Per me non c’è stata emozione più forte di quella che ho provato tornando per la prima volta nel mio paese, dopo esserne fuggito quindici anni fa lasciando indietro tutto. Sono fuggito dall’Afghanistan nel 2007. Era un paese devastato da una sanguinosa guerra civile, dalla guerra al terrore e ai talebani e con una capitale bombardata e militarizzata, ma nonostante tutto si provava – faticosamente – a ricominciare a vivere.

Appena atterro all’aeroporto di Kabul la vista dell’imponente Hindu Kush innevato mi commuove e mi fa sentire felice per un attimo, ma poi precipito nella disperazione quando, all’improvviso, vedo la bandiera bianca con la shahada in nero dell’Emirato Islamico. Col pensiero sono tornato indietro, nel passato, ai giorni che ho trascorso sotto il loro dominio. È stato a causa loro che ho dovuto abbandonare questa terra, dove ora per necessità ho fatto ritorno.

Attraversare Kabul mi mette un senso di ansia. L’aeroporto è deserto, sono arrivati pochi passeggeri e tra loro nessuno straniero, e anche se poi lungo le strade si percepisce una ritrovata sicurezza i controlli si ripetono continuamente.

Ovunque ci sono i check-point delle milizie, all’improvviso spuntano talebani su pick-up armati di kalashnikov.  Sono la cosiddetta polizia morale, osservano il modo in cui si è vestiti, se si stanno facendo foto o video, se si parla al telefono in una lingua che non sia del posto. Mi fermano più volte. Capiscono da quello che indosso che arrivo dall’Occidente, mi guardano con astio e coi fucili puntati, mi rimproverano per l’abbigliamento, mi danno una sforbiciata ai capelli, mi istruiscono su come vestire e comportarmi, e mi sottopongono a tante domande. Data la mia storia familiare non posso non aver paura di loro, mi controllano i documenti ma alla vista del passaporto italiano improvvisamente diventano tranquilli. Mi è andata bene, a differenza di quelli che mi precedevano. Mi lasciano andare, ma in me lo smarrimento è totale.

Nel percorso tra l’aeroporto e il centro della città lo sguardo si posa ai margini della strada polverosa, fiancheggiata da centinaia di migliaia di sepolture. Sono le vittime dei ripetuti attentati, delle incursioni aeree della guerra, dei milioni di mine antiuomo disseminate ancora ovunque, e molte sono sepolture di bambini dilaniati dagli ordigni. Purtroppo ancora oggi continua a succedere e infatti, soltanto a Kabul, durante i due mesi della mia permanenza moriranno più di 150 bambini.  Queste vite spazzate via sono come ferite aperte per chi resta. Quasi ogni afghano ha qualche familiare sepolto lungo quelle strade, e anch’io non sfuggo a questa triste statistica. Non riesco nemmeno a ricordare il numero preciso dei miei familiari ed amici uccisi, l’ultimo – un mio parente paterno – è stato trovato ed ucciso poche settimane fa, mi fermo per un commosso ricordo.

Kabul è una città molto estesa, ci vivono quasi sei milioni di persone, con un inquinamento fuori controllo. L’aria è pesante, le strade polverose. Un tempo era una città molto rumorosa, ma ora mi si presenta silenziosa, ovunque si percepisce un senso di abbandono improvviso. La ricordavo disordinata, caotica, piena di blindati militari, afflitta dal rumore delle esplosioni. Ora le armi tacciono ma ovunque sono rimasti i resti di una guerra appena passata: rovine, attrezzature militari, carcasse di autoblindo, mitragliatrici a pezzi, e sono ancora lì le imponenti barriere di cemento armato antisfondamento con filo spinato, erette a protezione degli occidentali. Questo era il cuore politico e diplomatico della città e a noi locali non era permesso avvicinarsi, era superprotetto. Poso per la prima volta lo sguardo dentro quell’area vuota, simbolo di un’occupazione ventennale, e sono preso da una sensazione di solitudine.

