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“Tutti significa tutti”? Il rebus delle elezioni libanesi e i partiti anti-establishment

Campelli Enrico

La dinamica elettorale, spesso “maneggiata” in modo fin troppo disinvolto e superficiale, può rivelarsi – in particolari circostanze – un importante indicatore critico, capace di evidenziare movimenti sociopolitici ancora allo stato nascente, e dunque privi di un linguaggio articolato chiaramente comprensibile. Talvolta, se l’analisi ne recupera adeguatamente il contesto, essa mostra una speciale capacità sintetica che permette di intravedere, in modo sommario ma riconoscibile, i segni abbozzati di un futuro possibile. È il caso delle elezioni parlamentari che si sono tenute recentemente (maggio 2022) in un Libano stremato, e che possono quindi essere efficacemente comprese solo analizzando il sistema politico del paese e la sua contingenza socioeconomica.

Ordinamento particolarmente diviso e complesso, che attraversa da molto tempo una profonda crisi economica e politica, il Libano è segnato da anni da partecipate proteste di piazza e da una classe politica considerata profondamente corrotta e priva di ogni credibilità. Ebbene: per molti aspetti le elezioni del 15 maggio 2022 segnano un cauto ma importante passo nel più ampio progetto di superamento della vecchia politica settaria libanese e l’affacciarsi nell’arena politica di partiti non tradizionali. Simili intenti erano già ben riassunti nel potente slogan delle proteste del 2019: “Tutti vuol dire tutti”, ad evidenziare il bisogno di un rinnovamento completo, che superasse le formazioni politiche tradizionali e favorisse le candidature indipendenti provenienti dalla società civile. Proprio il risultato delle nuove formazioni sembra essere una diretta conseguenza delle proteste degli ultimi due anni, le prime nel quadrante mediorientale, politicamente segnate dalla volontà di superare le divisioni etniche e religiose che condizionano e costringono le istituzioni.

Volti che per molti decenni sono stati presenze costanti nell’equazione politica del paese sono ora fuori dall’Assemblea Nazionale (Majlis al-Nuwwāb, il Parlamento unicamerale libanese). Di contro, personalità nuove e relativamente poco conosciute (spesso provenienti dai movimenti di piazza del 2019), sono stati elette con la speranza che possano donare nuovo impulso ad un sistema politico decisamente bloccato. Peraltro, dopo un primo momento di euforia post-elettorale, la realtà si è già scontrata con i problemi che continuano ad affliggere il Libano per il terzo anno consecutivo, in particolare sul fronte economico. I risultati riflettono infatti la rabbia – e la precarietà – esplosa nelle rivolte di massa del 2019, innescate da un crollo finanziario che molti attribuiscono alla corruzione dilagante e alle divisioni settarie del Paese, a un sistema politico e amministrativo lacunoso e clientelare, responsabile di discriminazioni e omissioni gravissime. Il Fondo Monetario Internazionale (Fmi) ha descritto il tracollo del Libano –  una volta considerato “la Svizzera del Medio Oriente” – , come uno dei più preoccupanti nella storia moderna, le cui cause datano da ben prima della pandemia. Il debito pubblico ha infatti superato del 180% il Pil, e la recessione in tre anni ha spazzato via il 40% del reddito pro capite, con la lira libanese che ha perso il 90% del proprio valore.

Alimentata da decenni di corruzione e intrighi di palazzo, la crisi affonda le sue radici in tempi relativamente lontani e ha subìto una brusca accelerazione a partire dall’agosto 2020,  quando un’enorme riserva di nitrato di ammonio è esplosa nel porto della capitale provocando oltre 250 morti, 7mila feriti e migliaia di sfollati, dilaniando i quartieri circostanti.  L’esplosione nel porto di Beirut, la più grande esplosione non nucleare della storia, è stata ampiamente – e credibilmente – attribuita alla negligenza del Governo (con i ministri di Hezbollah, alleati di Aoun, che hanno fatto di tutto per sabotare l’inchiesta), e la Banca Mondiale ha descritto quella libanese come una delle peggiori crisi finanziarie del mondo dal 1850, con il 75% dei libanesi che attualmente vive sotto la soglia di povertà.

