Mondo Editoriali

Globalizzazione e conflitti

Gutiérrez-Sánchez-Salamanca Esteban

Se decido di coltivare un albero, mi piace vederlo svilupparsi dal seme, curarlo scegliendo la terra migliore, farlo crescere fino a quando non avrà più bisogno delle mie cure quotidiane e si sarà creata un’interdipendenza. Poi arrivano le difficoltà, la mancanza o l’eccesso di acqua, i parassiti, la necessità di cure esterne, e lì bisogna decidere che fare. Farsi prendere dal panico, esternare la rabbia, pensare alle soluzioni, come comportarsi?

A mio parere il lavoro di supporto alla consapevolezza comporta un processo simile, che impone di fare sempre meglio a partire da ogni spazio che si apre, mettendo in atto un processo in cui è fondamentale far tesoro di tutto ciò che si è appreso in precedenza. Così facendo, quando arrivano i problemi li si affronta sempre meglio, con più tranquillità, con una migliore conoscenza per portare il problema verso soluzione desiderata.

Ecco perché penso sia fondamentale aprire questo articolo per Mondòpoli su globalizzazione, conflitti e sviluppo sostenibile cercando prima di tutto di capire il contesto, ovunque ci troviamo. Io, per esempio, mi trovo in America Latina, nei Caraibi colombiani; e tu che mi leggi, dove ti trovi? Questo, a mio parere, implica la globalizzazione, che altro non è se non la relazione di minimo due soggetti che si scambiano qualcosa. Possono essere culture, gruppi, organizzazioni e naturalmente molte possono essere le modalità di mettersi in relazione.

In questo caso siamo io e te, e vorrei mettere subito in chiaro che, nella parte del mondo da cui scrivo, i cambiamenti causati dall’invasione europea dal 1492 gettarono le premesse di cambiamenti epocali che potremmo definire la radice di molti conflitti che affliggono le nostre terre. Secondo te, quale è stato il fattore che concretamente ha inciso di più? Prova a pensare a quello che ritieni il più antico problema della tua cultura, e dovrai necessariamente risalire più indietro della Prima o della Seconda guerra mondiale. O no? Vorrei associarlo agli inizi della globalizzazione.

Nel caso dell’Italia, quali sentimenti furono generati e quali effetti accompagnarono l’inizio della globalizzazione, che prende origine dal contatto tra le Americhe e il resto del mondo? Va chiarito che Roma, come sede del Vaticano e perciò luogo simbolo della cristianità, ha svolto un ruolo chiave negli eventi dell’epoca, compresa l’Inquisizione, tema centrale per i conflitti culturali che ancora oggi collidono con la possibilità di recuperare la memoria storica e geografica delle nostre terre d’America.

Con l’Inquisizione, l’evangelizzazione è arrivata fino a noi e la Bibbia è stata globalizzata. Nel nostro caso, fu imposta con sangue e dolore, generando rancori storici che persistono, perché ancora ai nostri giorni la Chiesa mantiene le sue posizioni sui luoghi simbolo delle culture americane, che a suo tempo distrusse, senza restituirne mai la dignità. Decolonizzare la globalizzazione significa riscoprire, tra migliaia di versioni, questa storia mai raccontata, e darle un senso.(Dussel, 1983)

Ciò implica prima di tutto tracciare una mappa del mondo che ci aiuti a vedere come è iniziata la globalizzazione e come si è diffusa in tutto il mondo. Prima del 1492, la globalizzazione non esisteva, perché il mondo delle civiltà, vario e multiforme com’era, non era mai stato connesso globalmente. Le varie caratteristiche della globalizzazione, organizzate in un complesso arazzo, ci mostreranno perché l’incontro tra “il nuovo” e il “vecchio” mondo, avvenuto per il tramite dell’impero spagnolo, segnò un punto di rottura con tutti gli altri incontri che lo avevano preceduto. Lo sbarco dei vichinghi in Nord America o dei peruviani sulle coste dell’Asia e delle isole del Pacifico sono temi a se stanti, che però non causarono i conflitti che invece avrebbero fatto seguito a quell’incontro tra culture. Non mi riferisco solo all’impero spagnolo e alla corona cattolica, quella dei re di Castiglia, ma anche agli inglesi, ai portoghesi, ai francesi, agli olandesi, ai belgi e così via, tutte monarchie europee che alla fine del XV secolo trovarono nuove opportunità per arricchirsi, per mettere al sicuro le loro monarchie, compresa la Chiesa cristiana apostolica romana, che da tutte queste monarchie colonizzatrici trasse vantaggio.

I libri di storia universale la definiscono “la scoperta” del nuovo mondo, ma per chi quella fu effettivamente una scoperta? Per gli europei, che non sapevano che c’erano altri esseri umani dall’altra parte del loro orizzonte?

