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Giustizia climatica e risposte delle comunità di base in America Latina e nei Caraibi

Alvarez Isis

È ormai ampiamente riconosciuto che il cambiamento climatico è la più grande minaccia che il mondo abbia mai affrontato. L’architettura internazionale di governance ambientale, risalente al 1992 (UNFCCC – la Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici è un trattato intergovernativo sviluppato per affrontare il problema dei cambiamenti climatici), fu messa in atto per affrontare i cambiamenti climatici; trent’anni dopo, si discute ancora degli stessi problemi, mentre nel frattempo la riduzione delle emissioni globali è stata in gran parte marginale. Inoltre, parecchie multinazionali che hanno la responsabilità di ingenti emissioni nocive di gas serra (GhG) – come Shell, Unilever, Coca-Cola, per citarne alcuni – sono ora parti attive nei negoziati sul clima, il che comporta un ulteriore radicamento dell’insostenibile sistema attuale, che mette il profitto al di sopra delle persone, dei diritti e della vita sulla Terra.

L’America Latina e i Caraibi (LAC) detengono biomi fondamentali ricchi di risorse, come nel caso dell’Amazzonia, ricca di foreste, o delle Ande, ricche di minerali, ma a partire dalla colonizzazione hanno subìto la continua estrazione di materie prime per soddisfare il consumo smodato nel Nord del mondo. L’imposizione di questo modello di sviluppo capitalista e patriarcale ha comportato non solo la scomparsa delle risorse naturali dell’America Latina e dei Caraibi, ma anche dei mezzi di sussistenza delle popolazioni e delle loro culture. La regione non è solo una di quelle che mostrano i maggiori livelli di disuguaglianza al mondo, ma è anche tra le più colpite dai cambiamenti climatici, nonostante le popolazioni latinoamericane abbiano minime responsabilità per la crisi climatica. Tuttavia, l’anno scorso si è ottenuta una piccola vittoria ai negoziati sul clima: dopo anni di sostegno da parte della società civile è stato istituito un Fondo per le perdite e i danni. Essenzialmente, una richiesta di un meccanismo giuridico attraverso il quale i Paesi con emissioni elevate paghino i danni e le perdite causate nei paesi vulnerabili a basse emissioni. Ma per le aree altamente vulnerabili – come le isole caraibiche – il fattore tempo è essenziale, in quanto intraprendere azioni urgenti diventa una questione di sopravvivenza. La morìa dei coralli dovuta allo sbiancamento ha avuto un forte impatto sulle comunità di pescatori, ma anche l’innalzamento del livello del mare ha comportato un aumento delle migrazioni forzate.

Pertanto, le persone sul terreno si trovano a sopportare il peso di un modello di consumo e produzione sproporzionato, dettato dai paesi “ricchi”, mentre le multinazionali hanno fatto in modo che i loro interessi e il loro potere globale rimanessero intatti, spesso con il sostegno dei governi. Dal momento che il cambiamento climatico ha impatti differenziati secondo il genere, la razza e la classe di appartenenza, le cosiddette “soluzioni climatiche” rappresentano in realtà “ulteriori opportunità di business del valore di milioni di dollari” che continuano ad aggiungere altri oneri alle popolazioni indigene e alle comunità locali, in particolare alle donne. La verità è che le false soluzioni continuano a promuovere l’estrattivismo, compresi i progetti sui combustibili fossili e l’espansione dell’agricoltura su scala industriale, due dei principali responsabili dell’aumento delle emissioni globali di gas serra (GhG) e delle violazioni dei diritti delle persone. Ad esempio, i mercati dei combustibili fossili garantiscono agli inquinatori di poter continuare ad operare come se nulla fosse, non affrontando le cause profonde del cambiamento climatico, accaparrandosi le terre, costringendo le persone che vi abitano a spostarsi, negando loro l’accesso alle risorse da cui dipendono per il proprio sostentamento e aumentando la violenza di genere.

