Messico Opinioni

Crisi migratoria in Messico

Nelli Feroci Gianandrea

È passato poco più di un anno dall’eclatante vittoria di Andrés Manuel López Obrador, meglio conosciuto come AMLO, nelle elezioni presidenziali messicane e appena dieci mesi dall’insediamento del suo governo, che una grande maggioranza di messicani, così come molti analisti internazionali, vedevano come un momento storico di rottura nel lungo percorso repubblicano del paese, dominato per più di settant’anni dall’autoritarismo del Partito Rivoluzionario Istituzionale (PRI), con due sole interruzioni nel primo decennio di questo secolo, quando sono saliti alla presidenza rappresentanti del conservatore Partito D’Azione Nazionale (PAN). E in effetti López Obrador, ex sindaco progressista di Città del Messico, già membro del Partito Rivoluzionario Democratico (PRD), schierato a sinistra e fondatore del Movimento per il Rinnovamento Nazionale (MORENA), sembra rappresentare una rottura radicale, se non altro rispetto a un assetto socio-politico dominato dal PRI e PAN. Durante la campagna elettorale, al suo terzo tentativo di diventare presidente, López Obrador aveva presentato una serie di proposte che sembravano realmente innovative e foriere di un processo di rinascita nazionale. Rinascita necessaria in un paese dove quasi metà della popolazione vive sotto la soglia di povertà (più di 53 milioni di persone), e che negli ultimi quattordici anni ha registrato più di 260.000 morti violente ed oltre 40.000 desaparecidos nel contesto di una criminalità organizzata violentissima e della guerra contro il narcotraffico, caratterizzata da violazioni sistematiche dei diritti umani, corruzione diffusa e sospetti d’infiltrazioni del crimine organizzato fino ai più alti livelli delle istituzioni dello stato.

La guerra al narcotraffico e l’escalation della violenza

L’escalation della violenza inizia a partire dal 2006, quando l’allora presidente del PAN, Felipe Calderón, lancia ufficialmente “la guerra contro il narcotraffico” che porta a un aumento esponenziale dell’intervento dell’esercito e della marina in funzioni di sicurezza interna. Intervento militare che coincide anche con un aumento vertiginoso di violazioni dei diritti umani e sparizioni forzate. Questa escalation, che farebbe pensare ad un paese in guerra, da una parte è dovuta all’intervento delle forze armate e ad un uso sproporzionato della forza nei confronti di civili, e dall’altra alla frammentazione dei grandi gruppi criminali tradizionali in una miriade di bande che lottano tra loro per il controllo del territorio, trasformando alcuni degli stati messicani in un vero campo di battaglia, con intere zone fuori dal controllo dello stato. Allo stesso tempo, i cartelli della droga si sono rapidamente adattati al nuovo contesto, armandosi via via più pesantemente e dando vita a scontri armati con le forze dell’ordine, e tra di loro, sempre più sanguinosi.

In questo vortice di crescente violenza i migranti, principalmente centroamericani, che transitano attraverso il Messico diretti verso gli Stati Uniti, finiscono nelle reti dei cartelli della droga, che ne controllano il passaggio facendo pagare ingenti somme per un “salvacondotto” e l’attraversamento della frontiera lungo vie non controllate dalla polizia statunitense. I cartelli si dedicano anche al sequestro dei migranti per richiedere micro riscatti per la liberazione alle famiglie già residenti negli USA o rimaste a casa. Per chi non paga la conseguenza può essere anche la morte; ad oggi sono migliaia i migranti spariti in Messico, vittime invisibili della violenza dilagante.