La paralisi politica, le divisioni religiose, la crisi economica e le tensioni geopolitiche che covano sotto la cenere anche a livello regionale potrebbero infatti rivelarsi una miscela esplosiva per un paese in cui scarseggiano ormai anche le risorse energetiche primarie, dove ormai da oltre un anno sono introvabili anche i più comuni farmaci da banco e che ospita oltre due milioni di profughi su una popolazione complessiva di circa sei milioni di persone.

A livello generale, e nonostante si sia ancora lontani dalla formazione di una maggioranza (processo che in Libano ha sempre richiesto lunghi periodi di negoziazione politica post elettorale) le elezioni dimostrano come le aspettative di un profondo rinnovamento del Paese e della sua classe dirigente non abbiano trovato un riferimento politico unico o saldo, e in qualche caso siano state tradite dalle tradizionali logiche clientelari e settarie, rappresentate dai partiti politici al potere, incapaci – quando non apertamente contrari – ad avviare un processo di radicale rinnovamento del sistema politico e istituzionale. Di contro, sebbene non si possa parlare di un voto “generale” di protesta, i risultati delle recenti elezioni delineano un Parlamento con alcune importanti novità in termini di attori politici e partitici.

Nonostante fossero in molti a ritenere che Hezbollah avrebbe facilmente mantenuto la maggioranza e che probabilmente avrebbe incrementato ulteriormente il distacco dai partiti dell’opposizione – vista anche la rinuncia di Saad Hariri e il boicottaggio delle elezioni da parte del suo partito, Al Mustaqbal (Movimento il Futuro) – le elezioni, hanno dato un segnale di speranza – parziale ma evidente – al fronte di protesta, segnalando nuovamente come una mobilitazione politica di larga scala possa influenzare anche un sistema disfunzionale e spesso dominato da milizie militari come quello libanese.

Analisi dei risultati

Le elezioni vedono un potenzialmente significativo cambiamento nel complesso panorama politico libanese. La coalizione costituita da Hezbollah (gruppo militante e partito politico musulmano sciita, sostenuto dall’Iran) e dai suoi alleati ha perso la maggioranza in Parlamento, assicurandosi solo 61 seggi su 128, dunque in calo rispetto ai 71 delle elezioni del 2018, mentre i gruppi sostenuti indirettamente da USA e Arabia Saudita sono ora maggioritari in Parlamento, con 67 seggi. Sebbene sia improbabile che questa flessione indebolisca seriamente il potere militare e politico del partito, vanno segnalati i 13 candidati indipendenti (spesso eletti su piattaforme anti-establishment) che hanno ottenuto voti a sufficienza per essere eletti. L’elezione di candidati indipendenti, in netto aumento rispetto al 2018 e vero campanello d’allarme per Hezbollah ed i suoi alleati, mostra un chiaro risentimento nei confronti dei principali partiti settari e tradizionali. Qualora le opposizioni riuscissero a raggiungere un’intesa di collaborazione parlamentare, i deputati indipendenti potrebbero giocare un ruolo inedito a scapito del sistema politico settario tradizionale, proprio come richiesto a gran voce dalle piazze nei mesi passati.