Mio stimato lettore, se io non ti conosco e quando mi rendo conto che esisti dico “ti ho scoperto!”, che tipo di relazione sto instaurando? Se, oltre a scoprirti, divento violento e provoco più conflitti di quanti non ce ne fossero già, sto forse avviando una relazione desiderata? Lascio aperta questa domanda, per continuare a fissare l’obiettivo di questo primo articolo dedicato a Mondòpoli. Troveremo a mano a mano la risposta analizzando in che modo la globalizzazione e la relazione tra la “scoperta” e l’acuirsi di conflitti inter- e intra-culturali possano essere percepite dal nostro lato a Sud del mondo.

Gli Incas, una civiltà al culmine del suo splendore all’inizio del XV secolo, con un’architettura che aveva raggiunto vette sconosciute in Europa, furono decimati dall’instaurarsi di questa relazione. Una cultura che sapeva come mettersi in relazione con gli altri popoli e con la natura, che custodiva le più profonde conoscenze di quelle terre per l’epoca e sapeva trarne tutto il meglio possibile, e che eppure non riuscì a opporsi a quella variabile esterna che la distrusse.

Intendo perciò fermarmi al tavolo del dialogo, che ritengo debba articolarsi in tre diversi modalità o tipi di analisi, per poter comprendere la globalizzazione e i relativi conflitti. Una modalità che descriva ciò che la globalizzazione ha rappresentato, compresi gli elementi originari che ancora oggi persistono; un’altra che analizzi ciò che la globalizzazione è e quali siano i conflitti attuali; e la terza modalità che definisca ciò che la globalizzazione potrebbe idealmente essere e il tipo di conflitti nonviolenti che vorremmo fossero affrontati in tempo di pace.

Prima di addentrarmi in ciascuno di questi aspetti della globalizzazione, devo integrare una questione fondamentale sulle relazioni. Le relazioni sono complesse quanto la scienza o il mondo stesso, quindi ho trovato molto utile apprendere come nella tradizione indigena si descriva l’interculturalità, definita come un modo di organizzare le relazioni (Walsh, 2012)

Nello specifico, nella traduzione del pensiero latinoamericano e caraibico, l’interculturalità è quel rapporto tra culture che storicamente ha assunto tre forme chiaramente identificabili. Una prima forma, riferibile all’invasione del 1492, che chiameremo “relazionale”, e che si basa sulle conquiste, sul dominio violento di una cultura su un’altra, sullo stratagemma del “vetro per l’oro”. La seconda, quella del capitalismo, attualmente nella sua forma neoliberista, che definiremo “funzionale”. Funzionale all’integrazione dei leader degli esclusi del mondo nella cultura dominante, al loro sdoganamento, così da utilizzare il discorso dell’integrazione come rimedio all’esclusione. Tuttavia, questa forma di relazione non mette in discussione chi è al potere, e come dovrebbero essere fatte le cose per definire il mondo. Infine, le relazioni che cercano l’emancipazione e l’interculturalità critica.

A poco a poco entreremo nel dettaglio di questa complessità di base, che è la chiave per formare un pensiero globalizzato che sia critico, non solo con il pensiero e con ciò che viene fatto, ma che si interroghi anche sulle sue origini e su ciò che ancora oggi perdura. Decolonizzare il pensiero implica comprendere che i conflitti passati mantengono una linea di vincitori che continuano a voler imporre, ad esempio, il proprio mondo con la forza, attraverso la violenza.

La globalizzazione, che fondamentalmente implica relazioni di varia natura, passa necessariamente attraverso questo scanner di base dei tipi di interculturalità. Sempre che desideriamo essere critici sul modo in cui la definiamo e la usiamo. Da questa prospettiva, possiamo quindi definire una globalizzazione interculturale relazionale, una globalizzazione interculturale funzionale, e una globalizzazione interculturale critica. Ognuna di esse evoca specifici conflitti interni, ma altri ne condivide con le altre forme, come quello già menzionato, cioè quella linea sottile che si attraversa quando si usa il potere per abusare degli altri.

Questo approccio storicistico alla definizione di un concetto per noi è fondamentale. E quando dico noi, intendo riconoscere che il mio pensiero non è solo mio, ma la costruzione generazionale di varie influenze culturali che lo hanno via via forgiato. Dalla costruzione della mia identità, come quella promossa dalla mia famiglia, poi a scuola e così via fino all’università e alle decisioni prese strada facendo.

La definizione di cosa sia la globalizzazione parte quindi dall’ubicazione del contesto, delle relazioni che avvengono da una parte all’altra del globo, nonché dal posizionamento storico a partire dal 1492, quando il mondo fu per la prima volta connesso da idee di conquista.

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Foto Credits: Roberto Trombetta Attribution-NonCommercial 2.0 Generic (CC BY-NC 2.0) attraverso Flickr