L’Afghanistan è un paese in ginocchio, il vuoto lasciato dalla comunità internazionale è pesante. Kabul è una capitale spenta, nel pieno di una grave crisi finanziaria e sociale.

La prima sensazione è che i talebani non siano diversi dal passato: ho ritrovato gli stessi atteggiamenti e restrizioni con cui hanno governato dal 1996 al 2001, dei vent’anni di progressi fatti non è rimasto nulla e si vede, la situazione è devastante, la popolazione è alla fame.

È sufficiente girare per la città per rendersi conto della grave crisi. La raccontano anche i tanti report e le statistiche delle Nazioni Unite e delle poche ONG rimaste sul territorio, che stimano che il 90% della popolazione afghana sia in stato di grave insicurezza alimentare. Il World Food Program ha rilevato che 28,3 su 38 milioni di abitanti, – di cui 13 milioni bambini – hanno bisogno di assistenza umanitaria. Gli aiuti internazionali rimangono bloccati, molte attività hanno chiuso, non ci sono più investimenti stranieri. Le poche Ong ancora presenti, dopo il divieto di far lavorare le donne, sono in attesa di capire cosa fare e alcune stanno lasciando definitivamente il paese.

La popolazione vive in uno stato di precarietà e cerca di sopravvivere. Il crollo dell’economia si fa sentire, i fondi della banca centrale afghana sono ancora bloccati, non ci sono soldi per pagare gli stipendi, l’inflazione è aumentata a dismisura, la gente non percepisce nessuno stipendio. Il costo della vita e del cibo è salito alle stelle: il grano, il riso, lo zucchero, il latte sono aumentati di oltre il 65% rispetto a due anni fa, e ciò che mi ha colpito maggiormente è stato vedere mercati forniti di tutti i generi alimentari, che la gente non può permettersi di comprare.

Un giro per le strade di Kabul lo conferma. La maggior parte dei negozi ha le serrande abbassate, le attività femminili sono state messe al bando, tutti si affannano per una qualche fonte di reddito, e ovunque ci sono mendicanti. Tra le bancarelle dei mercati si incontrano per lo più uomini, perché le donne che circolano sono poche, ma è stata scioccante la vista di lunghe file di donne, nascoste sotto il burqa, sedute a terra davanti ai negozi a mendicare, soprattutto nel buio della sera (l’elettricità manca spesso), ad aspettare che qualcuno offra anche soltanto un pezzo di pane. Dalle testimonianze che ho raccolto c’è gente che sopravvive mangiando soltanto una volta al giorno, spesso solo pane.

Non meno mi hanno colpito le immagini di bambini e bambine, anche piccolissimi, che riempiono le strade invece delle scuole. Per lo più chiedono l’elemosina, ti vengono incontro, implorano e strattonano i vestiti chiedendo un afghano, l’equivalente di 50 centesimi di euro. Molti sono impegnati nei più diversi lavori: secondo l’Unicef più di un milione di minori sono tornati a lavorare nei campi, nelle miniere, nei negozi, a raccogliere rottami nelle discariche, e in almeno 10 milioni hanno bisogno di cibo e di cure. Il sistema sanitario che dipendeva dagli aiuti esteri è collassato, molti ospedali sono stati chiusi, molti medici hanno abbandonato il paese. Senza i soldi delle rimesse dall’estero ci sarebbero più morti, soltanto per la fame.

Kabul è anche la capitale dei diritti cancellati. Dall’agosto del 2021 le restrizioni e i divieti si susseguono continuamente. Tutti hanno paura di fare qualunque cosa che richiami l’attenzione della polizia morale, all’improvviso si assiste a scene di perquisizioni e le bastonate sono frequenti.