Vista la sconfitta del gruppo parlamentare più numeroso (formato, insieme ai partiti sciiti Hezbollah e Amal, dalla formazione cristiano-maronita Corrente Patriottica Libera fondata dall’attuale Capo dello Stato, Michel Aoun e guidata da suo genero ed ex Ministro degli Esteri, Gebran Bassil), sarà ora necessario individuare alleanze inedite per governare. Un interessante aspetto che emerge dal voto, e che bene inquadra le dinamiche politico-confessionali in corso, è la vittoria, in seno alla comunità cristiana maronita, delle Forze Libanesi (FL) guidate da Samir Geagea, che scalza la Corrente Patriottica Libera (CPL) come partito cristiano più votato. Nemico giurato di Assad e di Hezbollah, da decenni Geagea è una delle figure più controverse della scena politica libanese. Capo di una delle milizie cristiane durante la guerra civile (1975-1990), ha scontato undici anni in carcere per motivi politici ritornando nell’arena pubblica nel 2005 come principale alleato di Hariri nell’Alleanza del 14 marzo. Il dato ha in questo caso una doppia valenza: da un lato segnala un “movimento” dell’elettorato cristiano, dall’altro indica come il calo di consensi non coinvolga Hezbollah ma i suoi alleati parlamentari cristiani, segnalando altresì una certa “resistenza” dell’elettorato del partito sciita. Le Forze Libanesi hanno ottenuto 19 seggi (quattro in più rispetto al 2018), mentre la CPL passa da 26 a 17 seggi. Tra gli altri partiti cristiani, Kataeb, si è aggiudicato 4 seggi (uno in più rispetto al 2018), mentre Marada ha ottenuto 2 seggi (nel 2018 erano 3). Proprio il leader pro-Hezbollah e pro-Assad del Libano settentrionale di Marada, Suleiman Frangieh Jr., ha visto la sua influenza ridursi considerevolmente, non riuscendo a garantire la maggioranza nemmeno nella sua città natale di Zgharta. Sia Bassil che Frangieh non possono più pretendere di rappresentare correnti maggioritarie nella comunità cristiana maronita, e hanno dunque visto sfumare le rispettive possibilità di arrivare alla Presidenza della Repubblica.

In ambito sciita, i filoiraniani di Hezbollah hanno mantenuto i 15 seggi ottenuti nel 2018, mentre Amal, partito del Presidente del Parlamento Nabih Berri, è passato da 17 a 15 seggi. L’alleanza sciita ha dunque mantenuto i precedenti seggi in Parlamento, mancando però l’obiettivo dichiarato delle elezioni: assicurarsi che gli alleati nelle altre comunità confessionali mantenessero i precedenti numeri. Con il crollo di CPL, Hezbollah ha perso il suo principale alleato cristiano, prezioso soprattutto a causa dell’avvicinarsi della fine del mandato presidenziale di Aoun alla fine di ottobre. L’alleanza sciita ha inoltre perso alleati chiave nelle comunità sunnite e druse e di fatto non dispone più della maggioranza su cui poteva fin qui contare in Parlamento. I numeri però, non devono trarre in inganno: oltre ad una maggioranza relativa in Parlamento, i partiti sciiti libanesi possono contare su milizie armate estremamente potenti, che non esitano ad usare la forza all’interno e all’esterno del Paese per perseguire i propri obiettivi o, più in generale, quelli pro-siriani dell’Alleanza dell’8 marzo. La vera sconfitta della coalizione guidata da Hezbollah è dunque arrivata sia dalla flessione dei partiti tradizionali sia, come detto, dal lento aumento dei consensi di formazioni nuove e generalmente anti-establishment. Per la prima volta nella storia del Libano post-bellico, proprio nella roccaforte di Hezbollah – nel sud del paese – sono stati eletti al Parlamento un cristiano e un druso, non solo non alleati di Hezbollah, ma anzi candidati dell’opposizione anti-establishment: il medico Elias Jradeh e l’avvocato Firas Hamdan.

Sul fronte sunnita, come previsto, si è registrato un ampio astensionismo, e la gran parte dei voti è stata distribuita tra una vasta gamma di liste anti-Hezbollah o riformiste, laddove, al contrario, gli alleati sunniti di Hezbollah e Assad hanno fatto registrare un risultato decisamente deludente. I deputati vicini ad Al Mustaqbal – partito che alla vigilia del voto aveva invitato gli elettori all’astensionismo – hanno ottenuto 7 seggi. Il Partito socialista progressista guidato da Jumblatt e i deputati ad esso collegati (a maggioranza drusa) hanno ottenuto otto seggi. Vale la pena sottolineare inoltre come proprio i candidati espressi dalla comunità drusa, politici di lunga data pro-Hezbollah e pro-Assad, abbiano perso contro i riformisti della società civile. Infine, i gruppi di contestazione – legati a vario titolo al Movimento del 17 ottobre – hanno ottenuto 13 seggi, mentre 15 sono andati agli indipendenti, di orientamento vario. Hezbollah, Amal, la Corrente Patriottica Libera e gli altri alleati minori ora occupano  61 seggi nel nuovo Parlamento, lontani dai 65 necessari per ottenere la maggioranza e formare un Esecutivo. È quindi probabile che,  come nel 2018, quando ci vollero ben tredici mesi per formare un Governo, seguiranno lunghi negoziati fra diversi partiti e forze politiche.

