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Afghanistan: vent’anni sotto le bombe, un presente di fame

Ahadolla Hoseiny

L’intervento militare da parte degli USA e dei paesi NATO in Afghanistan ci ha insegnato che la guerra non risolve i conflitti, ma è soltanto un’offesa ai popoli che la subiscono. In questi vent’anni la vita, la dignità e la libertà del popolo afghano sono state calpestate e se ne rimane segnati a vita. Attualmente in Ucraina è in corso un altro devastante conflitto dagli esiti imprevedibili e tutti speriamo che non diventi un’altra guerra infinita come quella afghana.

La crisi umanitaria in Ucraina è di enormi dimensioni: la migrazione forzata della popolazione è già in corso, l’Unhcr stima che oltre un milione di profughi siano già fuggiti e molti altri milioni sono pronti ad abbandonare il paese. Non sono soltanto ucraini: dentro il paese sono intrappolati anche novemila afghani, molti dei quali vi risiedono da anni, dopo aver passato l’inferno della rotta balcanica, mentre altri sono arrivati questa estate con il ponte aereo. Ancora privi di documenti, oggi sono impossibilitati a fuggire, perché non possono entrare nell’area Schengen come i cittadini ucraini se non in possesso del visto. Alle frontiere si vedono cartelli con la scritta “sono scappato da Kabul, ma la guerra mi ha inseguito e mi ferma a Kiev”. Le guardie di frontiera polacche e ungheresi non li fanno passare e vengono cacciati dai treni, dovendo dare la precedenza nella fuga ai cittadini ucraini. Sono profughi anche loro, ma oltre agli afghani diverse altre comunità straniere stanno soffrendo discriminazioni, subendo una gravissima violazione del diritto umanitario internazionale che stipula che qualsiasi civile in fuga dalla guerra non deve essere discriminato sulla base della nazionalità, come ricorda in queste ore l’associazione Asgi (Associazione studi giuridici immigrazione).

Nel frattempo in Afghanistan si continua a morire non più per la guerra, ma per le conseguenze che essa ha lasciato. Sono passati sei mesi da quando i Paesi occidentali se ne sono andati e dalla presa di Kabul da parte dei talebani, e oggi il Paese si trova secondo l’Onu “ad un passo dalla catastrofe umanitaria”, tra una gravissima crisi economico-alimentare e la cancellazione di vent’anni di diritti. Il Paese è sull’orlo del fallimento e l’unica alternativa di salvezza è la fuga, non soltanto dai talebani, ma anche dalla fame.

Subito dopo la presa del potere da parte dei talebani, il ponte aereo internazionale ha evacuato circa 125.000 persone; altre diverse migliaia che temevano per la loro vita non sono riuscite ad avere accesso all’aeroporto in tempo utile e ancora si sta tentando di portarle via con iniziative umanitarie di emergenza. Ma questi sono numeri limitati rispetto al dramma di un popolo prossimo alla catastrofe. A voler fuggire non sono soltanto coloro che risultano più compromessi a causa della collaborazione con le forze della coalizione occidentale o per il loro impegno nella società civile, ma ci sono famiglie intere, donne e giovani che hanno perso qualsiasi prospettiva, presente e futura.

In questi mesi invernali, nonostante il freddo e le abbondanti nevicate, molti profughi hanno intrapreso il viaggio. La BBC Persian riferisce continuamente del ritrovamento di corpi congelati, di vittime del gelo e di trafficanti senza scrupoli. Ha suscitato scalpore la foto della mamma afghana messasi in viaggio da sola con i suoi due bambini e trovata morta congelata lungo il confine turco-iraniano, dopo aver camminato per centinaia di chilometri, tra la neve a piedi nudi, privandosi dei suoi indumenti per proteggere i suoi figli. La potenza di quell’immagine è emblematica della tragedia in atto in Afghanistan e del dramma vissuto dalla popolazione nei suoi molteplici aspetti: la disperazione delle donne, delle madri, delle vedove, dei bambini, di un popolo affamato che ha perso tutto, ormai senza libertà, senza lavoro, senza istruzione, senza aiuti, che scappa appena può. La situazione è così drammatica che molte donne disperate, rimaste senza capofamiglia, si sono messe in viaggio da sole dai villaggi più remoti, per dare una possibilità di sopravvivenza ai loro figli.

Sono milioni le vedove sole che all’improvviso hanno perso tutto, restando prive di qualunque risorsa da quando i talebani hanno impedito loro di svolgere attività lavorative, o che non possono uscire di casa neanche ad elemosinare qualcosa da quando è stato vietato loro di uscire senza un uomo di famiglia. Un sondaggio di Save the Children ha rilevato che dalla fine di agosto, l’82% di esse ha perso il reddito e il 18% ha dichiarato di non avere altra scelta che arrivare ad atti estremi, come quello di rinunciare ad un figlio, vendendolo per sfamare gli altri. Milioni di bambini sono a rischio malnutrizione: l’Unicef ne stima cinque milioni ad un passo dalla carestia, e tre milioni sono stati costretti ad abbandonare la scuola per lavorare; tantissimi altri vivono per strada, ridotti alla schiavitù, e migliaia subiscono violenze di ogni genere.