Ma la società civile e i movimenti sociali stanno rivendicando i loro diritti, mettendo a punto soluzioni alternative. I difensori sociali e ambientali – molti dei quali sono donne – sono in prima linea nella difesa dei loro territori contro le industrie estrattive, anche se ciò può portare alla loro persecuzione, alla criminalizzazione o potrebbe addirittura costare loro la vita. Un rapporto di Global Witness nel 2022 ha stimato che la regione latinoamericana e caraibica ha subito il 68% delle uccisioni globali di difensori dell’ambiente dal 2012.

Le comunità indigene, rurali e afro-discendenti si stanno organizzando e articolando le loro lotte per affrontare e resistere al modello di sviluppo distruttivo attraverso l’autodeterminazione; gli sforzi collettivi hanno aiutato le popolazioni indigene e le comunità locali (IPLC) a prendere coscienza della crisi climatica e a costruire insieme la loro resilienza.

In effetti, le soluzioni tradizionali adatte alla situazione climatica esistono e sono esistite  da secoli, contribuendo alla resilienza delle comunità a fronte dei cambiamenti climatici e altri sconvolgimenti; le conoscenze indigene e tradizionali sono la chiave di alcune di queste sfide attraverso, ad esempio, pratiche agroecologiche che contribuiscono al raffreddamento del pianeta e alla selezione di semi autoctoni resistenti alle inondazioni o alla siccità, attività per lo più portate avanti da donne.

Già gli Incas in Perù tra  il 1200 d.C. e il 1533 d.C., svilupparono incredibili tecniche ingegneristiche per la gestione delle acque e l’agricoltura, come i sistemi di produzione “waru waru“, oppure le “amunas” per la ricarica delle falde acquifere, sistemi di piattaforme e di irrigazione (come il canale di Cumbemaya), o i sistemi di serbatoi d’acqua detti “cochas“, ancora oggi insuperati dalle moderne tecnologie.

In Mesoamerica, il sistema Milpa (tuttora utilizzato) si basa su un piccolo appezzamento di terra, di solito di proprietà di famiglie rurali e gestito prevalentemente da donne, dove si coltiva la maggior parte del cibo, utilizzando grano o mais come componente principale, ma associato ad altre colture fondamentali come la zucca, i fagioli e/o il peperoncino. Tuttavia, ciò non si limita a una tecnica di produzione e di lavoro sociale, ma rappresenta anche un modo di pensare e di organizzare la società basato sul valore della diversità e dell’interdipendenza, da cui scaturisce una fitta rete di relazioni sociali basate sulla reciprocità e orientate all’autonomia e all’autosufficienza. Coltivare nel Milpa comporta il rispetto della diversità naturale e sociale attraverso metodi variati e appropriati, nel rispetto dell’ambiente e delle diversità culturali, lontani da una logica occidentale basata sull’individualismo, la competizione e la riproduzione del capitale.

Molti gruppi di popoli indigeni in Amazzonia rimangono nei loro territori grazie al loro forte legame con la Madre Terra. Ad esempio, la “chagra” è un sistema alimentare integrale e interdipendente che riunisce aspetti ecosistemici, sociali e spirituali. Sebbene esistano diversi tipi di chagra, il modello è replicato, con alcune varianti, in tutte le comunità indigene dell’Amazzonia colombiana. La vasta conoscenza tradizionale delle comunità sulle colture, le relazioni tra le piante, i rapporti con il suolo, i cicli di produzione, le malattie e i parassiti rendono la chagra un ciclo dinamico da cui traggono beneficio tutti gli organismi e le forme di vita della foresta. Inoltre, la conoscenza della loro visione culturale globale ha assicurato un rapporto equilibrato con l’ambiente.

L’ONIC afferma che le attività produttive delle popolazioni indigene amazzoniche hanno sempre cercato di procurare il minimo danno ambientale, adottando processi ecologici di produzione agricola, come l’uso della policoltura, il miglioramento del suolo attraverso l’uso di fertilizzanti organici, l’uso di biopreparati per il controllo dei parassiti e delle malattie, la semina e la conservazione delle sementi tradizionali per conservare la biodiversità, e l’alimentazione degli animali con piante e semi prodotti nelle fattorie. Riescono anche ad armonizzare queste attività con la spiritualità: canti, preghiere e “pagamentos” da parte dei saggi della comunità vengono offerti per propiziare raccolti migliori e garantire che gli animali rimangano immuni da malattie. A questo proposito, le fasi lunari svolgono un ruolo chiave per le diverse attività, come la semina, la potatura, la produzione di fertilizzanti organici e i raccolti.