In tutto il Paese, i partiti tradizionali hanno cercato di mantenere il controllo sugli elettori offrendo loro piccole somme di denaro, aiuti alimentari, mezzi di trasporto e altri favori di varia natura: si tratta elementi apparentemente “minori”, che tuttavia possono fare una grande differenza in un ordinamento in cui gli elettori devono votare nel luoghi di origine dei loro antenati di sesso maschile, indipendentemente dalla loro residenza effettiva, con il risultato che milioni di persone sono costrette, nel giorno delle elezioni, a spostarsi in tutto in territorio nazionale per votare. Nelle attuali gravi condizioni economiche di gran parte dei cittadini, era logico prevedere un altissimo tasso di astensionismo qualora i partiti non avessero pagato e organizzato il viaggio di grandi gruppi di elettori. Si tratta di “agevolazioni” che la legge libanese consente, ma che Nizar Rammal, candidato sciita nel 3° distretto sud, ha apertamente descritto come una “corruzione indiretta” da parte della classe dirigente. È certamente plausibile pensare che, se non fosse stato per questi “indispensabili” benefit e del loro possibile effetto sulle fasce più povere di popolazione, la flessione dei partiti tradizionali, avrebbe potuto essere ancora più significativa. D’altra parte, il tasso relativamente alto di astensione ha probabilmente giocato a favore dei movimenti e dei candidati anti-establishment. Un indizio in proposito si ricava dal fatto che mentre la diaspora libanese – che ha votato con una settimana di anticipo e che si colloca su posizioni politicamente più aperte – ha fatto registrare un’affluenza al voto pari a circa il 60%, i residenti del paese hanno mostrato un’affluenza sensibilmente minore: circa il 49% secondo i dati finali del Ministero dell’Interno, e dunque pari all’affluenza del 2018.

Tutti significa tutti”: quali scenari ora?

Nelle prossime settimane il Parlamento dovrà innanzitutto eleggere un Presidente. Si tratta di un compito difficile, nel quadro di un sistema costituzionale reso particolarmente complesso dai vincoli confessionali. È bene ricordare infatti che l’ordinamento confessionale stabilito dopo la guerra civile libanese del 1975-1990 con gli Accordi di Taif (1989), divide i seggi in Parlamento tra i principali gruppi religiosi del Paese e assegna posizioni di vertice ai tre gruppi maggioritari: il Presidente del Parlamento deve essere un musulmano sciita, il Primo Ministro un musulmano sunnita e il Presidente della Repubblica un cristiano maronita. Quanto dunque al ruolo di Presidente, il leader di Amal, Nabih Berri, ha ricoperto l’incarico per gli ultimi 30 anni, e non è esclusa una sua riconferma, nonostante i risultati elettorali delineino necessariamente una strada in salita. Il Presidente dovrà urgentemente avviare le consultazioni parlamentari per designare qualcuno che, in una delicata negoziazione e creazione di una maggioranza inedita, formi il prossimo Governo. Il nuovo Parlamento, con equilibri ancora tutti da sperimentare, non vede attualmente figure carismatiche alternative all’attuale Primo Ministro Najib Mikati, nonostante il suo pessimo risultato elettorale. La nomina di un Primo Ministro e il processo di formazione di un nuovo Governo potrebbero però, come detto, richiedere molto tempo e non realizzarsi nemmeno prima del prossimo grande appuntamento politico libanese: le elezioni presidenziali che dovrebbero svolgersi entro la fine di ottobre. Il piano originale di Hezbollah, che voleva affidare la carica ad uno dei suoi alleati cristiano maroniti Bassil o Frangieh (in base, come sottolineato, alle disposizioni costituzionali derivanti dagli Accordi di Taif), non è più praticabile. L’elezione di un Presidente richiede infatti un quorum di due terzi in Parlamento – una cifra a cui nessuna possibile coalizione sembra potersi avvicinare – prospettando un vuoto presidenziale potenzialmente molto lungo.

