Afghanistan Opinioni

I talebani si riprendono l’Afghanistan

Ahadolla Hoseiny

La ritirata occidentale lascia l’Afghanistan di nuovo nelle mani dei talebani; il loro ritorno al potere vent’ anni dopo essere stati rovesciati dall’operazione “Enduring Freedom”, cominciata il 7 ottobre 2001 con i pesanti bombardamenti e l’occupazione, solleva molti dubbi sull’intento dichiarato: quello di “sconfiggere il terrorismo”, “abbattere il regime dei talebani”, “riportare la democrazia e liberare le donne”.

La guerra in Afghanistan, ad eccezione dell’uccisione di Bin Laden avvenuta a dieci anni dall’invasione, non ha raggiunto nessuno degli obiettivi che si prefiggeva di realizzare e la drammatica realtà che il popolo afghano sta affrontando a causa del ritiro definitivo delle forze armate americane è una tragedia annunciata. Tutte le promesse sono state disattese, gli afghani che hanno creduto negli occidentali si sentono traditi e la restaurazione dell’Emirato Islamico talebano potrebbe presto far svanire le poche conquiste di questi anni.

Ripercorrendo questo ventennio, l’Afghanistan ha pagato un prezzo umano incomprensibile: il Paese è completamente devastato e destabilizzato, tante vittime sono state sacrificate invano, intere generazioni di giovani sono cresciute durante la guerra. Si stima che siano 250 mila le vittime ufficiali (ma in realtà non si hanno certezze su quanti civili siano effettivamente caduti sia per mano occidentale che talebana), 1,3 milioni i disabili e 2300 i miliardi di dollari spesi, 5 milioni gli sfollati interni e 6 milioni i profughi di una crisi umanitaria senza precedenti.

Nonostante ciò, almeno nelle zone urbane occupate dagli occidentali, alcuni progressi erano stati fatti: era cresciuta una società civile impegnata nella svolta democratica del Paese, la vita di migliaia di giovani era cambiata grazie alla possibilità di accedere allo studio, era stata avviata, seppure parzialmente, l’emancipazione delle ragazze e la parità di genere; soprattutto, era cresciuta una nuova generazione di afghani. Il 65% della popolazione afghana oggi ha meno di 25 anni, giovani formati che hanno sfidato i talebani e la mentalità tradizionale per la conquista dei diritti umani; ora tutto questo, dopo appena un mese di restaurazione talebana, sta già scomparendo.

Nonostante il Paese sia ancora tra i meno sviluppati al mondo, in questi vent’anni si erano registrati significativi miglioramenti, grazie anche ai consistenti investimenti, donazioni e interventi di tante ONG.

Rispetto al 2001 sono stati compiuti importanti passi in avanti nel campo dei diritti in generale, ed è innegabile che siano stati compiuti progressi nel sistema sanitario, nelle libertà personali, nell’istruzione, nelle infrastrutture. È bene precisare che, seppur significativi, tali progressi hanno riguardato esclusivamente le aree urbane, escludendo buona parte delle zone rurali ed interne, dove la modernità è stata ostacolata dal profondo radicamento di norme culturali tradizionaliste.

Secondo i dati della Banca Mondiale, sono stati fatti enormi passi in avanti nell’assistenza sanitaria e sono cresciute le aspettative di vita: soltanto quella delle donne è aumentata dai 56 anni del 2001 ai 68 attuali, e sono stati dimezzati i tassi di mortalità infantile ed il rischio di morte per parto. Secondo i rapporti di UNAMA, nel 2001 ogni 1.000 nati morivano 200 bambini entro i primi 4 anni di vita, nel 2020 sono stati molto meno della metà.

Nel 2001, meno del 10% delle ragazze era iscritto a scuola, e solo nella primaria; attualmente la percentuale ha raggiunto il 38%. Il sistema scolastico in questi anni si è ampliato notevolmente, ma è stato significativo soprattutto l’accesso all’università, sia dei maschi che delle femmine.

Indubbiamente in questi ultimi anni la partecipazione delle donne alla vita sociale è aumentata notevolmente.

Il processo di emancipazione per migliaia di donne è passato anche tramite la possibilità di lavorare; fino ad oggi un numero sempre maggiore di esse ha lavorato in ambito governativo, nella magistratura, nei media. Ciò non era consentito sotto il regime talebano, mentre recentemente erano arrivate a costituire oltre il 40% del corpo insegnante e del personale sanitario, un quinto dei dipendenti pubblici, e in Parlamento un seggio su quattro era occupato da una donna; molte ONG hanno inoltre aiutato le donne a gestire piccole e grandi imprese grazie al microcredito.