In campagna elettorale López Obrador aveva promesso che una delle priorità del nuovo governo sarebbe stata far luce sulle vittime della guerra contro il narcotraffico usando meccanismi di “giustizia di transizione”. Questa espressione si riferisce a quei processi giudiziari e amministrativi che hanno luogo nel corso di una transizione politica, in genere da un regime autoritario a uno democratico, o in un processo di pacificazione dopo una guerra civile. Lo scopo principale è quello di punire i responsabili dei regimi precedenti, o le fazioni in guerra e i loro sostenitori, per crimini di lesa umanità e di “rendere giustizia” alle vittime giungendo, attraverso una serie di misure giuridiche e politiche, a una pacificazione interna che permetta innanzitutto la ricostruzione civile e morale della società mediante percorsi riconciliativi delle fazioni opposte. Si tratta di esperienze occorse più volte nella storia degli ultimi settant’anni, soprattutto dopo guerre civili, in America latina (Argentina, Brasile, Cile, Colombia, Perù, Uruguay) e non solo (Sudafrica). Mentre i processi e le condanne ordinarie assolvono alla funzione di “rendere giustizia” o, se si preferisce, assumono una funzione punitiva o di persecuzione penale nei confronti dei nemici responsabili della parte sconfitta, nella giustizia di transizione la via dei provvedimenti di clemenza (amnistie, condoni, grazia) è utilizzata per pacificare una società senza per questo cancellare la memoria dei delitti commessi. Provvedimenti generalizzati di clemenza, come l’amnistia, pensati per far fronte all’emergenza e superare le profonde divisioni di una guerra civile possono portare – con la liberazione di criminali di guerra – ad alimentare nei familiari delle vittime e in una parte della popolazione un profondo senso di ingiustizia. Ed è proprio quello che è successo in Messico, dove molte associazioni di familiari di vittime hanno criticato la proposta di López Obrador, forse anche a causa di una comprensione limitata dei meccanismi della giustizia di transizione, il cui fine ultimo è creare una memoria storica dove sia chiaro chi sono i responsabili, ed eventualmente punire i principali autori materiali e mandanti dei delitti di lesa umanità, garantendo l’amnistia solo a coloro che collaborano allo svolgimento delle indagini e/o hanno commesso delitti minori.

Altra idea centrale strettamente legata alla giustizia di transizione era quella di ritirare al più presto esercito e marina da funzioni di sicurezza interna e, usando le parole del presidente, “farli rientrare nelle caserme”. Questa nuova strategia, incentrata sulla riduzione della violenza e la difesa dei diritti umani, includeva meccanismi di protezione nei confronti della popolazione migrante in transito verso gli USA, a cui si intendeva garantire uno speciale visto umanitario che avrebbe consentito di usare canali istituzionali per entrare in Messico e percorrere il lungo cammino verso gli Stati Uniti, permettendo anche di lavorare regolarmente a coloro che ne avessero avuto bisogno. Di tutte queste promesse l’unica mantenuta, per qualche mese, è stata quella del visto umanitario.

Non solo il nuovo presidente messicano ha fatto dietrofront sul non coinvolgimento delle forze armate nella lotta al narcotraffico ma, forte della maggioranza del suo nuovo partito (Morena) alla Camera dei deputati e al Senato della Repubblica, ha modificato la costituzione formalizzando legalmente questo ruolo atipico con la creazione della Guardia Nazionale, una forza di sicurezza speciale formata da militari di marina, esercito e polizia federale, controllata dall’esercito, il cui fine ufficiale è arginare l’onda di violenza nel paese. Molti temono che l’istituzione di questa nuova forza dell’ordine controllata dall’esercito generi un risultato contrario alle attese. In tutti i paesi dell’America Latina dove le forze armate sono state utilizzate sistematicamente in funzione di sicurezza interna (Colombia, Guatemala, El Salvador, Honduras) si registrano negli ultimi decenni le peggiori violazioni dei diritti umani della regione. Esperti di sicurezza consigliano di concentrarsi piuttosto su un rafforzamento della qualità e capacità operativa delle forze di polizia e del sistema giudiziario, accompagnato da politiche pubbliche volte a promuovere lo sviluppo economico e le opportunità di crescita nelle zone più povere, a rischio di reclutamento da parte del crimine organizzato. Tutte idee che facevano parte della campagna elettorale di López Obrador, che inoltre proponeva una liberalizzazione delle droghe leggere e di regolamentare la coltivazione del papavero da oppio per usi medicinali. Idee che sembrano per il momento essere state accantonate e scalzate dalla creazione della Guardia Nazionale e da un approccio più militarista. Allo stesso tempo, l’unico meccanismo di giustizia di transizione funzionante oggi è una commissione speciale per chiarire l’emblematico, ma non unico nel suo genere (sparizione forzata), delitto di Ayotzinapa nello stato di Guerrero, dove nel 2014 43 studenti di una scuola tecnica per maestri rurali che protestavano contro un candidato sindaco furono arrestati dalla polizia municipale per poi sparire nel nulla, consegnati, a quanto pare, ad una banda criminale locale.