Di contro, il paese ha un disperato bisogno di un nuovo Governo che possa collaborare con il nuovo Parlamento per attuare riforme economiche urgenti, necessarie per garantire un pacchetto di salvataggio del FMI e iniziare a invertire la rotta socioeconomica per evitare il collasso. Sebbene queste elezioni abbiano portato cambiamenti politici significativi e positivi, il raggiungimento degli obiettivi espressi dal motto delle proteste del 2019, “Tutti vuol dire tutti”, che ben delinea la volontà di abbandonare i partiti tradizionali, reputati generalmente colpevoli non solo della spaventosa crisi economica nazionale ma anche delle divisioni politiche e sociali, rimane ancora in buona parte allo stato di aspettativa. Lo scenario post-elettorale rende infatti difficile immaginare la creazione di un consenso trasversale indispensabile per attuare le grandi e necessarie riforme socioeconomiche (prima ancora che politico-istituzionali).

Per quanto la coalizione cui partecipa abbia complessivamente perso consenso, Hezbollah ha consolidato la propria popolarità grazie alla sua avversione alle politiche occidentali nella regione e alle sue politiche di welfare a sostegno della popolazione, che tendono a sostituire de facto le istituzioni, ormai cronicamente corrotte e disfunzionali. Sebbene il gruppo rimanga il leader indiscusso della comunità sciita libanese, Randa Slim, Direttrice del Middle East Institute (MEI), ha dichiarato: «the election results indicate it can no longer claim that the majority of Lebanon views Hezbollah’s weapons as an integral part of national security. This is evident in the level of voter support for the Lebanese Forces, which seeks to disarm Hezbollah. The group commands tens of thousands of active fighters and has been called the world’s most heavily armed nonstate actor».

Uno dei rischi maggiori è proprio quello di una lunga paralisi politica e istituzionale, che non farebbe che aggravare la tremenda crisi economica e sociale in cui versa il paese. Un altro rischio è invece che Hezbollah ricorra alla violenza per regolare i conti con i propri rivali e perseguire la propria agenda politica, magari provocando un’altra guerra contro Israele, come già avvenuto nel 2006. Molto dipenderà anche dagli sviluppi su scala regionale, in particolare dalla rivalità fra l’Arabia Saudita e l’Iran. I risultati delle elezioni parlamentari a questo proposito hanno rafforzato la posizione dell’Arabia Saudita e indebolito quella dell’Iran e della Siria e l’incertezza derivante da un quadro politico così incerto potrebbe spingere Hezbollah e i suoi alleati a ricorrere alla forza.

Per quanto, come si è visto, le istanze popolari delle proteste del 2019 siano riuscite solo in parte a caratterizzare i risultati elettorali, le elezioni mostrano che una componente significativa del popolo libanese si oppone allo status quo. I risultati potrebbero dunque incentivare paesi come Stati Uniti, Francia e Arabia Saudita a investire nelle forze di opposizione. I deputati indipendenti o anti-establishment, che grazie anche alle proteste “Tutti vuol dire tutti” hanno fatto capolino nel Parlamento libanese, avranno bisogno di una strategia politica e parlamentare di lungo periodo, per sopravvivere e riuscire a imporsi senza essere fagocitati dalle negoziazioni dei partiti tradizionali in vista delle elezioni presidenziali. La mancanza di credibilità del ceto politico, le divisioni confessionali di un sistema politico ed istituzionale bloccato e diviso e la resistenza di tutti i partiti – oltre che della comunità internazionale – nel dare voce alla società civile, possono riuscire a disperdere la tensione popolare e a trasformare il potenziale delle manifestazioni del 2019 in astensione anziché in un voto per il cambiamento. È forse questo il peggior pericolo che dovranno fronteggiare le forze politiche che tenteranno di assumersi la responsabilità di cambiare strutturalmente il Libano delle prossime generazioni.

Foto Credits: Shakeeb Al-Jabri Attribution-ShareAlike 2.0 Generic (CC BY-SA 2.0) attraverso Flickr