Una presenza molto significativa di donne si è espressa in campo artistico, nella musica, nel cinema; Sahraa Karimi, regista di fama internazionale, è stata la prima donna direttrice dell’Afghan Film.

Il miglioramento è molto visibile nelle diverse infrastrutture, dal notevole ampliamento della rete stradale alla copertura elettrica. Nel 2001 meno del 6,3% della popolazione aveva accesso all’elettricità, mentre nel 2020 la copertura è arrivata al 90%; è stato anche ampliato l’accesso all’acqua potabile. Non ultime le linee telefoniche: un tempo praticamente inesistenti, attualmente hanno raggiunto 40 milioni di linee di telefonia mobile.

Molto significativo è stato lo sviluppo dei media liberi che tanto hanno contribuito a sensibilizzare la popolazione, diventata consapevole dei diritti raggiunti e che in questi giorni si è vista per le strade a protestare in vari modi, cosa impensabile fino a qualche anno fa.

Tutto questo ora è estremamente a rischio.

Le scene tragiche viste all’aeroporto di Kabul hanno scosso le coscienze occidentali.

Per giorni i media internazionali hanno ripreso la popolazione civile in preda alla disperazione mentre cercava di lasciare il Paese per sfuggire al ritorno dell’orrore vissuto vent’anni prima. Immagini forti e spettacolari, e per me che ho vissuto quel passato è molto doloroso raccontare le vicende drammatiche del mio Paese. Comprendo e ho ben presente il panico di quella folla stipata nei pressi dell’aeroporto della capitale all’idea di rivivere il regime del passato.

Ma non mi hanno stupito le scene di disperazione della gente che si aggrappava agli aerei che decollavano per scappare, nel momento in cui la comunità internazionale li stava abbandonando. In questi ultimi anni, senza il risalto mediatico, altrettante migliaia di afghani, soprattutto giovani e minori, lasciavano il Paese rischiando la vita aggrappati sotto gli assi dei Tir per giungere in Europa, per sfuggire alla guerra, ai bombardamenti, ma anche all’avanzata talebana, che seminava terrore e morte con attacchi nelle strade, nelle scuole, negli ospedali, nelle moschee.

Tutto questo non faceva notizia.

In realtà i talebani non se ne sono mai andati. In questi anni sono rimasti presenti in vaste aree del Paese e con il tempo sono andati riacquistando potere rispetto a quando governavano, arricchendosi col commercio dell’oppio, un tempo considerato contrario all’Islam; oggi non sembrano rinunciarvi, e i proventi sono serviti per armi e stipendi.

Con il tempo si sono riorganizzati in un vero e proprio Stato parallelo dove i diritti, soprattutto quelli delle donne, sono stati di nuovo fortemente limitati.

Da queste pagine nei mesi scorsi avevamo annunciato il disastro della pace firmata a Doha il 29 febbraio 2020 tra USA e talebani. I talebani da terroristi erano diventati gli interlocutori privilegiati della pace ed avevano ottenuto la liberazione di seimila miliziani tornati ad agire in queste settimane di agosto.

L’ ONU aveva ampiamente documentato come, dalla firma dell’accordo di Doha, l’escalation degli attacchi alla società civile si fosse intensificata e quelli messi in atto contro giornalisti, studenti, donne impegnate nelle istituzioni, attivisti e minoranze etniche non sono stati che un anticipo.

Da mesi, di pari passo con l’avanzata talebana, era iniziato un crescente flusso di sfollati interni: oltre 500 mila persone andavano ad aggiungersi ai 4 milioni di sfollati; interi nuclei familiari sono stati costretti ad abbandonare i loro villaggi, soprattutto minoranze etniche che si sono riversate su Kabul considerandola più sicura proprio per la presenza occidentale.

Il dramma della fuga di questi ultimi giorni è soltanto l’epilogo finale di una situazione già difficile da tempo, che ha portato in questi ultimi vent’anni 700 mila afghani a fuggire e chiedere la protezione internazionale in Europa. Si calcola che più di mezzo milione di afghani da anni siano in attesa nei campi in Turchia, in Grecia, nei Balcani ed è di queste ultime ore l’emergenza tra la Bielorussia e la Polonia, dove sono stati già respinti tra i due lati del confine i primi afghani che da mesi avevano intrapreso questa nuova rotta.

L’Agenzia per i Rifugiati delle Nazioni Unite (UNHCR) calcola che quasi 6 milioni di afghani siano fuori dal Paese. La maggior parte ha trovato rifugio nei paesi confinanti, soprattutto in Pakistan dove ne sono ancora ospitati 1,5 milioni e due generazioni di persone sono prive di cittadinanza; l’Iran ufficialmente ne ospita 780.000, ma ce ne sarebbero altri 2,6 milioni senza documenti. Secondo le autorità iraniane, da giugno di quest’anno sui confini orientali sono entrate irregolarmente oltre 5 mila persone al giorno, essenzialmente di etnia Hazara, ed in questi ultimi giorni sono stati allestiti tre nuovi campi di accoglienza. Però si sta costruendo una grande barriera ai confini.