La vita sociale non esiste più, per le strade si respira un’aria pesante e soprattutto si avverte la disperazione nei volti delle persone. Ogni giorno aumentano sempre di più le restrizioni alle libertà individuali: nessuno è libero di muoversi, né di parlare, anche soltanto avere in mano il cellulare è rischioso, i talebani li requisiscono e li controllano. Nessuno si sente al sicuro, anche nei luoghi al chiuso si ha paura, e i miliziani arrivano all’improvviso a controllare se si stanno guardando video (mi è capitato di prendere le difese di due ragazzini bastonati a sangue perché ascoltavano musica al telefono e ho corso un grave rischio, sono stato fermato e percosso). Ascoltare musica non è più consentito, così anche il ballo, lo sport femminile, la televisione o il cinema. I parchi pubblici sono vuoti e in uno stato di abbandono, le donne e gli uomini non possono stare insieme.

Ma è contro le donne che i talebani si sono accaniti maggiormente. Alle donne è stato tolto tutto, ed è in atto la loro eliminazione dalla società: non possono studiare, lavorare, uscire da sole. Ogni donna ogni giorno rischia, per il solo fatto di essere in strada, di essere seguita, aggredita, percossa, ma nonostante i divieti si vedono donne coraggiose che li disattendono, e provano anche a manifestare. All’improvviso può spuntare qualche gruppetto di ragazze con cartelli che chiedono il diritto all’istruzione e al lavoro, e subito vengono disperse con getti d’acqua e colpi in aria di arma da fuoco, le attiviste vengono percosse e arrestate, molte sono state anche uccise. La perdita dei diritti ha colpito tutti, i media sono ridotti al silenzio, molti giornalisti sono riusciti a scappare all’estero, ma molti altri sono semplicemente spariti.

La guerra è finita ma la gente continua a morire per gli attentati, certo non quanto prima, visto che proprio i talebani ne erano i più frequenti autori. Tutti i giorni si sentono esplosioni e tra marzo e maggio diversi ordigni hanno colpito Kabul. L’’Isis-Korasan rivendica le esplosioni, e così cerca di indebolire il governo o alcune minoranze. Per lo più sono attacchi suicidi, a volte davanti alle moschee, altre volte nei mercati o davanti alle scuole, con una media di 30 o 40 morti ad attentato. Davanti all’ospedale di Emergency – uno dei pochi funzionanti a Kabul – nel centro della città, ho visto l’arrivo di feriti sanguinanti, scene forti a cui non ero più preparato.

Da Kabul si continua a fuggire. Succede da molti anni, ma ora la città e l’intero paese si stanno svuotando di un’intera generazione di giovani istruiti, universitari, medici, ingegneri, insegnanti e tante donne. Dalla caduta di Kabul a oggi i rifugiati afghani che secondo l’UNHCR hanno varcato i confini sono stati 1,6 milioni, anche se i dati effettivi non sono ancora disponibili, dato che si tratta di espatri illegali. Tutte le persone che ho incontrato vogliono andar via con ogni mezzo, anche se passare le frontiere non è facile ed è pericoloso. Ho accompagnato al confine tra Jalalabad e Peshawar alcune persone a rischio, attualmente quella dal Pakistan è la via più battuta. Per uscire c’è bisogno ufficialmente del visto, che con difficoltà e con costi elevati viene concesso per un mese, ma la maggior parte di chi fugge si affida ai trafficanti clandestini. Si vedono pullman, macchine, camion incolonnati stracolmi di intere famiglie che tentano di passare la frontiera. Ci sono ancora migliaia di persone compromesse per aver lavorato col precedente governo o con le Ong, e scappano in Pakistan dove rimangono nascoste per mesi in attesa dei corridoi umanitari.

Ho lasciato di nuovo il mio paese, che ormai sprofonda nell’indifferenza generale. Rabbia e dolore mi accompagnano, Kabul ti lascia dentro una sensazione di attesa per qualcosa, ma al momento sembra che non ci sia alternativa ai talebani, anche se il surreale silenzio di questa città in agonia sembra dire che la popolazione non appoggia il nuovo regime. Credo che non si potrà sopportare a lungo la mancanza di democrazia e di diritti, ma intanto la comunità internazionale che ha consegnato il paese ai talebani ha anche accettato di fatto il loro governo e forse potrà perfino riconoscerlo. Vent’anni di guerra sono passati invano.

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