Le pressioni degli Stati Uniti e la stretta sui flussi migratori

Sembrava esserci più speranza che fossero mantenute le promesse elettorali sul tema delle migrazioni. Tuttavia l’aumento vertiginoso di migranti nei primi mesi del mandato presidenziale, associato al fenomeno delle “carovane”, ha portato a un cambiamento di rotta radicale anche su questo fronte. Il Ministero dell’Interno messicano stima che dalla frontiera con il Guatemala siano entrati nel paese 300.000 migranti, principalmente centroamericani, solo tra gennaio e marzo di quest’anno. La nuova politica messicana di apertura, le condizioni di vita drammatiche in Guatemala, Honduras, El Salvador e Nicaragua e le famose carovane, hanno contribuito al raggiungimento di questi numeri che hanno rapidamente portato a una nuova stretta sugli ingressi da parte del Messico e un dietrofront sul visto umanitario. Stretta che però non è stata considerata sufficiente dal Presidente statunitense Donald Trump: ad inizio giugno, dopo che l’Ufficio per la Protezione Doganale e delle Frontiere (U.S. Customs and Border Protection) ha dichiarato che in maggio si era registrato un aumento del 337% degli arresti di immigranti clandestini alla frontiera con il Messico rispetto al maggio 2018, Trump ha minacciato López Obrador di aumentare del 5% le tariffe doganali sui prodotti messicani se non fossero aumentati i controlli sui flussi migratori in territorio messicano. Secondo Trump, l’aumento delle tariffe avrebbe potuto raggiungere gradualmente il 25% in mancanza di una risposta adeguata da parte messicana. L’80% delle esportazioni messicane sono dirette verso gli Stati Uniti e se la minaccia fosse stata messa in atto avrebbe avuto conseguenze devastanti sull’economia del paese, ma secondo molti analisti avrebbe avuto un effetto altrettanto devastante sull’economia statunitense. Più di vent’anni di libero commercio – iniziato nel 1994 con la firma dell’Accordo Nordamericano di Libero Scambio (NAFTA) – hanno infatti creato un sistema economico transnazionale tra Messico e USA in cui le filiere industriali e commerciali tra i due paesi sono un tutt’uno. Si stima che per ogni dollaro di valore importato negli USA dal Messico 40 centesimi siano di input statunitensi, e che un aumento del 5% sulle tariffe doganali potrebbe portare a un aumento dei costi diretti sui consumi USA di 28 miliardi di dollari all’anno. È interessante notare che l’annuncio delle tariffe come mezzo di persuasione per bloccare l’immigrazione dal Messico ha preceduto di pochi giorni il lancio della campagna per la rielezione di Trump nel 2020. Uno spot propagandistico di difficile realizzazione, quindi, al quale tuttavia è sembrato che López Obrador e il governo messicano si siano piegati rapidamente acconsentendo, con un accordo firmato il 7 giugno, ad aumentare il numero di arresti ed espulsioni di migranti centroamericani che cercano di transitare per il Messico, e allo stesso tempo offrendo appoggio logistico alle migliaia di richiedenti asilo bloccati sul lato messicano della frontiera con gli USA. Gli Stati Uniti hanno concesso 90 giorni di prova a partire dal 7 giugno per verificare l’adempimento delle promesse messicane ed in caso contrario far scattare le tariffe e il Messico sembra aver passato questo primo esame.

