guerra del Congo. Soprattutto, i primi anni 2000 furono contrassegnati dalla cattiva gestione della politica di redistribuzione delle terre – decisa per porre fine all’inaccettabile controllo assoluto da parte della minoranza di origine europea – che contribuì a un rapido declino della produzione del settore agricolo, che a sua volta influì sulla capacità del governo di generare imposte da questo settore chiave e quindi di aumentare le entrate, e per far fronte a questa situazione  la banca centrale stampò moneta. L’iperinflazione ebbe costi enormi non solo sul piano economico-finanziario, ma anche sulla stabilità politica e sociale del Paese.

Il terzo aspetto di cui i mass-media italiani hanno parlato a proposito dello Zimbabwe, in realtà strettamente dipendente dal punto precedente, è la povertà diffusa. Gli effetti a catena dell’iperinflazione e dell’instabilità monetaria si fecero subito sentire anche a livello individuale, familiare, regionale e nazionale, soprattutto sulle fasce più vulnerabili di un Paese con grandi disuguaglianze. Per citare un solo esempio, nel maggio 2005 il governo di Mugabe lanciò l’operazione Murambatsvina (“scacciare la spazzatura”), finalizzata a liberare le aree urbane dal commercio informale e dalle baraccopoli. Circa 700.000 persone furono quindi sfollate e costrette a tornare nelle aree rurali, all’indomani del collasso economico provocato dal programma di ridistribuzione delle terre, mal concepito e organizzato. Molte famiglie videro aumentare l’insicurezza alimentare e ridurre il proprio accesso al cibo, oltre a dover fare i conti con la scarsa disponibilità di servizi pubblici basilari come l’assistenza sanitaria e l’istruzione. Tra il 2006 e il 2009, la percentuale di posti vacanti per insegnanti di scuola primaria e secondaria in Zimbabwe fu pari a circa il 24%. La perdita di forza lavoro, indotta a emigrare in cerca di migliori condizioni, fu dilagante e nel 2010 oltre il 9,9% della popolazione dello Zimbabwe era emigrato in altri Paesi. Al culmine della crisi, tra il 2006 e il 2008, oltre il 70% delle famiglie si trovava in condizioni di insicurezza alimentare. Nel 2009, poco prima del crollo della valuta nazionale (il dollaro dello Zimbabwe), il Programma alimentare mondiale delle Nazioni Unite stimò che oltre il 75% della popolazione dello Zimbabwe avrebbe avuto bisogno di aiuti alimentari d’emergenza.

Quarto e ultimo aspetto forse noto in Italia, anch’esso collegato ai due precedenti, è quello della drammatica situazione sanitaria. Nel contesto della crisi economica, la diminuzione della spesa delle famiglie per la salute (oltre che nell’istruzione) fu una tipica strategia di adattamento tra le fasce più vulnerabili della popolazione. La percentuale di bambini che avevano completato le vaccinazioni scese dall’86% nel 1988 a meno del 40% nel 2009. Morbillo, difterite, pertosse e tetano tornarono a essere una piaga per l’infanzia. La catastrofica epidemia di colera del 2008-09 vide in Zimbabwe un numero senza precedenti di persone colpite, con 100.000 casi e quasi 5.000 morti. Il colera, tuttavia, è stato più di una crisi sanitaria: ha rappresentato l’apice della profonda crisi politica ed economica del Paese. I servizi pubblici più importanti dello Zimbabwe – acqua e servizi igienici, ma anche gli ospedali e le scuole pubbliche – diminuirono, impedendo l’accesso alle persone più bisognose e vulnerabili. In quella situazione, i sistemi sanitari pubblici del Paese entrarono in crisi di fronte a quella che era un’infezione batterica semplice, facile da prevenire e semplice da trattare. Nel corso di dieci mesi, l’epidemia di colera in Zimbabwe raggiunse proporzioni catastrofiche che non hanno probabilmente eguali nella storia moderna della malattia. In quegli stessi mesi, mentre era evidente la drammaticità della situazione sanitaria, le testate giornalistiche di tutto il mondo parlarono dello Zimbabwe come di uno Stato fallito in mano ai capricci di un anziano dittatore, mentre i portavoce del governo dello Zimbabwe accusavano l’Occidente di aver creato il colera come arma di una guerra biologica razzista, terroristica e anti-africana. Povertà crescente, malgoverno, politiche economiche inadeguate, HIV/AIDS diffuso e sistema sanitario indebolito furono una miscela strutturale terribile, che provocò la crisi sanitaria del Paese.

In questo quadro, se le responsabilità del governo di Mugabe sono enormi e indiscutibili, non bisogna tacere di come anche l’Occidente avesse dal canto suo sostenuto politiche scellerate come le condizioni previste dalle istituzioni finanziarie internazionali, che fecero “il lavoro sporco” per concedere nuovi prestiti alle dissestate casse dello Stato, a fronte di programmi di aggiustamento strutturale che implicarono tagli significativi alla sanità. Bisogna infatti ricordare che il declino dei servizi ospedalieri dello Zimbabwe iniziò negli anni ‘90, durante l’era dell’aggiustamento strutturale. In termini di scala – come sottolinea Simukai Chigudu nel volume intitolato The Political Life of an Epidemic. Cholera, Crisis and Citizenship in Zimbabwe, pubblicato dalla Cambridge University Press nel 2020 – va ricordato che l’incidenza dell’HIV nelle donne che frequentavano le cliniche prenatali di Harare aumentò di quasi quattro volte tra il 1989 e il 1994, passando dal 10 al 36% . Nel 1999 circa 1,5 milioni di persone, su una popolazione totale di 11 milioni di abitanti dello Zimbabwe, risultavano infettati dal virus. Di queste persone, 1,4 milioni avevano un’età tra i 15 e i 49 anni, pari a circa il 25% della coorte di età economicamente più attiva. Nel 2006, l’AIDS avrebbe ucciso 2.500 persone alla settimana e il sistema sanitario subì un doppio colpo: da un lato, fu sovraccaricato dall’alta incidenza della malattia nella popolazione, dall’altro lato si registrarono alti tassi di infezione anche tra gli operatori sanitari, medici e infermieri, con gravi ripercussioni sull’erogazione delle cure mediche in generale.

Il sistema sanitario era allo stremo. La copertura ospedaliera era inadeguata in gran parte del Paese, costringendo i pazienti – quelli in grado di farlo – a percorrere lunghe distanze per essere curati. Nelle strutture mediche si registrava una carenza critica di medicinali essenziali, mentre le frequenti interruzioni di elettricità impedivano l’uso di molti macchinari ospedalieri. Attrezzature di base come guanti monouso, siringhe, liquidi per la reidratazione e bende mancavano e pazienti e familiari – quelli che erano in grado di farlo – dovevano acquistarli altrove. Il personale era sottopagato o non veniva pagato affatto per molti mesi. Chi tra loro riuscì a farlo abbandonò il sistema sanitario nazionale, il che determinò che le strutture del sistema di erogazione dei servizi sanitari, soprattutto quelle periferiche, fossero fortemente carenti di personale. Di conseguenza, la capacità di rispondere alle emergenze, come i focolai di colera nelle province settentrionali, venne fortemente compromessa, esponendo ulteriormente le popolazioni vulnerabili a gravi rischi, spesso con esiti fatali.

Foto Credits: Hans van Dijk for Anefo, CC0, via Wikimedia Commons