Save the Children stima che il numero di bambini malnutriti in questi mesi invernali sia raddoppiato; solo nel mese di dicembre sono stati ritrovati 40 bambini morti per strada. L’Onu ha lanciato l’allarme sull’imminente catastrofe. Milioni di persone rischiano di non sopravvivere senza aiuti immediati, dal momento che già 23 milioni di afghani, pari al 55% della popolazione, soffrono per la crisi alimentare. Lo spettro della fame, annunciato da ottobre in tutti i report delle Nazioni Unite e dalle testimonianze di chi ancora opera sul territorio (Ong come Emergency, Medici senza Frontiere, Amnesty) è diventato realtà. Un afghano su due sta affrontando la cosiddetta fase 4, vive cioè in una condizione di pre-carestia prossimo allo stato di emergenza, e la Banca Mondiale stima che tra qualche mese il 97% degli afghani potrebbe precipitare sotto la soglia di povertà.

Del resto, la crisi precedeva la presa del potere dei talebani: già 12,2 milioni di afgani vivevano in uno stato di grave insicurezza alimentare, colpiti duramente da carestie ricorrenti e dalla pandemia diffusasi senza controllo. Già nei mesi precedenti al ritorno dei talebani, oltre settecentomila persone delle zone rurali avevano dovuto abbandonare le loro case a causa della peggiore siccità degli ultimi anni, e altre cinquecentomila erano scappate per l’avanzata talebana.

Il Paese da un giorno all’altro è collassato, non solo per il ritorno dei talebani, ma perché sono venuti meno gli aiuti dell’Occidente. Si parla di shock economico dovuto al blocco dei finanziamenti esteri: la Banca Mondiale, la Federal Reserve e Il Fondo Monetario Internazionale hanno interrotto e congelato l’accesso dell’Afghanistan ai fondi internazionali. In particolare, sono stati bloccati 9,5 miliardi di dollari di fondi afghani per colpire i talebani, 3,5 milioni dei quali sono stati sottratti dagli Stati Uniti per destinarli a un fondo istituito per risarcire le famiglie delle vittime degli attacchi dell’11 settembre che hanno ancora cause pendenti. Questa decisione sta generando un crescente sentimento antiamericano tra la popolazione, dal momento che quei soldi non sono dei talebani ma del popolo, che si sente ulteriormente tradito dagli Stati Uniti. Il crollo degli aiuti umanitari ha ridotto, se non azzerato, l’economia che dipendeva quasi esclusivamente dal supporto esterno. I finanziamenti internazionali alimentavano gran parte del bilancio statale, sostenendo più di tre quarti della spesa pubblica e senza di essi il sistema bancario è collassato. Le banche non hanno più liquidità e hanno limitato i prelievi a 20.000 afghani a settimana, circa 160 euro al mese.

L’82% della popolazione non ha più reddito: gran parte di essa lavorava per il governo, per le rappresentanze internazionali, per le forze di sicurezza, e attualmente è disoccupata. Tutti i progetti di sviluppo che generavano occupazione sono stati abbandonati, le strutture sanitarie hanno chiuso una dietro l’altra, e delle 2.300 presenti fino ad agosto ne sono rimaste soltanto 300. Da qualche giorno l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha iniziato a pagare gli stipendi al personale sanitario per evitare il collasso totale; poche scuole e università hanno riaperto e l’Unicef ha deciso che pagherà gli stipendi di 40.000 insegnanti.

L’Onu ha lanciato il piano di aiuti “Afghanistan Humanitarian Response”, il più ingente della storia, che prevede circa 5 miliardi di dollari per il soccorso umanitario, sia in loco, sia per i 5,7 milioni di profughi in Pakistan e in Iran. Inoltre in questi giorni l’Unhcr ha lanciato una campagna di solidarietà per la raccolta fondi per fronteggiare l’inverno.

In questo momento, la prima preoccupazione degli afghani è sopravvivere, e molti sono arrivati a prendere decisioni estreme. È ripresa la vendita dei propri organi: un rene di un adulto viene pagato 1.500 euro, quello di un bambino 1.380. La stampa locale e i social media pubblicano foto e notizie di bambini che muoiono di fame, senza la possibilità di nutrirsi o di scaldarsi in pieno inverno, in condizioni climatiche estreme, critiche come sempre in queste zone che spesso rimangono inaccessibili per mesi, soprattutto quelle rurali, dove vive la maggior parte della popolazione afghana. Già si contano i decessi per polmonite ed ipotermia. Anche nelle città – e soprattutto nella capitale – le famiglie sono state le più colpite: migliaia di cittadini ogni giorno fanno la fila davanti alle poche organizzazioni umanitarie che distribuiscono generi alimentari; nei campi per gli sfollati interni sono quasi quattro milioni le persone scampate in questi ultimi anni all’avanzata talebana; scarseggiano sia viveri che medicinali, e non sono più attive le cliniche mobili.