Le pressioni statunitensi sembrano avere portato ad una stretta sui flussi migratori: all’inizio di settembre il Ministro degli esteri messicano, Marcelo Ebrard, ha affermato che il flusso di migranti che cercano di entrare dal Messico negli Stati Uniti è diminuito del 56% tra maggio e agosto. Allo stesso tempo le autorità statunitensi tra maggio e luglio hanno registrato una diminuzione di quasi il 50% degli arresti di migranti irregolari alla frontiera con il Messico. Il governo messicano afferma che politiche di rafforzamento dei controlli sui flussi migratori erano già in atto da prima di giugno, e i fatti lo confermano. Tra aprile e maggio le detenzioni di migranti provenienti dall’America centrale erano aumentate registrando 45.000 arresti in soli due mesi. Sin da allora, ONG che lavorano nel settore delle migrazioni hanno anche iniziato a notare un approccio più aggressivo del personale dell’Istituto Nazionale per le Migrazioni (INM), che stava mettendo in atto una vera e propria “caccia al migrante”, una novità nel modus operandi dell’INM che fino a poco tempo prima si limitava alla gestione amministrativa dei flussi migratori.
Una delle grandi novità del nuovo accordo tra USA e Messico negoziato sotto la minaccia dell’aumento dei dazi è l’uso di 6.000 membri della neonata Guardia Nazionale lungo la frontiera con Guatemala e Belize. Se nel breve periodo questa mossa potrebbe portare ad una riduzione degli ingressi, potrebbe anche generare un aumento delle violazioni di diritti umani della popolazione migrante, considerando la fama delle forze armate messicane nella gestione della sicurezza interna e allo stesso tempo la loro impreparazione nella gestione dei flussi: ad esempio nel valutare se una persona abbia diritto alla richiesta d’asilo. Per di più, la riduzione degli ingressi sarebbe solo passeggera, giusto il tempo sufficiente perché i trafficanti di migranti aprano nuove vie lungo la porosa frontiera tra il Messico e il Guatemala e il Belize: 1.179 chilometri principalmente di giungla tropicale poco popolata, attraverso la quale già transitano indisturbate ogni anno tonnellate di cocaina proveniente dal Sud America.

L’altra novità è il rafforzamento del Protocollo di Protezione del Migrante [PPM] dell’amministrazione Trump, conosciuto informalmente come il programma Remain in Mexico (Rimani in Messico). Il programma stabilisce che i richiedenti asilo negli USA fermati in Messico o bloccati mentre cercano di attraversare la frontiera con gli Stati Uniti, resteranno in Messico fino a quando la richiesta d’asilo non sia concessa dai tribunali statunitensi, un processo che oggi può durare anni. Le autorità di Washington affermano che il rafforzamento del PPM potrebbe portare fino a 1.000 espulsioni al giorno verso le città di frontiera messicane di Tijuana, Ciudad Juarez e Mexicali, ovvero più o meno 30.000 persone al mese che andrebbero ad aggiungersi alle decine di migliaia di migranti già bloccati alla frontiera, il cui numero continua ad aumentare ogni giorno per effetto dei nuovi arrivi dal sud. Questo processo potrebbe portare rapidamente ad una crisi umanitaria di dimensioni enormi sul lato messicano della frontiera in due località, Tijuana e Ciudad Juarez, che detengono anche il record di città più violente dell’intero paese.

