Etiopia Opinioni

Il Tigray senza pace

Attanasio Luca

L’inizio dello scorso novembre ha marcato il secondo anniversario di una data storica per il Tigray, la regione che all’estremo nord dell’Etiopia va quasi a incunearsi nell’Eritrea, così come per l’Etiopia tutta. Il 2 novembre del 2022, infatti, sostenuti dall’ Unione Africana (Ua) e ospitati dal Sudafrica, si conclusero positivamente i negoziati di pace tra il governo di Addis Abeba e i ribelli tigrini, rappresentati in prima istanza dal Fronte popolare di liberazione del Tigray (Tplf), che mettevano fine a un violentissimo conflitto fratricida iniziato esattamente due anni prima, tra il 3 e il 4 novembre 2020, dagli esiti nefasti. Proprio all’apice della diffusione del coronavirus e mentre il mondo intero stava ingaggiando una guerra senza confini contro la pandemia che bloccava o quanto meno limitava fortemente ogni attività umana, in vari angoli del pianeta, purtroppo, si proseguivano o addirittura si cominciavano conflitti come se nulla stesse accadendo. Il Tigray fu uno degli angoli più incendiari.  In un’area di 50mila km2, poco più del doppio del Piemonte, si innescò una guerra spaventosa che per rapidità di sviluppo ed entità di devastazione, ha pochi pari nella storia recente. Le stime più accreditate parlano di almeno 600mila vittime, quasi il 10% della popolazione totale, più di 2,5 milione di sfollati (attualmente ammontano a oltre 900mila) e danni per oltre 20 miliardi di dollari.

Il lascito fu terribile anche perché le due fazioni sembrarono gareggiare in atrocità e mancato rispetto delle leggi minimali che regolano i conflitti fino a venire accusati di crimini di guerra e contro l’umanità. Le notizie di vere e proprie carneficine o di stupri di massa perpetrati da entrambe le parti, di isolamento di intere aree dove, sia per il blocco imposto da Addis Abeba che per le minacce del Fronte Popolare di Liberazione del Tigrè (FPLT), non arrivavano aiuti umanitari per mesi e mesi, si susseguivano a ritmo impressionante. Per il resto, una popolazione già in ginocchio per gli effetti mefitici della siccità e della carestia che colpiscono il Corno d’Africa da ormai vari anni, viveva isolata dal mondo, con comunicazioni interrotte per lunghi tratti dell’anno, collegamenti aerei e stradali praticamente inesistenti e ogni altra forma di attività ridotta al minimo se non cancellata dalla guerra.  Sul finire del 2021, poi, gli scontri si acuirono anche a causa di un progressivo sconfinamento dei ribelli del Tigray che marciavano indisturbati verso sud. E quando le forze tigrine arrivarono a conquistare una dopo l’altra città strategiche nella regione di Ahmara come Dessie, o Kombolcha, si pensò che potessero arrivare anche ad Addis Abeba. La risposta del primo ministro Abiy Ahmed, Nobel per la pace 2019, fu durissima e, se possibile, il livello del confronto si inasprì ulteriormente.

Due anni esatti dopo, la firma degli Accordi di Pretoria, fece tirare un enorme sospiro di sollievo al mondo e, specialmente, alle popolazioni tigrina e dell’Etiopia intera, che temevano un’escalation senza fine e un allargamento del conflitto. Ma l’anniversario della pace dello scorso novembre è scivolato via tra l’indifferenza mondiale e, soprattutto, la profonda delusione della popolazione locale. Non c’era nulla da festeggiare. Piuttosto, la ricorrenza e gli eventi dei mesi precedenti e successivi stanno facendo emergere una situazione allarmante che di positivo mantiene solo – per ora – il silenzio delle armi.