La possibilità che da qui a qualche mese inizi un grande esodo è abbastanza realistica. Al momento le milizie controllano tutti i passaggi di uscita, ma sarà difficile fermare un popolo disperato che vorrà riacquistare la dignità perduta nel proprio paese; nulla lo fermerà, né i trafficanti senza scrupoli, né i confini militarizzati.

Intanto, in attesa che arrivino i profughi, vari Paesi si stanno affrettando a costruire muri, si sta completando velocemente la muraglia di 40 chilometri tra Turchia e Grecia, si stanno attivando la Bielorussia e la Polonia e il filo spinato ha già fatto la sua comparsa nei Balcani.

Ora i talebani sono di nuovo al comando, e dicono di essere cambiati. Non è così, la risposta è nei fatti, non sono molto diversi o migliori da quelli del passato, sono gli stessi integralisti e fanatici di sempre.

La comunità internazionale auspicava un ritorno moderato, un governo che coinvolgesse rappresentanti delle diverse etnie e di tutte le fasce della popolazione. Il governo appena insediatosi è tutt’altro che inclusivo, nei posti chiave sono stati collocati i più temuti e ricercati terroristi a livello internazionale: dal primo ministro Hasan, in passato consigliere politico del Mullah Omar, leader indiscusso del primo governo talebano, il cui nome è sulla lista Onu dei terroristi, al ministro degli interni Haqquani, nome che suscita non poche preoccupazioni, leader della temibile rete Haqquani network, ritenuta vicina ad Al Qaeda, ricercato dall’FBI con una taglia da 10 milioni di dollari, reo dei peggiori massacri avvenuti in questi anni nel Paese, ad Abdul Ghani Baradar, vice-premier, cofondatore dei talebani, liberato dalle carceri pakistane dagli americani come interlocutore privilegiato a Doha, fino ad Ashraf Ghani, detenuto per 8 anni a Guantanamo.

Nel secondo emirato talebano, nonostante le rassicurazioni fatte alla comunità internazionale di voler rispettare i diritti delle donne e delle minoranze, si è già manifestato il volto intollerante.

A distanza di un mese e mezzo sono stati cancellati vent’anni di progressi, sono stati imposti una serie di obblighi e già sono in atto restrizioni ai diritti umani in tutto il Paese.

Uno alla volta, giorno dopo giorno, stanno tornando i divieti già visti in passato.

Fra il 1996 ed il 2001, quando i talebani governarono, imposero una stretta interpretazione della sharia tramite il Ministero per la “Promozione della virtù e l’eliminazione del vizio”, ministero immediatamente ripristinato per controllare e piegare di nuovo la popolazione e punire le trasgressioni alle loro imposizioni e restrizioni. Gli afghani sanno bene cosa significhi, molti ricordano ancora le amputazioni delle mani e le impiccagioni, e puntualmente sono riprese le esecuzioni. Di contro è stato soppresso il Ministero per gli Affari Femminili, esplicito provvedimento volto alla cancellazione delle donne dalla società.

In tutto il Paese è già in vigore l’ordinanza che vieta alle donne di uscire se non accompagnate da un mahram, un maschio di famiglia, e per il momento non è stato consentito loro di tornare al lavoro; solo a Kabul, a 3000 donne che lavoravano nell’amministrazione pubblica è stato vietato di entrare nei loro uffici.

Dal 18 settembre hanno riaperto le scuole, ma già è iniziata la discriminazione nei confronti delle bambine, escluse dalla 7a alla 12a classe; possono frequentare solo la scuola primaria e non proseguire gli studi; anche le insegnanti debbono restare a casa. Inoltre è stato annunciato da Abdul Baqui Haqqani che “alcune materie in contrasto con la sharia verranno eliminate da tutti i programmi di studio”.

Intanto si stanno spegnendo i riflettori dei media: oltre un centinaio di reti, radio e testate locali hanno chiuso, centinaia di giornalisti, sia uomini che donne, sono scappati in esilio o vivono nascosti. I media che ancora trasmettono lavorano devono rispettare le regole imposte dalla censura, e la stampa internazionale rimasta sul territorio è pressoché azzerata.

È difficile da fuori il Paese rendersi conto di quanto stia già accadendo. Scarseggiano soprattutto le notizie dalle province più remote, dove per molte ore al giorno manca l’elettricità; ugualmente difficili, se non impossibili, sono i collegamenti con l’esterno. Le uniche notizie dirette e non censurabili arrivano da amici e parenti, fin quando i social media non saranno vietati.