Ma forse la risposta più emblematica delle comunità di base della regione latinoamericana è emersa nell’isola di Cuba all’inizio degli anni Novanta, quando l’isola dovette affrontare il “Periodo Especial” (periodo speciale) subito dopo il crollo del blocco socialista in Europa e la quasi scomparsa delle relazioni commerciali internazionali di Cuba. Divenne evidente sia per il governo che per le famiglie contadine che il modello agricolo aveva bisogno di un cambiamento data la sua elevata dipendenza dagli input stranieri. L’agroecologia è stata l’opzione più praticabile e, di fatto, duratura per l’agricoltura contadina cubana che si trovò a fronteggiare a condizioni economiche e ambientali estremamente sfavorevoli, considerato il blocco economico da parte degli Stati Uniti attuato per ben sessant’anni.

Durante il “Periodo Especial“, i cubani a tutti i livelli hanno capito l’importanza di essere autosufficienti e di ricorrere a pratiche più rispettose dell’ambiente; il governo adottò una serie di misure come consentire ai contadini di lavorare la terra e produrre colture alimentari diversificate; le istituzioni scientifiche e di ricerca si adoperarono per arricchire e migliorare le conoscenze e le tecniche sulle pratiche agroecologiche, e presto, non solo le persone provenienti dalle aree urbane iniziarono a migrare verso le aree rurali, ma cominciò a consolidarsi anche un movimento nazionale di agricoltori dediti all’agroecologia.

Oggi, la maggior parte degli scienziati del clima prevede eventi meteorologici più estremi, come uragani e siccità, a cui Cuba è più soggetta a causa della sua posizione geografica. Pertanto, la resilienza alle perturbazioni climatiche è di particolare importanza per l’isola. Gli studi di Eric Holt Giménez (2000 e 2008) hanno dimostrato che nel 1998, dopo l’uragano Mitch, gli appezzamenti agroecologici in America Centrale hanno resistito all’impatto molto meglio dei terreni convenzionali. Anche se il danno è stato enorme, i terreni agroecologici hanno mantenuto più terreno superficiale, umidità e vegetazione rispetto ai terreni convenzionali. Hanno anche subito meno erosione, frane e perdite economiche.

Pertanto, i gruppi delle comunità locali detengono le conoscenze e stanno dimostrando il loro potenziale contributo per affrontare le cause profonde della crisi climatica; stanno occupando spazi politici, innalzando così il livello delle loro lotte e contribuendo a far avanzare i cambiamenti politici attraverso una difesa coordinata, facendo pressione sui governi locali, regionali e nazionali. Articolare il lavoro ha comportato la creazione di piattaforme e reti regionali congiunte, come la piattaforma LAC per la giustizia climatica, in cui i principi del “Buen Vivir” rispondono a un approccio regionale ai diritti umani e ai diritti della Madre Terra, riconoscendo e sostenendo adeguatamente le iniziative e le pratiche delle popolazioni indigene e delle comunità locali, garantendo così i loro diritti alla terra e alle risorse e aprendo la strada a un reale cambiamento sistemico. La piattaforma si batte per la visibilità e l’organizzazione delle lotte di resistenza a fronte dei cambiamenti climatici e in contrasto alle false soluzioni alla crisi climatica, oltre a sostenere soluzioni alternative per affrontare la crisi; persegue inoltre una difesa coordinata a livello politico per far sì che i governi assumano le proprie responsabilità e per essere inclusi nel processo decisionale delle politiche che li riguardano.

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Foto Credits: Amazônia Real, CC BY 2.0 DEED – Attribution 2.0 Generic. Attraverso Flickr