Mondo Editoriali

Quando mercati e militarismo si scontrano: cosa è a rischio?

Khosravi Alireza

Questo articolo nasce dopo aver letto il recente rapporto di Francesca Albanese, Relatrice Speciale delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani nei territori palestinesi occupati dal 1967. Nel suo documento presentato al Consiglio dei Diritti Umani (A/HRC/59/23, 2025), Albanese non si limita a registrare violazioni o atrocità a Gaza. Va oltre, mettendo in luce i meccanismi economici che incentivano questa devastazione. Spiega come Gaza sia diventata, usando le sue parole, un «terreno ideale per testare armi e tecnologie», con «offerta e domanda illimitate, poca supervisione e zero responsabilità – mentre investitori e istituzioni pubbliche e private traggono profitti liberamente» (UN HRC A/HRC/59/23, par. 87).

Leggere queste pagine mi ha spinto a riflettere su un rischio molto più vasto. Non è solo la tragedia di Gaza; rivela come i mercati globali stiano sempre più legando la loro crescita al militarismo, testando armi su popolazioni civili e poi vendendole nel mondo come «provate in battaglia». Questo contributo segue un primo in cui analizzavo come le guerre moderne siano passate dal colpire obiettivi militari al colpire intere nazioni, i loro civili e le loro infrastrutture. Qui affronto un passo ulteriore e ancora più inquietante: che cosa succede quando i mercati finanziari, i fondi pensione e persino il benessere collettivo dipendono dai conflitti armati? Che futuro stiamo preparando per noi e per le generazioni a venire se la prosperità stessa diventa legata alla distruzione?

Dopo la Seconda guerra mondiale: proteggere i civili e investire nei beni comuni

Dopo la Seconda guerra mondiale, la comunità internazionale decise che simili orrori non dovevano più ripetersi. Questa determinazione creò un sistema solido di norme e istituzioni dalle Convenzioni di Ginevra del 1949 (ICRC, 1949) alla fondazione delle Nazioni Unite (Carta ONU, 1945) pensato per proteggere i civili e dare priorità alla risoluzione pacifica dei conflitti. L’UNESCO e altre agenzie fecero dell’istruzione, della cultura e del patrimonio strumenti di sicurezza collettiva.

I governi orientarono anche le politiche economiche verso questo obiettivo. Investirono massicciamente in sanità pubblica, istruzione e sistemi di sicurezza sociale, creando in Europa, più ancora che in Nord America e in parte dell’Asia quel modello chiamato “stato sociale”. Non era solo una scelta sociale: era una strategia per rendere la pace più redditizia della guerra.

Un fragile equilibrio durante la Guerra Fredda

Nonostante la forte rivalità tra superpotenze, la maggior parte della crescita economica globale dopo il 1950 si basò sul miglioramento degli standard di vita. Anche in un mondo pieno di arsenali nucleari, la prosperità derivava soprattutto dall’industria civile, dal commercio e dal progresso tecnologico. Negli anni ’90, dopo la caduta del Muro di Berlino, molti speravano che interdipendenza economica e diritto internazionale avessero reso la guerra uno strumento obsoleto di potere. Nuove risoluzioni ONU (UNGA Res. 2625, 1970) promossero la cooperazione e la soluzione diplomatica delle dispute, ribadendo che lo sviluppo reciproco era la via più sicura.

Le nuove guerre riaccendono i vecchi incentivi e trasformano i mercati

Ma questo equilibrio cominciò a rompersi nei primi decenni del XXI secolo. Le invasioni dell’Afghanistan e dell’Iraq rilanciarono enormi bilanci per la difesa. I conflitti in Libia, Siria e Yemen consolidarono questa tendenza. Giganti dell’industria bellica come Lockheed Martin, BAE Systems e Rheinmetall videro salire i propri ricavi. Lockheed Martin passò da circa 31 miliardi di dollari nel 2003 a oltre 65 miliardi nel 2023, con le sue azioni cresciute di cinque volte. Rheinmetall aumentò del 120% il proprio valore di borsa nel 2022-23 durante la guerra in Ucraina (SIPRI, 2023).

Questi numeri mostrano come le borse oggi spesso salgano con la prospettiva di nuovi conflitti. I fondi pensione e i portafogli assicurativi detengono azioni della difesa, così milioni di cittadini finiscono per trarre profitto spesso inconsapevolmente, quando guerre e tensioni creano nuove commesse. Nel 2023, la spesa militare globale ha raggiunto il record di 2.240 miliardi di dollari, più del PIL complessivo di 150 Paesi messi insieme (SIPRI, 2023).