Una delle questioni che sta creando instabilità nell’area riporta direttamente alla fragilità dell’accordo di pace. Alcune tra le forze belligeranti che hanno combattuto a fianco di Addis Abeba, a partire dall’esercito eritreo e le milizie amhara (una regione dell’Etiopia che a sua volta vive uno stato di tensione latente da tempo), non sono stati invitati a Pretoria e, quindi, non hanno mai sottoscritto l’intesa. La prima conseguenza di ciò è che, sebbene il trattato prevedesse il ritiro di tutte le truppe straniere o extra-regionali, sono ancora molti gli effettivi eritrei e amhara presenti in Tigray. Ciò significa che centinaia di migliaia di tigrini restano de facto in uno stato di occupazione e che intere aree rimangono inaccessibili alle truppe fedeli al governo regionale guidato da Getachew Reda, che Abyi aveva nominato presidente dell’Amministrazione Provvisoria poco dopo l’accordo di Pretoria, così come a quelle del governo federale. Ma anche ai camion e i mezzi che trasportano aiuti umanitari.

A pesare come un macigno su tutta la già precaria situazione, inoltre, sono le divisioni interne al FPLT, il partito storicamente alla guida politica del Tigray e per lunghi tratti della stessa Etiopia, che sul finire dello scorso anno ha condotto a un vero e proprio scisma. Una fazione, i cui membri si definiscono riformisti, è capitanata dal presidente dell’Amministrazione Provvisoria Getachew Reda, l’altra è guidata da Debretsion Gebremichael, presidente di lunga data del FPLT. I fedeli del presidente dell’Amministrazione accusano quest’ultimo di essere il padre padrone del partito e sostengono che non ci sarà accordo se lui e i suoi non accetteranno di modernizzarsi e democratizzarsi: “Il FPLT – ha dichiarato Getachew Reda in una trasmissione pubblica del 20 ottobre – continua erroneamente a considerare il monopolio del governo come un suo diritto di nascita”. Dall’altra parte, invece, i pretoriani di Debretsion Gebremichael, forti di una situazione drammatica a oltre due anni dalla firma degli accordi, accusano l’amministrazione provvisoria di Getachew Reda di assoluta incapacità e malgoverno e di stare complottando per distruggere il partito. Ma hanno anche gioco facile a criticare il mancato mantenimento della principale promessa fatta a Pretoria, liberare, cioè, le aree ancora sotto il controllo dell’esercito eritreo e delle milizie amhara e riportare alle loro case le centinaia di migliaia di persone sfollate a causa della guerra. “Come si può – sostiene Debretsion Gebremichael a The Africa Report – parlare di democrazia quando la tua terra è sotto occupazione?”.

“La divisione all’interno del FPLT – spiega a Mondopoli Daryismaw Hailu, un giornalista di Tigray Media House, l’unica stazione televisiva che è riuscita a trasmettere con una seppur precaria continuità informazioni sulla situazione tigrina – continua a essere una grave fonte di pericolo. Gli sforzi per riconciliare i due gruppi sono finora falliti. Invece di allentare la tensione attraverso il dialogo, la stanno solo esacerbando e c’è il forte timore che possa sfociare in un conflitto.  In particolare, si teme che la decisione degli alti vertici militari presa nelle ultime settimane, di sostenere il gruppo del FPLT guidato dal leader estromesso, Debretsion Gebremichael, possa portare a un conflitto non solo con l’amministrazione regionale ma anche con il governo federale”. Il giornalista fa riferimento a una presa di posizione di una fetta consistente dell’esercito tigrino a favore di Debretsion che nell’agosto scorso era stato rieletto presidente del partito ma che era stato disconosciuto sia dalla fazione di Getachew Reda, che dalla Commissione elettorale nazionale dell’Etiopia, perché secondo questi l’assemblea elettiva si era “svolta in modo illegale”. Gli sgarbi reciproci sono ormai prassi consolidata: lo scorso novembre Getachew Reda era stato rimosso per volontà di Debretsion Gebremichael da portavoce e vice presidente del FPLT per “Incompatibilità col ruolo”. Lo scontro tra l’Amministrazione provvisoria e alcuni leader storici delle forze militari del Tigray, poi, accusati di lavorare “in modo inappropriato” per smantellare le strutture governative locali, promette una possibile scissione anche nelle forze armate. Un primo, timido segnale di ricomposizione del dissidio interno giace nella partecipazione dei leader di entrambe le fazioni al 38° Summit dei capi di Stato africani, svoltosi ad Addis Abeba il 14 febbraio scorso. In quell’occasione entrambi hanno ribadito la necessità di “una piena attuazione dell’Accordo di Pretoria”.