Se la situazione dei fondi bloccati non si risolverà in tempi brevi, la crisi umanitaria sarà inarrestabile, riprenderanno i movimenti migratori illegali su larga scala, gli afghani si vedranno costretti a scegliere tra la migrazione e la fame e l’onda dei profughi aumenterà. Migliaia di afghani stanno già fuggendo attraverso i confini dell’Afghanistan con il Pakistan, e da gennaio soprattutto con l’Iran, al ritmo di cinquemila profughi al giorno che attraversano i tre valichi per raggiungere le tre province dove sono state allestite tende ed alloggi di emergenza. In misura minore anche con il Turkmenistan, il Tagikistan e Uzbekistan, dove i confini sono presidiati da truppe. Nel tentativo di bloccare la fuga, il 27 febbraio scorso i talebani hanno vietato le evacuazioni organizzate dall’Onu e dalle organizzazioni non governative, bloccando i visti necessari per accedere ai corridoi umanitari, compresi quelli di 1.200 collaboratori e congiunti pronti a partire per l’Italia. Ora tutto si è fermato. Non è possibile stabilire con precisione quanti siano riusciti a fuggire da settembre, ma secondo le stime dell’agenzia Onu per i rifugiati sembra che si tratti di mezzo milione di persone. Secondo le registrazioni dell’Unhcr, già a settembre si era verificato un aumento pari al 900% per un totale di 35.400 persone, rispetto alle 4.000 registrate a luglio 2021. Il governo turco teme che “due milioni siano pronti a muoversi dall’Iran”, e secondo le testimonianze raccolte nel frattempo sembra che le autorità turche stiano respingendo i richiedenti asilo in maniera sommaria. A novembre la Turchia ospitava ufficialmente più di trecentomila profughi afghani, ma si stima che circa quattro milioni si trovino senza i documenti nel paese. Il presidente turco ha ottenuto in questi anni dall’UE 6 miliardi e sta per ottenerne altri 3,5 entro il 2024 per mantenerli sul proprio territorio.

Dai dati Eurostat emerge che negli ultimi dieci anni gli afghani, insieme ai siriani, rappresentano il gruppo più esteso di richiedenti asilo in Europa, e il primo per quanto riguarda i minori non accompagnati. Settecentomila afghani hanno fatto richiesta di asilo nei paesi europei, ma molte di queste domande sono state respinte: negli ultimi dieci anni, lo status di rifugiato è stato concesso soltanto al 52% del totale delle domande presentate, con la sola eccezione dell’Italia, con oltre il 92%. Secondo lo European Asylum Support Office (Easo), già nei sei mesi precedenti ad agosto era iniziato l’aumento di richiedenti asilo afghani nei paesi dell’UE, segnando un aumento del 55%; a luglio erano stati 46.300 e ad agosto erano aumentati di un ulteriore 38%, con un numero mai così alto di minori stranieri non accompagnati (MSNA). Numero che peraltro continua a salire: da novembre 2021 al 2 marzo 2022 i minori non accompagnati sono stati più di 1.500, di cui 360 arrivati in Italia. In Italia, meta in passato poco ambita dagli afghani, fino ad agosto ne risiedevano 11.000; a loro si sono aggiunti i 5.000 evacuati con il ponte aereo, passando dai 600 del 2020 ai 6.800 del 2021. Attualmente migliaia sono bloccati davanti alle diverse frontiere sulla rotta balcanica: soltanto gli afghani sono oltre 6.000, ma anche in questi giorni di aperture delle frontiere continuano i respingimenti nei confronti di intere famiglie. Per i profughi ucraini verrà applicata la Direttiva 2001/55/CE con cui l’Europa riconoscerà lo status di rifugiato, che però non fu applicata né nel 2015 di fronte alla crisi siriana, né la scorsa estate per i rifugiati afghani.

I dati ci rappresentano uno scenario non da esodo di massa, ma l’emergenza profughi dall’Afghanistan è al centro delle preoccupazioni della UE. L’Europa si sta muovendo con un’accoglienza verso le persone più vulnerabili, ma una concreta disponibilità ad accogliere quelli che verranno al di fuori dei canali ufficiali non sembra realizzarsi. Tra l’altro la giusta e generosa accoglienza ai richiedenti asilo dell’Ucraina in Polonia e nelle altre frontiere dell’Est Europa sta dimostrando che questi paesi sono in grado di accogliere e sostenere le popolazioni in fuga dalle guerre.

Indubbiamente non si può evacuare un popolo, ma dopo vent’anni di massacri, di ingerenze e di speranze tradite gli afghani si aspettano almeno di non essere dimenticati.

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