L’obiettivo finale dell’amministrazione Trump è che il Messico accetti di firmare un accordo di “paese terzo sicuro”, che costringerebbe tutti i richiedenti asilo negli USA a portare avanti le pratiche amministrative dal Messico e porterebbe all’espulsione automatica in caso di richiesta di asilo presentata in territorio americano. Gli Stati Uniti hanno un trattato simile con il Canada. Il principio centrale è che un richiedente asilo agli Stati Uniti che transita dal Canada può e deve fare richiesta da quel paese, perché si trova per l’appunto in un paese sicuro, dove non corre i rischi lo che hanno costretto a chiedere asilo. Il trattato però si regge sul concetto fondamentale della sicurezza del paese terzo, che sarebbe a dir poco dubbio in un paese come il Messico dove sparizioni forzate, tortura e scontri armati con migliaia di vittime al mese sono la norma e dove per di più lo sfruttamento delle migrazioni è un obiettivo dichiarato del crimine organizzato. Per ora le autorità messicane, già sotto forte pressione per il rafforzamento del programma Remain in Mexico, sembrano non cedere. Le migliaia di rifugiati che il PPM riverserà in Messico nei prossimi mesi metteranno a durissima prova le istituzioni migratorie del paese, che fra l’altro nel 2019 hanno subito considerevoli tagli dei loro finanziamenti nel contesto della politica di austerità del nuovo governo. Si pensi solo che l’INM è passato da un bilancio di 326 milioni di dollari nel 2018 a soli 68 milioni nel 2019, mentre la Commissione Messicana per l’Assistenza ai Rifugiati ha un bilancio di un solo milione di dollari. La tempesta perfetta della crisi migratoria messicana è appena iniziata.

Fino ad ora il Messico si è detto disposto a discutere l’idea di “paese terzo sicuro” solo nel contesto di un grande trattato regionale che vedrebbe l’assegnazione di questo status anche al Guatemala, a Panama e al Brasile. Ciò che, se da una parte alleggerirebbe la pressione migratoria sul Messico, d’altra parte richiederebbe mesi, se non anni, di negoziati. L’unico paese che per ora ha ceduto è il Guatemala, che a luglio ha accettato ufficialmente di servire da paese terzo sicuro, pur essendo uno dei paesi più violenti dell’area e il primo per numero di migranti che cercano di lasciare l’America centrale per gli Stati Uniti. Allo stesso tempo a settembre il governo statunitense è riuscito a firmare trattati simili al Remain in Mexico con El Salvador e Honduras, non meno violenti del vicino Guatemala. Paradossalmente, in base a questi trattati, persone che scappano dai quei paesi in cerca d’asilo negli Stati Uniti ora possono essere rimandate laddove sono a maggior rischio, violando tutti principi internazionali di protezione per i richiedenti asilo.

Il Messico alla ricerca di un ruolo di protagonista regionale

Il presidente messicano López Obrador deve gestire le pressioni statunitensi e fino ad ora lo ha fatto in maniera responsabile, rispondendo in forma straordinariamente pacata e istituzionale alle continue invettive e minacce di Trump, spesso comunicate via twitter, e allo stesso tempo sta cercando di recuperare un ruolo da protagonista regionale nei rapporti con l’America Centrale, dove tra gli anni Settanta e Ottanta il Messico era considerato l’hermano mayor (il fratello maggiore). In quei decenni drammatici di guerre civili in Guatemala, El Salvador e Nicaragua, il Messico giocò un ruolo fondamentale nei negoziati che portarono a un lento processo di pace che permise la fine dei conflitti armati nella prima metà degli anni Novanta. Agli inizi degli anni Ottanta l’“hermano mayor”, insieme alla Colombia, promosse la creazione del Gruppo di Contadora, a cui aderirono Panama e Venezuela, per creare uno spazio di dialogo per la pace in America centrale escludendo dalla mediazione gli Stati Uniti. Il gruppo di Contadora creò le basi per gli accordi di Esquipulas alla fine degli anni Ottanta, in cui i presidenti centroamericani definirono una serie di passi per porre fine ai conflitti armati nella regione tra cui: la fine delle ostilità, l’avvio di un processo di democratizzazione, libere elezioni, la cessazione di ogni forma d’appoggio a forze militari irregolari, controllo degli armamenti e assistenza per i rifugiati. Inoltre si prevedevano processi di controllo internazionale per l’attuazione dei punti concordati. Proprio mentre i paesi centroamericani ponevano fine a decenni di guerre civili, il Messico girava le spalle ai “fratelli minori” e, con la firma del NAFTA nel 1994, proiettava tutto il suo interesse verso gli Stati Uniti, in anni che furono caratterizzati sul piano interno dalla crisi graduale, ma irreversibile, dell’egemonia del PRI e l’avvento del PAN sul fronte politico e dall’adozione di politiche neoliberiste sul fronte economico.

