Brasile Opinioni Punti di vista

Brasile: un paese polarizzato

Litre Gabriela

Il 30 ottobre 2022, alle 18:00, si sono concluse in Brasile le votazioni per eleggere il Presidente. Solo due ore dopo è stato reso noto il risultato, che ha indicato come vincitore Luiz Inácio Lula da Silva, candidato del Partito dei Lavoratori (Partido de los Trablhadores, PT), con un ristretto margine sul presidente uscente Jair Bolsonaro.

La velocità dello spoglio dei voti in Brasile ha stabilito un record a livello mondiale per una ragione tecnica con un’implicazione politica. La prima è che dal 2000 le elezioni in questo paese sono state totalmente informatizzate. La seconda è che il voto elettronico ha rappresentato la risposta del Brasile per ridurre al minimo l’intervento umano nel processo e quindi porre fine ai brogli che si verificavano con le schede cartacee.

Cos’è successo? La rapidità del conteggio, un merito per un paese delle dimensioni di un continente e che è  stato per decenni motivo di orgoglio per molti brasiliani, questa volta si è trasformata in un’ulteriore ragione di conflitto ed è stata pretesto per un tentativo di destabilizzazione della democrazia da parte di Bolsonaro, e dei suoi seguaci più fanatici.

A fronte delle manifestazioni antidemocratiche degli elettori di Bolsonaro, il presidente eletto (al suo terzo mandato) Lula da Silva ha subito pronunciato un discorso trasmesso in diretta televisiva e su Internet in cui ha promesso di ripristinare la pace tra i partiti in conflitto e di governare per tutti i brasiliani.

Il suo appello alla pace non è retorico: il Brasile che si troverà a governare è polarizzato come mai prima d’ora, percorso da discorsi di odio che mettono a rischio lo stesso sistema democratico. Come si è arrivati a questo?

In tempi normali, i sostenitori del candidato sconfitto si sarebbero semplicemente rammaricati del risultato, ma lo avrebbero accettato. Il giorno dopo sarebbero tornati alle loro occupazioni quotidiane, a lavorare, studiare, curare le faccende domestiche e pagare le bollette. In tempi normali, il candidato sconfitto avrebbe chiamato quello vincente per riconoscere il risultato e augurargli buona fortuna.

Ma il Brasile non sta vivendo tempi normali.

Durante la notte dello spoglio, e dopo che i risultati elettorali erano stati resi noti, migliaia di sostenitori di Bolsonaro hanno dato inizio a proteste in tutto il paese, bloccando le strade con camion e pneumatici in fiamme. “Dio, patria e famiglia” era il loro motto. E aggiungevano “Lula ladro”.

Quella notte, Bolsonaro ha annunciato attraverso i suoi portavoce che non avrebbe parlato, ma che sarebbe andato a dormire presto. Il suo riposo (in realtà, la sua silenziosa attesa di una spirale di violenza che ribaltasse il risultato elettorale, che non si è verificata) è durato due giorni, durante i quali è rimasto confinato nel Palazzo Alvorada, la residenza ufficiale.

Solo 48 ore dopo, resosi conto che l’escalation della violenza antidemocratica non si era concretizzata come sperato, e che i militari non erano usciti alle caserme per prendere il potere in suo nome, Bolsonaro ha fatto una rapida dichiarazione in cui ha giustificato le proteste come “frutto dell’indignazione e di un sentimento di ingiustizia”. Ha anche espresso la sua gratitudine per i 58 milioni di voti ricevuti, ma non ha menzionato la sua sconfitta né il presidente eletto, e tanto meno l’oltre il 50% della popolazione che aveva votato contro di lui, in favore di Lula.

Solo di fronte alle pressioni della magistratura, che ha ordinato la fine dei blocchi stradali, i sostenitori di Bolsonaro hanno cambiato strategia e si sono concentrati davanti alle caserme dell’esercito, soprattutto a Brasilia, Rio de Janeiro e Sao Paulo, continuando a disconoscere il risultato che ha dato la vittoria all’ex presidente Lula e chiedendo un intervento militare. In pratica, un Colpo di Stato.

Ritorna la domanda: come si è arrivati a questo?

Negli ultimi quattro anni Bolsonaro ha adottato tattiche e strategie di estrema destra come modus operandi politico, tra le quali quella di mantenere la sua base unita attorno a un nemico comune e alimentare teorie complottiste, ispirate alla campagna di Trump negli Stati Uniti, mantenendo la società in un eterno conflitto.

Gli attacchi di Bolsonaro hanno preso di mira soprattutto le popolazioni indigene, le comunità nere, le donne e i gruppi LGBTQ. Gli attacchi presidenziali hanno preso di mira anche i giudici della Corte Suprema, i parlamentari dell’opposizione, gli scienziati (soprattutto quelli che lavorano nel settore dell’ambiente), gli attivisti che difendono l’Amazzonia, i giornalisti indipendenti e gli artisti.

