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Sette generazioni. Lavorare con le popolazioni indigene per salvare il pianeta

Ibrahim Hindou Oumarou

Tra gli M’Bororo Fulani del Ciad – la mia gente – esiste una regola perenne, che ci tramandiamo di generazione in generazione. Ogni bambino deve imparare i nomi dei suoi antenati fino alla settima generazione. E ognuno di noi deve agire pensando alle prossime sette generazioni. E’ una tradizione che affonda le sue radici nei secoli durante i quali il mio popolo ha vissuto in armonia con la natura.

Siamo allevatori di bestiame nomadi o seminomadi, e ogni anno le nostre mandrie si muovono attraverso la savana del Sahel, seguendo il ritmo delle stagioni. Durante il periodo della siccità ci avviciniamo al lago Ciad, in cerca di acqua e di pascolo per le nostre mandrie. Quando arriva la stagione delle piogge ci dirigiamo verso la savana, per nutrire nostri animali in nuovi pascoli. Alcuni di noi si spingono a sud molto in profondità, fino alle foreste tropicali.

La natura è alla base di tutta la nostra vita. Osserviamo le nuvole, i venti e gli insetti per prevedere i fenomeni meteorologici. Sappiamo quali erbe usare per la medicina tradizionale e di quali frutti, piante e cereali possiamo nutrirci. Siamo anche i custodi del fragile ecosistema e delle verdi foreste del Sahel. Le nostre mandrie contribuiscono a fertilizzare il suolo, e le nostre migrazioni stagionali  lasciano alla natura il tempo di rigenerarsi.

Pensando alle sette generazioni che ci seguiranno, abbiamo adottato una regola molto semplice: ci assicuriamo che le piante che ci nutrono, l’acqua che beviamo, il legno che usiamo per cuocere il cibo possano esserci ancora in futuro, per quelle sette generazioni. Non conosco molte culture, al di fuori delle comunità indigene, che si preoccupino in questo modo dei nipoti dei nipoti dei loro nipoti.

Per secoli questo modo di vivere ha dato benessere a noi e all’ambiente in cui viviamo, ma ora sta scomparendo per cause fuori dal nostro controllo. Il cambiamento climatico ci ha già colpiti duramente. Le stagioni aride si allungano, e quelle piovose diventano più brevi. Nei periodi più caldi, le temperature toccano spesso i 50 gradi centigradi. Le comunità di pescatori, agricoltori e allevatori lottano per le poche risorse rimaste, che si tratti di acqua o di terra coltivabile.

Quando sono nata, all’inizio degli anni Ottanta, il lago Ciad era il quinto lago più grande di tutta l’Africa e occupava circa 10.000 chilometri quadrati. Sessant’anni fa, quando nacque mia madre, ne copriva 25.000. Oggi supera a malapena i 2.500 chilometri quadrati. In meno di due generazioni il 90% della sua acqua è svanito – acqua che costituisce il bene più prezioso per gli esseri umani. La terra che ci ha nutrito per tanto tempo sta diventando così arida e povera che ho paura per la sopravvivenza del mio popolo, della mia cultura, della mia lingua e della mia identità.

Sfortunatamente, la calamità che il mio popolo sta vivendo non è affatto un caso isolato. Le popolazioni indigene delle foreste guardano bruciare in pochi minuti alberi che hanno impiegato secoli per crescere. Quelle dell’Artico vedono i ghiacciai sciogliersi davanti ai loro occhi. Le mie sorelle e i miei fratelli nell’Oceano Pacifico sono senza difesa, di fronte all’innalzamento delle acque del mare. La natura – la nostra amica più preziosa per tante generazioni – sta diventando il nostro nemico più pericoloso.

Ma non tutto è perduto – non ancora. Io non smetterò di lottare, e non lo faranno le mie sorelle e fratelli in Brasile, in Australia e nel Pacifico. Combatto perché il nostro modo di vivere, la nostra identità e i nostri ecosistemi sfuggano alla distruzione. Con le nostre conoscenze tradizionali, possiamo offrire soluzioni per fermare il cambiamento climatico e la sesta estinzione storica di massa della biodiversità. Nel corso dei secoli abbiamo appreso come vivere in armonia con la natura, che in cambio ci ha protetto. Sappiamo come proteggere le foreste. Sappiamo come proteggere gli oceani. Sappiamo come trovare acqua durante la più dura siccità, e di quali piante nutrirci quando un uragano distrugge tutti i raccolti.

Io so che esiste una via d’uscita da questa crisi ecologica. Gli esseri umani sono probabilmente i più intelligenti tra tutti gli animali. Nei sogni di chi prende le decisioni politiche ed economiche sembrano esserci soltanto intelligenze artificiali e tecnologia. Ma vorrei ricordare loro che la natura è la più meravigliosa delle tecnologie, e che nella saggezza di una nonna indigena c’è più intelligenza che nel più potente dei computer.

Questo non è un messaggio per le generazioni future, ma per quelle di oggi. Secondo gli scienziati ci restano dieci anni di tempo per fare qualcosa. Dieci anni è meno di una generazione. Dieci anni per fare in modo che, tra uno o due secoli, i nostri pronipoti possano ancora stupirsi di fronte alla magnifica bellezza dei panorami del Sahel, dei suoi animali e dei suoi alberi. Dieci anni per trovare un modo di vivere sostenibile che permetta a ogni uomo e donna della Terra di pensare alle sette generazioni che verranno dopo, e decidere di lasciare loro un pianeta in cui torni di nuovo a esserci armonia tra gli esseri umani e la natura.

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Foto Credits: Wodaabe leaving camp, Young Wodaabe travelers –  Dan Lundberg, Attribution-ShareAlike 2.0 Generic (CC BY-SA 2.0) attraverso Flickr