A 25 anni dalla firma del NAFTA – che è stato recentemente rinegoziato per forti pressioni di Donald Trump e ribattezzato Accordo Stati Uniti-Messico-Canada (USMCA) – il Messico sembra voler riprendere il suo storico ruolo di protagonista regionale, proprio in coincidenza con la maggiore crisi migratoria nel paese dai tempi delle ondate di rifugiati che fuggivano dalle guerre civili centroamericane trent’anni fa. Questa volta il Messico – in coordinamento con Guatemala, El Salvador e Honduras (i paesi del nord del Centroamerica) – sta promuovendo un ambizioso “Piano di Sviluppo Integrale” per le regioni del Messico meridionale e il nord del Centroamerica, per risolvere i problemi strutturali all’origine dei flussi migratori. L’analisi della situazione e la progettazione del Piano sono stati affidati alla Commissione Economica per l’America Latina e i Caraibi (CEPAL) delle Nazioni Unite e il documento è stato presentato al pubblico a fine maggio. Il Piano si può considerare un’iniziativa di sviluppo simile al fondo fiduciario di emergenza dell’UE per affrontare le cause profonde delle migrazioni irregolari e degli sfollati in Africa, che è stato lanciato in Europa in risposta alla crisi migratoria del 2015. Con la grande differenza che mentre questo fondo può contare sul budget dell’Unione, il “Piano di Sviluppo Integrale” dovrà fare i conti con finanze molto più limitate. Gli Stati Uniti si sono impegnati a contribuire all’iniziativa con 10 miliardi di dollari, ma non è chiaro come e quando dal momento che l’amministrazione Trump ha annunciato tagli radicali dei fondi dell’agenzia per la cooperazione allo sviluppo (United States Agency for International Development, USAID) per le iniziative in America centrale. L’altra grande fonte di finanziamento dovrebbe provenire proprio dal Messico, che prevede un investimento di 25 miliardi di dollari in 5 anni, quelli che restano al mandato presidenziale di López Obrador. Tuttavia la sostenibilità di tale investimento da parte di un paese in cui il 43% della popolazione vive sotto la soglia di povertà e sembra sempre più intrappolato nel vortice della violenza, resta tutta da vedere.

Il Messico si trova oggi in una congiuntura critica, stretto tra le pressioni di un governo poco amichevole del suo principale, e fondamentale, partner economico, una violenza diffusa che ha ormai raggiunto in certe zone livelli da guerra civile, e una crisi migratoria che può avere ripercussioni socio-politiche difficilmente prevedibili. Un paese caratterizzato da una storica politica di accoglienza nei confronti dei rifugiati – si pensi solo alla quantità di spagnoli in fuga dalla guerra civile accolti tra il 1936 e il 1939, o agli argentini che scappavano dalla dittatura militare del 1976-83 che fecero del Messico una seconda casa – oggi per la prima volta registra insofferenze nei confronti degli immigrati e rifugiati provenienti dall’America Centrale. La scommessa di López Obrador per un piano di sviluppo regionale è giusta e lungimirante, ma la sua fattibilità resta tutta vedere, così come resta da vedere come i cittadini di un paese piagato da violenza e povertà reagiranno nei confronti di una crescente pressione migratoria.

Gli immensi costi finanziari e politici di questa crisi non erano stati calcolati nel progetto di López Obrador per il rinnovamento nazionale, che si vede già indebolito dal clamoroso dietrofront sulla militarizzazione della sicurezza interna. Trovare un equilibrio tra le crescenti pressioni statunitensi e la vocazione umanitaria del Messico sarà una delle grandi sfide del presidente messicano, che dovrà fare i conti con un’opinione pubblica fortemente avversa a Trump e poco disposta a tollerare una politica di sottomissione alle sue minacce, e che allo stesso tempo sta iniziando a manifestare i primi preoccupanti segnali d’insofferenza nei confronti delle migrazioni.

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