Di conseguenza, una parte crescente della popolazione ha iniziato a recepire l’incitamento all’odio, traducendolo in azioni nella loro vita quotidiana.

Il conflitto in Brasile è diventato multidimensionale. Non è solo politico, ma anche sociale, religioso (evangelici pro-Bolsonaro contro cattolici e altre religioni), etnico (coloro che si percepiscono come “bianchi” contro neri, mulatti e meticci), regionale (il Sud e il Centro, per lo più bolsonaristi, contro il Nord-est e gran parte del Nord). E ha luogo sia su larga scala, come nel caso delle proteste davanti alle caserme dell’esercito, sia a livello individuale, con aggressioni verbali e fisiche nelle scuole, nelle chiese e tra membri di una stessa famiglia. La stampa ha dato notizia di numerosi scontri tra studenti, parenti, vicini o tra estranei per strada.

Ci sono genitori che hanno smesso di parlare con i figli perché questi ultimi hanno votato per Lula. Oppure studenti che attaccano i compagni che fanno il segno della “L” di Lula con le dita e inviano minacce e simboli nazisti via Whatsapp ai loro compagni dalla pelle scura.

Per la psicoanalista brasiliana Maria Homem, il governo di Jair Bolsonaro ha generato uno stress post-traumatico collettivo. “È come se ci fosse un candidato che gioca e un altro che sabota il gioco, prendendo a calci il tabellone. È come se ci fosse un giocatore che gioca secondo le regole e un altro che prende la palla, la squarcia, la fora, distrugge la rete, compra o uccide l’arbitro e lo minaccia. In Brasile questo è ciò che stiamo vivendo, né più né meno. E l’effetto che tutto questo ha su di noi è l’angoscia”, ha detto in una recente video-intervista la psicoanalista.

Nel comune di Casca, nel Rio Grande do Sul, prevalentemente bolsonarista, circola una lista per il boicottaggio delle imprese che sono ritenute vicine al Partito dei Lavoratori (PT). In questa città, un gruppo di sostenitori di Bolsonaro voleva affiggere adesivi con la sigla PT sulle porte di questi stabilimenti, in modo che potessero essere identificati e boicottati dalla popolazione. L’elenco è stato inviato all’ufficio del procuratore generale, che sta indagando sul caso.

La regione meridionale del Brasile, che comprende gli stati di Rio Grande do Sul, Santa Catarina e Paraná, è una delle roccaforti di Bolsonaro. Bolsonaro ha vinto nei tre Stati. Anche nella regione del “medio occidente”, il cui principale motore economico è l’industria alimentare, Bolsonaro ha prevalso in quasi tutti gli Stati. E anche nel sud-est, la regione più popolosa del paese, Bolsonaro ha ottenuto la maggioranza, perdendo in un solo Stato per una piccola differenza.

Nella regione nord-orientale, Lula ha vinto con un ampio vantaggio in nove Stati con il 69,34% dei voti validi. Con indicatori sociali ed economici storicamente inferiori a quelli delle regioni sud-orientali e meridionali, dalla regione nord-orientale sono partite successive ondate migratorie verso il sud di paese, di persone in cerca di migliori condizioni di vita. Nelle proteste antidemocratiche dei bolsonaristi nelle strade e sui social network, si è detto che la parte del Brasile “che produce” ha perso il confronto con la parte che non lavora e vive degli aiuti del governo federale.

Uno dei dirigenti del Flamengo, la squadra di calcio con il maggior numero di tifosi del paese, ha postato su Instagram: “Vinciamo dove si produce, perdiamo dove si trascorrono le vacanze (alludendo alle bellissime spiagge del Nord-est del Brasile, NdA). Mettiamoci al lavoro perché se il bestiame muore, le zecche soffrono la fame”. Il “bestiame” sarebbero i bolsonaristi, le “zecche” i nordorientali che, secondo questo discorso di odio, vivrebbero del lavoro degli altri.

Secondo un sondaggio di InternetLab, alla fine del primo turno di votazioni, il 19,4% dei messaggi che menzionavano le parole “Nord-est”, “nordorientale” o termini potenzialmente offensivi contro la regione indirizzavano attacchi e insulti verso i nordorientali. Il 13,4% dei tweet analizzati nel campione faceva anche riferimento a brogli elettorali.

Una Capitol Hill tropicale

Durante il periodo pre-elettorale diversi episodi hanno anticipato ciò che è poi accaduto, compreso l’uso delle armi da fuoco. Uno dei casi più noti ha coinvolto l’eccentrico ex deputato federale Roberto Jefferson, alleato di Bolsonaro. Il sessantenne Jefferson, detto Rambo, ha sparato granate e più di 50 colpi di fucile contro la polizia federale che si stava recando da lui in ottemperanza al mandato di arresto emesso dal ministro Alexandre de Moraes, della Corte suprema federale e presidente del Tribunale supremo elettorale.

