Oltre il transito: la Tunisia e le vere storie della migrazione
«La migrazione è fuori controllo.» «Dobbiamo fermare il flusso.»
Da Est a Ovest, da Nord a Sud: questi sono i mantra del nostro tempo. Che si tratti di Tunisia o Italia, Francia o Marocco, la migrazione è diventata un bersaglio comodo, accusata di tutto, dall’identità nazionale alla disoccupazione, fino al declino del Paese.
Colpisce quanto la retorica allarmista sia diventata globale e interscambiabile. Una citazione potrebbe provenire indifferentemente da un presidente tunisino che denuncia i migranti subsahariani, da un ministro britannico che prende di mira i pakistani, da un funzionario francese che evoca i nordafricani o da un politico statunitense che tuona contro gli “immigrati illegali”. Trovare capri espiatori tra i migranti non è una novità: è una tattica politica cinica antica quanto la migrazione stessa. In questo articolo, proveremo a usare la Tunisia come lente per esplorare come questa ansia venga fabbricata e che cosa essa oscuri.
La verità è che la migrazione non è caos. Tende a seguire schemi prevedibili, spesso strettamente legati allo sviluppo. A livello globale, la quota di migranti internazionali è rimasta stabile attorno al 3% della popolazione. Ciò che cambia nel tempo sono direzioni e destinazioni. Con il miglioramento di istruzione, infrastrutture e livelli di vita, la migrazione aumenta, almeno inizialmente. Ecco perché, contrariamente a quanto si crede, lo sviluppo non riduce le migrazioni. Il ricercatore Ronald Skeldon, nel suo libro sull’argomento, concludeva che «la migrazione è sviluppo». In questa linea, oggi molti esperti osservano che stiamo assistendo a una “fase africana della migrazione” (soprattutto dall’Africa occidentale).
Aspirare a migrare non significa sempre essere in grado di farlo, specie quando ci si sposta da un Paese più povero a uno più ricco. Lo studioso di migrazioni Jørgen Carling concettualizza questa tensione con il suo modello “aspirazione–capacità”: le persone possono desiderare di migrare, ma la loro capacità di farlo è limitata. Questa (in)capacità è plasmata da regimi di visti restrittivi, classe sociale, discriminazione razziale e accesso diseguale a risorse finanziarie o sociali. Carling precisa che viviamo in un’“era dell’immobilità involontaria”, una condizione che caratterizza gran parte del rapporto tra il cosiddetto Sud globale e il Nord globale.
Nel loro insieme, queste dinamiche plasmano il modo in cui la migrazione si dispiega nella regione. Man mano che lo sviluppo aumenta e le opportunità restano diseguali, spesso ci si sposta all’interno del continente. Ecco perché quasi la metà di tutti i migranti africani oggi vive in un altro Paese africano. Per molti, Paesi nordafricani come Tunisia o Marocco diventano destinazioni più accessibili dell’Europa: più vicine geograficamente, più abbordabili e meno restrittive. Queste tendenze non riflettono un fallimento, ma l’evoluzione della geografia della mobilità in un sistema globale diseguale.
In questo contesto, vale la pena guardare più da vicino alla Tunisia non solo come trampolino, ma come Paese dove i migranti possono vivere, lavorare e contribuire.
Malgrado il rumore politico, la Tunisia non sta vivendo un’“invasione” migratoria. Secondo il censimento nazionale del 2025, i residenti stranieri sono lo 0,55% della popolazione. Questo dato è in linea con l’indagine del 2021 sulla migrazione internazionale nel Paese (si trattava della prima indagine nazionale sulla migrazione internazionale o Tunisia – Household International Migration Survey: Tunisia-HIMS, realizzata dall’Institut National de la Statistique (INS) in collaborazione con l’Observatoire National de la Migration (ONM) e con il supporto dell’Unione Europea). In termini assoluti, parliamo di poche decine di migliaia di persone. Eppure i migranti dominano titoli e discorsi politici, ritratti come minacce all’identità nazionale, all’ordine sociale e all’economia.
Questo scarto tra percezione e realtà è sorprendente, e non è affatto unico della Tunisia. Riflette una verità più ampia: le attuali ansie sulla migrazione sono guidate meno dai numeri che dai racconti. I migranti, in particolare le minoranze visibili e vulnerabili, sono diventati capri espiatori comodi per problemi che affondano altrove: inflazione, disoccupazione, servizi pubblici in crisi. È una tattica politica familiare, con una lunga storia globale.
Ma al di là degli slogan, chi sono questi migranti? Molti sono studenti: nel 2023, oltre 6.800 studenti subsahariani erano iscritti alle università tunisine. Altri lavorano in agricoltura, edilizia e lavoro domestico, settori cronicamente in carenza di manodopera. Contrariamente agli stereotipi, una quota significativa è altamente istruita, multilingue e imprenditoriale.