Intorno alla metà di febbraio, inoltre, tanto per complicare il quadro, sono cominciate a circolare voci di un avvicinamento tra Debretsion Gebremichael e il governo eritreo. Addis Abeba segue allarmata e il recente riferimento a un possibile conflitto fatto alla Tv pubblica in tigrino dal primo ministro Abiy Ahmed – “Facciamo la pace, la guerra non ci porterà alcun beneficio” – non lascia tranquilli.

L’altra grossa questione irrisolta è la gestione degli sfollati. “La situazione attuale del Tigray – riprende Daryismaw Hailu – è molto grave. La crisi socioeconomica ha continuato a peggiorare anziché migliorare. Le ragioni sono molteplici e complesse, ma il motivo principale è che le sofferenze degli sfollati ha continuato a intensificarsi a causa della mancata piena attuazione dell’Accordo di Pretoria. A questo proposito, la decisione del governo statunitense di sospendere l’assistenza umanitaria fornita da Usaid ha esercitato una notevole pressione sulle operazioni di aiuto umanitario e sul settore sanitario. Nel frattempo risulta evidente che non sia stato fatto nulla per rilanciare l’economia devastata dal conflitto e i costanti venti di guerra nella regione mettono a dura prova l’economia”.

Come citato sopra, la guerra ha provocato l’esodo forzato di milioni di persone. Di questi, un po’ meno di un milione, continua a risiedere in campi o in aree distanti dai propri luoghi di origine in condizioni drammatiche. La vita di queste centinaia di migliaia di individui è caratterizzata da carenza di cibo, accesso inadeguato all’acqua potabile, assistenza sanitaria insufficiente e persistenti minacce alla sicurezza.

“La situazione è ancora molto preoccupante – dice Tesfay Medhin, vescovo dell’eparchia cattolica di Adigrat, titolare della diocesi che comprende tutto il Tigray e parte dell’Afar – anche a causa dell’occupazione da parte di truppe eritree e gruppi venuti a combattere qui dall’Ahmara, parliamo di un terzo del territorio con conseguente inaccessibilità di molte aree. A pagare il prezzo più alto sono i profughi le cui condizioni in due anni non sono mai cambiate, le promesse di sistemazione e nuovo inizio sono cadute nel nulla. Sappiamo di violenze quotidiane, di abusi su donne e ragazze e di patologie o danni che non possono essere trattati a causa del tracollo generale del sistema sanitario. C’è poi un problema enorme legato all’educazione dei nostri ragazzi. Oltre 500 scuole sono chiuse da oltre quattro anni, un numero impressionante che interessa centinaia di migliaia di nostri giovani che crescono senza istruzione. C’è un aumento della criminalità dovuto alla totale mancanza di prospettive. A tutto ciò si aggiunge il blocco degli aiuti Usaid annunciato dall’amministrazione Trump di cui stiamo già vedendo gli effetti devastanti: in questi giorni abbiamo sentito nei notiziari della morte di molti anziani per fame nell’area di Shirè, nella zona nord-occidentale, dove è scoppiata un’ondata di caldo estremo”.

Le recenti durissime prese di posizione di Mulatu Teshome, presidente dell’Etiopia dal 2013 al 2018 e stretto alleato politico del primo ministro Abiy Ahmed, che su Al Jazeera ha accusato il presidente eritreo Isaias Afwerki di “lavorare per riaccendere il conflitto nel nord dell’Etiopia” contribuiscono a infiammare un contesto che, proprio a partire dalla storica pace tra Etiopia ed Eritrea siglata nel luglio del 2018 dopo decenni di guerra e il successivo Nobel assegnato ad Abiy, sembrava avviarsi verso una stagione di stabilità e pacificazione. Uno scenario al momento neanche lontanamente immaginabile.

 

 

Foto Credits: Rod Waddington from Kergunyah, Australia, CC BY-SA 2.0 Attraverso Wikimedia Commons