L’arresto di Jefferson era stato deciso per aver insultato il giudice della Corte suprema federale Carmen Lúcia e per aver attaccato il Tribunale supremo e il sistema elettorale con messaggi intimidatori e antidemocratici.

Durante il governo Bolsonaro l’uso delle armi è divenuto più facile. La legalizzazione del commercio e del trasporto di armi è una delle bandiere identitarie del presidente sconfitto. L’accesso alle armi è stato facilitato tramite l’approvazione di oltre 40 norme volte ad allentare il controllo sulle armi e sulle munizioni.

Su Le Monde Diplomatique Brasil del 22 settembre 2022, Bruno Langeani, capo progetto presso l’Istituto Sou da Paz, spiega che il numero di armi nelle mani dei civili è cresciuto esponenzialmente dopo l’allentamento dei controlli. Le armi di tiratori sportivi, cacciatori e collezionisti di armi (comunità nota in Brasile con l’acronimo CAC), erano 290.000 nel 2017 e hanno superato il milione nel luglio 2022. Nello stesso periodo, le armi registrate presso la Polizia federale nella categoria “difesa personale” sono passate da 328.000 a 891.000.

Questo arsenale nelle strade è una delle preoccupazioni del nuovo governo, che si insedierà il 1° gennaio 2023. Durante i blocchi stradali dopo le elezioni gli agenti della polizia stradale federale sono stati presi di mira dal fuoco dei manifestanti. Si teme che tiratori sportivi, cacciatori e collezionisti di armi insieme a gruppi armati, che sono una delle basi di supporto di Bolsonaro, torneranno nelle strade nei prossimi mesi per destabilizzare il governo Lula.

Per quanto il presidente eletto abbia affermato di voler pacificare il paese formando un governo con un’ampia partecipazione di varie correnti politiche, compresi esponenti di destra, probabilmente non avrà tregua per i prossimi quattro anni. La democrazia sembra appesa a un filo.

Il presidente del Partito liberale (PL), Valdemar Costa Neto, ha annunciato che il suo gruppo, che con 99 deputati è il più rappresentato nella Camera dei deputati federale, sarà all’opposizione e sosterrà Bolsonaro – iscrittosi al partito liberale a fine del 2021 e con cui ha concorso alle elezioni presidenziali – nella corsa per un nuovo mandato nel 2026.

L’esercito, in violazione dei suoi doveri costituzionali e sotto la pressione di Bolsonaro, è stato coinvolto nel processo elettorale e ha promosso un audit e un controllo delle urne elettroniche, bersaglio di teorie complottiste e delle costanti accuse di brogli sollevate negli ultimi anni da Bolsonaro e dai suoi sostenitori. I tradizionali audit interni e persino quelli internazionali, che hanno monitorato l’intero processo elettorale e confermato l’ineccepibile trasparenza delle elezioni, non sono bastati.

Sebbene l’audit condotto dai militari non abbia rilevato brogli o difetti nelle urne, il rapporto pubblicato è sufficientemente ambiguo da alimentare nuove teorie complottiste in un pubblico che crede solo a ciò che vuole credere. Per calmare le schiere dei bolsonaristi, i militari che hanno firmato l’audit hanno optato per l’ambiguità: l’audit non ha valore legale, ma getta ancora più benzina sul fuoco laddove sostiene che “non è possibile affermare che il sistema di voto elettronico sia esente dall’influenza di possibili codici malevoli che potrebbero alterarne il funzionamento”. In questo modo si apre una crepa nel vaso di Pandora.

È il clima eccitato e antidemocratico che Bolsonaro, ammiratore di Trump, sognava. Il presidente sconfitto voleva suscitare una sorta di Capitol Hill tropicale. La tensione non diminuisce e tiene le democrazie internazionali con il fiato sospeso. Molti dei seguaci di Bolsonaro rimangono per le strade e comunicano giorno e notte attraverso i social network, in attesa dell’ordine di andare avanti.

Ma le cose non stanno andando come Bolsonaro si aspettava. È mancato il sostegno esplicito delle Forze armate, della polizia e del mondo imprenditoriale: in questi ambiti Bolsonaro gode di ampio appoggio, ma anche i suoi simpatizzanti hanno considerato i pro e i contro e hanno deciso di non imbarcarsi in un’avventura che destabilizzerebbe il paese e lo isolerebbe ulteriormente dal resto del mondo.

Con o senza colpo di Stato, Bolsonaro resta un leader politico per milioni di brasiliani, tenendo in tensione l’ambiente politico e istituzionale negli anni a venire. Le ferite dell’odio e della polarizzazione, e il fascismo latente che si è risvegliato tra molti brasiliani, impiegheranno parecchio tempo a rimarginarsi.

Versione originale dell’articolo

Foto Credits: Palácio do Planalto, Attribution 2.0 Generic (CC BY 2.0) attraverso Flickr