Nel cuore della crisi sudanese: tra catastrofe umanitaria, frammentazione politica e resistenza della società civile
Il Sudan continua a essere “la più grande crisi umanitaria in atto” e, al tempo stesso, tra quelle più ignorate dai media e dalla comunità internazionale. Si pensava che la riconquista della capitale Khartoum da parte delle Forze armate sudanesi (Saf), completata a marzo scorso, conducesse a un riequilibrio delle forze a favore del generale e capo di stato Abdel Fattah al Burhan e, se non alla ricerca di un accordo, a una minore spinta bellica. Ma la presa di El Fasher, capoluogo del Darfur settentrionale da parte delle Rsf (Rapid Support Forces) del generale Mohamed Hamdan Dagalo, detto Hemedeti sul finire di ottobre, ha ancora una volta scompaginato gli assetti e condotto i ribelli verso una nuova posizione di forza nello scacchiere sudanese. Il Darfur è ormai una roccaforte delle Rsf e se, come molti osservatori prevedono a breve giro, le milizie riusciranno ad allargare il loro potere anche al vicino Kordofan, l’intera regione centro-occidentale del Sudan sarà sotto il loro diretto controllo. La spartizione ormai netta delle aree di influenza fa somigliare sempre di più il Sudan alla Libia e l’ipotesi di una ennesima costola del Paese pronta a staccarsi, dopo la separazione nel 2011 della regione meridionale, ora Sud Sudan, si fa più realistica.
Nel frattempo, un numero molto elevato di civili dell’area attorno ad El Fasher vive da settimane nel terrore ed è forzato a cercare riparo in zone limitrofe dove la situazione è appena migliore ma non certo sicura. Testimoni oculari e sopravvissuti ai primi massacri (nei giorni immediatamente successivi alla presa della città sono state uccise almeno 2000 persone) hanno riferito al Sudan Tribune che circa 50mila individui sono ancora intrappolati in cinque distretti di El Fasher e restano totalmente isolati dalle comunicazioni poiché le Rsf hanno sequestrato i dispositivi Starlink e i telefoni cellulari. Chi è riuscito a fuggire, racconta di raid su vasta scala che proseguono nonostante El Fasher sia caduta ormai da settimane, a cui si aggiungono rapimenti a scopo di estorsione con richieste di riscatto che possono raggiungere l’equivalente di 1500 euro.
Il Sudan Doctors Network, una delle organizzazioni locali più attive nel soccorso della popolazione ora che moltissime Ong sono state costrette ad evacuare, ha accusato le Rsf di aver sepolto impropriamente in luoghi improvvisati centinaia di cadaveri in un goffo quanto macabro tentativo di nascondere le prove delle uccisioni di massa. Ma le evidenze di sepolture di grandi quantità di corpi in varie zone dell’area sono ormai di dominio pubblico anche grazie alle immagini satellitari raccolte dal Laboratorio di ricerca umanitaria della Yale School of Public Health.
Dalla fine di ottobre alla prima metà di novembre sono oltre 90mila gli sfollati nell’area. Molti di questi hanno perso familiari e fuggono traumatizzati o feriti verso le città attorno a El Fasher. Una di quelle maggiormente prese d’assalto, è Tawila. «La situazione a Tawila e dintorni rimane estremamente instabile – spiega a Mondopoli Taqwa Taha, uno dei coordinatori di Ghaima, un’iniziativa popolare sudanese avviata nel 2024 per offrire soccorso e supporto alla popolazione civile –. Sebbene la città stessa sia attualmente sotto il controllo di Abdel Wahid Mohamed Nour, leader del Movimento di Liberazione del Sudan (fazione al-Nur, opposta a entrambe le parti in guerra, ndr), resta completamente circondata da aree controllate dalle Rsf. Ciò rende Tawila una zona ad alto rischio, intrappolata tra forze opposte. E per quanto Tawila sia considerata relativamente più sicura, inoltre, la sua vicinanza ad Al-Fasher ne fa un luogo ampiamente alla portata dei bombardamenti aerei e degli scontri terrestri. Nei villaggi ora sotto il controllo delle Rsf, i civili continuano a subire violenze ed estorsioni. Abbiamo anche ricevuto segnalazioni di rapimenti, richieste di riscatto ed esecuzioni sommarie. Molti dei volontari e dei medici con cui lavoravamo ad El Fasher sono ora dispersi».
Le condizioni a Tawila sono estremamente difficili. Il cibo e i beni di prima necessità sono disponibili solo nei mercati locali, ma i prezzi aumentano ogni giorno, rendendo quasi impossibile per le famiglie sfollate permettersi anche i beni di prima necessità. «Non ci sono campi attrezzati – riprende Taha – le persone trovano riparo in tende improvvisate, spesso costruite con teli di plastica o scarti di tessuto. Non ci sono servizi igienici funzionanti, né fonti di acqua potabile e i pochi dispensari esistenti stanno perdendo la loro operatività a causa della mancanza di forniture e personale. Le persone dormono per terra e lottano contro la fame, le malattie e l’esposizione alle intemperie». I livelli di malnutrizione nell’area, intanto, hanno raggiunto i tassi più alti dall’inizio della guerra: secondo Medici Senza Frontiere, al 3 novembre, il 70% delle persone giunte a Tawila era gravemente malnutrito.