Un timore ricorrente è che i migranti “rubino il lavoro”. Ma questa affermazione non regge all’analisi. Per quanto spesso ripetuta come senso comune, la grande maggioranza degli studi seri – anche in Tunisia – non riscontra effetti negativi significativi della migrazione su salari o livelli occupazionali. Nei pochi casi in cui si osservano lievi effetti, essi sono marginali e limitati a specifici settori o gruppi. In realtà, i migranti spesso mettono in luce le disfunzioni di mercati del lavoro già rotti, più che causarli.
In Tunisia – come in molti Paesi – i migranti senza documenti lavorano in settori dove serve manodopera, ma i diritti sono assenti, come agricoltura o cura domestica. Il loro status giuridico precario, la classe sociale e la cosiddetta razzializzazione (cioè, il processo sociale e politico attraverso cui si attribuiscono caratteristiche razziali, culturali o etniche a gruppi di persone, spesso per giustificare disuguaglianze, esclusioni o sfruttamento, non fondandosi su differenze biologiche reali, ma su costruzioni simboliche che diventano strumenti di potere) li rendono più facilmente sfruttabili. Non è un errore del sistema: è il sistema.
E questo sfruttamento non riguarda solo i migranti. I lavoratori tunisini negli stessi settori affrontano contratti informali, salari stagnanti e tutele erose. La crisi del mercato del lavoro è strutturale. Dare la colpa ai migranti distoglie semplicemente l’attenzione dalle cause più profonde: austerità, deregolamentazione e decenni di aggiustamenti neoliberisti.
Occorre anche affrontare l’etichetta persistente dei Paesi nordafricani come meri “Paesi di transito”. Il termine suggerisce che il Paese sia solo una tappa verso l’Europa, una sosta temporanea per persone che non hanno mai inteso restare. È una narrazione ripetuta in rapporti internazionali, note politiche dell’UE e media mainstream.
Ma questa cornice è fuorviante. La migrazione non è lineare. Le aspirazioni cambiano. I progetti evolvono. Si può arrivare con l’intenzione di passare oltre e finire per restare; altri possono partire dopo anni di insediamento. Circostanze di vita, frontiere e opportunità mutano. Le traiettorie reali difficilmente rientrano nelle categorie delle policy.
Definire la Tunisia “Paese di transito” cancella questa complessità, e così facendo cancella le vite di chi si insedia, studia, lavora e contribuisce qui. Li rende temporanei per default, considerati indegni di diritti o inclusione. Giustifica l’inazione politica. Perché riformare lo status giuridico o offrire programmi di integrazione se le persone sono solo “di passaggio”?
Eppure ricerca e realtà raccontano altro. In interviste condotte dalla ricercatrice Ahlem Chemlali, donne ivoriane hanno descritto la Tunisia come «la nostra Europa», una vera destinazione. E l’indagine Tunisia-HIMS ha mostrato che molti migranti subsahariani consideravano la loro vita in Tunisia migliore che nei Paesi d’origine, pur affrontando razzismo ed esclusione sociale. La migrazione non è sempre raggiungere l’Europa. Talvolta è raggiungere un luogo migliore, anche solo relativamente.
La Tunisia non è solo una zona di transito; sta diventando sempre più un hub di mobilità regionale. E più in generale, i percorsi migratori sono raramente lineari: evolvono nel tempo. Negli ultimi anni ho incontrato molti migranti: alcuni sono arrivati in Italia; altri hanno avviato imprese e costruito una vita in Tunisia; altri ancora sono tornati nei Paesi d’origine con risparmi sufficienti per avviare nuovi progetti.
Ma il mito del “transito” persiste perché è funzionale ad alcuni interessi politici. Permette alla Tunisia di evitare di confrontarsi con le proprie gerarchie razziali e oscura il suo ruolo all’interno di un sistema migratorio africano. E soprattutto razzializza la distinzione tra chi è immaginato come “di passaggio” e chi è immaginato come “appartenente”. La “crisi migratoria” della Tunisia non è iniziata nel 2023. Ridurla a recenti svolte politiche ignora una storia molto più profonda.