Tecnologie avanzate e intelligenza artificiale rafforzano questo legame tra guerra e crescita dei mercati

Il rischio sta aumentando ulteriormente con l’arrivo di tecnologie senza precedenti. Droni autonomi, missili a guida di precisione, sistemi di raccolta dati da campo e intelligenza artificiale stanno trasformando dimensioni e precisione dei conflitti. Algoritmi di targeting alimentati da AI elaborano enormi quantità di dati di sorveglianza, decidendo a volte vita o morte con un controllo umano minimo.

I mercati finanziari accolgono con entusiasmo queste innovazioni. Indici specializzati e report di fondi d’investimento (Bloomberg Opinion, 2024) indicano proprio AI e armi autonome come aree di massima crescita. Man mano che queste tecnologie vengono testate e impiegate, il loro successo si riflette in performance superiori rispetto ad altri settori industriali. In pratica, sempre più portafogli pensionistici si legano non solo ad armi tradizionali, ma al trionfo di sistemi che possono rendere la guerra più veloce e distaccata dalla responsabilità umana diretta.

Gaza mostra l’abisso morale di questo modello economico

Il rapporto di Albanese su Gaza (UN HRC A/HRC/59/23, 2025) chiarisce dove porta questa spirale. Documenta come la lunga occupazione e i ripetuti attacchi abbiano trasformato Gaza in una «occupazione permanente» che favorisce produttori di armi e aziende tecnologiche. È un «terreno ideale», scrive, per sperimentare sistemi in condizioni reali, su popolazioni civili dense, sotto assedio e blocco (UN HRC A/HRC/59/23, parr. 29–31, 87).

Non si tratta solo delle devastazioni locali. Questa dinamica mostra come i cicli di violenza siano legati alla domanda globale e agli investimenti. Sistemi testati sui palestinesi vengono poi venduti come «battle-proven» in tutto il mondo, alimentando nuovi contratti e facendo salire i valori di borsa.

Quando la prosperità si lega alla guerra crollano i fondamenti etici della società moderna

Questo non riguarda solo Gaza. Colpisce al cuore la promessa fatta dopo il 1945: che la prosperità dovesse poggiare sulla pace e sul benessere condiviso. Se sempre più fondi pensione e risparmi collettivi dipendono dai titoli della difesa, allora la resistenza politica alla guerra si indebolisce. Ciò che un tempo appariva come una catastrofe umanitaria rischia di essere reinterpretato dai mercati come una opportunità.

Si ribalta così una logica consolidata in settant’anni di storia. Le Convenzioni di Ginevra, i principi fondanti dell’ONU e poi gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (UN, 2015) puntavano tutti a rafforzare sanità, istruzione e welfare contro la tentazione delle armi.

La pandemia ci aveva indicato la strada giusta, che stiamo già dimenticando

Durante la pandemia da Covid-19 si era aperta una consapevolezza globale. Rapporti dell’ILO e dell’OMS del 2021 mostravano come le vere minacce alla sicurezza fossero i sistemi sanitari deboli e le catene alimentari fragili. Si parlava di «ricostruire meglio», investendo nella resilienza e nei beni comuni (ILO, 2021; WHO, 2021).

Ma nel giro di pochi anni la spesa militare ha superato di gran lunga quella per la sanità o per il clima. I mercati tornano a salire sui profitti delle aziende della difesa. Così, risorse pubbliche e private che potevano finanziare ospedali e infrastrutture verdi si riversano di nuovo nell’industria bellica.

Perché non possiamo restare in silenzio

Questa non è solo una questione da economisti o analisti militari. È una domanda su chi siamo e chi vogliamo diventare. Se la prosperità stessa dipende dalla distruzione, se i nostri fondi pensione crescono quando cadono le bombe, se la “salute” dei mercati richiede nuovi conflitti, stiamo preparando un mondo di guerre senza fine.

Abbiamo ricevuto in eredità un sistema costruito per evitare questo: fatto di diritto, diplomazia e investimenti nei beni comuni. Legare il nostro futuro economico a continui arsenali significa distruggere questa eredità.

Se non alziamo ora la voce, rischiamo di svegliarci in un mondo dove più missili significano più posti di lavoro, più droni vogliono dire migliori rendimenti, e la sofferenza dei civili diventa solo una riga in un grafico di crescita aziendale. Non riguarda solo le nostre vite: decide il destino di generazioni che ancora devono nascere.

Foto Credits: Paul, Attribution 2.0 Generic. Attraverso Flickr