Le testimonianze riportano l’angoscia e la paura di tutti quelli che si sono più esposti per i diritti: non hanno più una vita, si nascondono, non possono uscire di casa, e sono pronti a tutto pur di abbandonare il paese; sembra che i talebani risparmino soltanto chi abbia lavorato nel campo sanitario. Particolarmente drammatica è la situazione degli ex militari: non hanno più uno stipendio e le loro vite sono in pericolo, continuano le ritorsioni ed i rastrellamenti casa per casa, giungono notizie di omicidi per vendetta, di esecuzioni a sangue freddo di tanti ex militari, mentre molti collaboratori di ONG straniere sono stati convocati in giudizio dalle corti talebane.

L’incertezza domina tutti gli aspetti della vita e peggiora di giorno in giorno. Le città si sono svuotate, mercati e parchi sono deserti, vuoti i posti di lavoro, le donne sono praticamente sparite dalle strade, salvo le poche che sono di nuovo completamente coperte, e vivono rinchiuse nelle case nascoste agli occhi esterni.

L’intero paese è al collasso totale, la crisi economica, alimentare e sanitaria è sempre più preoccupante, molte ONG hanno abbandonato il Paese e in questo momento sono poche quelle rimaste operative. I principali donatori, come la Banca Mondiale, hanno interrotto i finanziamenti.

Il contesto era già quello di un’emergenza: prima della caduta di Kabul 18 milioni di persone necessitavano di assistenza umanitaria a causa della guerra e dei disastri naturali, e secondo la Banca Mondiale circa il 40% del Pil dipendeva dagli aiuti stranieri; secondo il Programma per lo Sviluppo delle Nazioni Unite, a metà 2022 il 97% per cento della popolazione si ritroverà in condizioni di povertà, ma è già emergenza fame; il cibo è razionato, si distribuiscono i pacchi di beni di prima necessità.

Il tasso di disoccupazione è altissimo, migliaia di persone che lavoravano per il governo hanno perso il lavoro e molte strutture anche sanitarie hanno dovuto chiudere per mancanza di medicine e liquidità per gli stipendi del personale; molti negozi sono chiusi, l’import e l’export sono fermi, i prezzi dei generi alimentari sono triplicati. Tra un mese secondo la FAO potrebbero finire le scorte di cibo.

Sono state chiuse tutte le attività considerate occidentali, dai centri estetici ai saloni di ricevimento e matrimoni, alle palestre, ai ristoranti, alle scuole private, e tante altre ancora.

L’Afghanistan è di nuovo un Paese senza attività artistiche.

È tornato il divieto della musica, del cinema, della televisione, dello sport per le donne, di alcuni giochi; è stato limitato l’uso degli smartphone, è stato ripristinato il controllo della lunghezza della barba e dell’abbigliamento sia femminile che maschile.

Quando i talebani nel 1996 presero il potere vietarono il cinema, la televisione, la pittura e in particolare molto duro fu l’accanimento nei confronti della musica, che fu definita “impura” e messa fuori legge. Furono incendiati gli strumenti musicali, fu distrutto l’archivio musicale di Stato. In questi giorni c’è molta apprensione per l’Istituto nazionale di musica afghano, creato da Ahmad Sarmast, più volte scampato agli attentati dei talebani. Aveva realizzato una scuola dedicata ai giovani, ai bambini svantaggiati e agli orfani, privilegiando soprattutto le ragazze, con la Zhora Orchestra, tutta al femminile, che in questi anni era diventata un’eccellenza e promuoveva l’unione interculturale delle diverse etnie del Paese.

Molti artisti sono già stati uccisi.

Il mio pensiero va a Fawad Andarabi, anziano cantante e musicista folk afghano, che con la sua arte girava i luoghi più remoti, di villaggio in villaggio, dove stendeva un bellissimo tappeto afghano colorato attorno al quale radunava la gente a cantare, mantenendo vive le tradizioni musicali tra la bellezza delle valli afghane. Andarabi è stato ricercato ed ucciso con un colpo alla testa dai talebani il 29 agosto. La sua musica, quella della tradizione, è considerata impura.

La sua voce è stata spenta, così come quella del comico Khashe Zwan a Kandahar e quella del poeta Abdullah Lufti, ucciso ad Arzagan, e a quella di altri artisti.

A quasi due mesi di distanza la normalizzazione talebana è quasi compiuta.

Foto credits: 

Frans van Huizen, CC BY-SA 4.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0>, via Wikimedia Commons

Ninara from Helsinki, Finland, CC BY 2.0 <https://creativecommons.org/licenses/by/2.0>, via Wikimedia Commons