Le politiche restrittive sulla migrazione della Tunisia sono state in gran parte plasmate negli anni 2000 sotto il regime di Ben Ali. E, nonostante la transizione democratica dopo la rivoluzione del 2011, la politica migratoria è stata ignorata. Non sono state adottate grandi leggi o riforme, mentre i flussi cambiavano e i numeri crescevano. A un livello più profondo, la Tunisia continua a confrontarsi con questioni irrisolte di identità nazionale, in particolare riguardo ad anti-blackness (cioè, il sistema strutturale e culturale che nega, marginalizza e disumanizza gerarchicamente le persone di colore, spesso associandole a criminalità), xenofobia e confini dell’appartenenza. Non sono tensioni nuove, come ben documentano studiosi tunisini e africani, sociologi e storici. E in tutto ciò, l’Unione europea svolge un ruolo centrale, sebbene spesso occultato.
Nel 2023–2024, l’UE ha firmato con la Tunisia un accordo da molti milioni di euro per frenare le partenze irregolari, organizzare programmi di rimpatrio volontario per i migranti presenti in Tunisia e facilitare il rientro degli irregolari tunisini dall’Europa. È parte di una strategia più ampia nota come esternalizzazione – l’outsourcing del controllo migratorio europeo oltre i propri confini, in cui i Paesi terzi hanno il compito di contenere, filtrare o bloccare i flussi migratori prima che raggiungano il suolo europeo.
Questa strategia nel Mediterraneo non è affatto nuova. Nel 2017, l’Italia ha firmato un memorandum con la Libia, consentendo alla Guardia costiera libica di intercettare migranti in acque internazionali e riportarli nei centri di detenzione libici, dove abusi, torture ed estorsioni sono stati costantemente documentati. Questa dinamica continua ancora oggi. Uno degli esempi recenti più scioccanti è stato filmato da attivisti e giornalisti della Freedom Flotilla Coalition nel 2025: autorità libiche, fingendosi funzionari egiziani, hanno intercettato in mare richiedenti asilo per riportarli su suolo libico. Si tratta di una palese violazione del diritto internazionale.
Sulla carta, questi partenariati riguardano la “gestione dei flussi”. In pratica, spostano la responsabilità. Consentono all’Europa di schermarsi dai costi politici della repressione visibile, esternalizzando i rischi a Paesi con tutele più deboli, salvaguardie giuridiche limitate e fragilità interne.
È ciò che alcuni studiosi hanno descritto come la scommessa dell’esternalizzazione. Si fonda sull’illusione calcolata che le frontiere possano essere sigillate per procura, che la “forza” ridurrà gli arrivi e che la legittimità politica in patria possa essere comprata con la repressione all’estero. Eppure le evidenze raccontano altro: nonostante miliardi spesi, gli arrivi continuano, i tassi di rimpatrio restano bassi e le morti in mare proseguono. Dal 2014, almeno 28.000 persone sono scomparse nel Mediterraneo. Questo numero tragico svela il costo reale del modello.
Alla base, l’esternalizzazione riflette un più ampio fallimento politico. Si fonda sull’illusione del controllo e sull’idea che la migrazione possa essere chiusa “come un rubinetto”. Ma le persone non si muovono perché le frontiere sono aperte; si muovono per le loro condizioni, personali e/o strutturali. E quando le frontiere si irrigidiscono, la migrazione non si ferma: diventa più frammentata, più costosa e più pericolosa. Io stesso ho sentito una di queste storie: Ahmadou, in risposta all’inasprimento dei controlli, è stato costretto a una rotta ben più rischiosa per raggiungere la Tunisia. Il suo viaggio ha attraversato più Paesi, ha comportato detenzione, giorni di cammino, esposizione a furti e violenze.
Questo processo non si fonda sulla coerenza o sull’umanità, ma su tolleranza selettiva e spostamento strategico. Una cooperazione reale apparirebbe molto diversa: significherebbe riconoscere la mobilità come parte legittima e duratura della condizione umana, non qualcosa da sopprimere. Significherebbe soprattutto, quando si mettono i migranti al centro del dibattito, non pensare solo a criminalizzarne i comportamenti. Inoltre , implicherebbe l’ampliamento dei canali legali per lavoro, studio e protezione, e la condivisione della responsabilità nell’accoglienza. In definitiva, questo articolo non ha alcuna pretesa di esaustività. La migrazione è un fenomeno profondamente complesso, storicamente situato e in costante evoluzione. Da chi studia queste questioni con uno sguardo critico, vedo questo contributo come un modo per evidenziare alcune contraddizioni, non una risposta definitiva. C’è ancora molto da esplorare sull’impatto duraturo del colonialismo e delle disuguaglianze economiche, o sui modi in cui cultura, identità e legami familiari continuano a plasmare come le persone si muovono e si insediano. Queste storie e strutture fanno tutte parte del quadro più ampio della mobilità nel Mediterraneo e meritano più spazio nelle nostre riflessioni e conversazioni.
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Foto credits: Gabbg82, CC BY-SA 3.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0>, via Wikimedia Commons