Nella prima settimana di novembre, a conquista di El Fasher ampiamente ultimata, mentre proseguivano senza pietà bombardamenti, razzie, violenze su ogni segmento della popolazione, le Rsf hanno annunciato che avrebbero accettato la tregua umanitaria di tre mesi proposta dal quartetto di Paesi denominato Quad (Stati Uniti, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti ed Egitto). Le forze armate sudanesi, invece, hanno atteso qualche giorno per rispedire al mittente la proposta e ostentare un netto rifiuto a qualsivoglia negoziato. Il ministro degli Esteri sudanese Mohieddin Salem ha affermato che la proposta non è stata sostenuta da una risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite né da alcuna organizzazione internazionale e che, pertanto, «il governo non la prenderà in considerazione formalmente». La netta risposta di Khartoum affonda le sue radici non solo nel rifiuto di venire a patto con i ribelli, ma anche nella reiterata impossibilità di accettare tra i negoziatori gli Emirati Arabi Uniti (Eau). «Gli Emirati – spiega da Khartoum Diego Dalle Carbonare, un missionario comboniano – continuano a sostenere le Rsf e a investire molto pesantemente nella guerra in Sudan. Il loro principale obiettivo è l’oro di cui è ricco il Darfur, stanno spendendo ingenti quantità di denaro in armi e droni di altissimo livello tecnologico. Le Rsf, quindi, non dispongono più solo di kalashnikov riciclati ma combattono una guerra molto sofisticate e costosa. Non dimentichiamo che gli Emirati dispongono di capacità belliche infinite». Senza il sostegno degli Eau, le Rsf al momento sarebbero confinate al controllo di minime parti del territorio sudanese e avrebbero un potere decisamente minore qualora le parti accettassero di sedere attorno a un tavolo negoziale. «Il problema – riprende Dalla Carbonare – è che gli Emirati continuano a negare categoricamente ogni coinvolgimento nel conflitto sebbene sia clamorosamente evidente e ciò rende tutto ancora più complesso. È difficile fare una negoziazione quando uno dei protagonisti si chiama fuori e vuole ritagliarsi la parte del mediatore».
Nel frattempo la drammatica partita sudanese si sta giocando su un campo nuovo. La grande regione del Kordofan, situata nell’area centro meridionale del Paese, sta rientrando con sempre maggiore evidenza nelle mire delle Rsf. Come riportano vari organi di stampa tra cui Al Jazeera, le Forze di Supporto Rapido hanno effettuato bombardamenti e attacchi con droni sulle posizioni delle Saf a Babanusa, nel Kordofan occidentale, e, grazie anche al supporto degli alleati del Sudan People’s Liberation Movement-North (SPLM-N), stanno avanzando verso sud: ci sono stati ripetuti bombardamenti della città di Dilling, nel Kordofan meridionale.
Secondo la coordinatrice della Sudanese Humanitarian Aid Commission, Salwa Adam Benia, nell’ultimo mese circa 175mila persone sarebbero fuggite da tutta la regione del Kordofan verso El Obeid, la capitale del Kordofan settentrionale.
Tanto per complicare il quadro, nel caos generale si inserisce lo Stato Islamico che, come riporta il sito della Foundation for Defense of Democracies, ha lanciato un secondo appello alla jihad in Sudan e ha invitato i combattenti stranieri, in particolare quelli provenienti dall’Egitto e dalla Libia, a sfruttare le turbolenze del Paese e cogliere l’occasione per «preparare il terreno a una jihad prolungata. […] e avere un impatto profondo sull’intera regione».
In tantissime aree del Paese infiammate da nuove ondate di scontri o devastate da oltre 30 mesi di guerra, malattie, fame, le uniche speranze di sostegno giacciono nelle mani dei gruppi di auto-aiuto organizzati dalla società civile. «La nostra iniziativa – a parlare è di nuovo Taqwa Taha, di Ghaima – è nata da un gruppo di amici che si sono riuniti per rispondere alla crescente crisi umanitaria in Sudan, in particolare nelle zone difficili da raggiungere e assediate del Darfur e del Kordofan. In risposta alla nuova situazione che si è venuta a creare nelle ultime settimane, abbiamo iniziato a coordinare gli aiuti per Tawila in collaborazione con volontari locali e organizzazioni benefiche che operano nella zona. Il nostro primo progetto si è concentrato sulla fornitura di vestiti, scarpe, assorbenti igienici e articoli per l’igiene alle donne, ai bambini e alle famiglie sfollate, nel campo di Daba Naira. Abbiamo poi creato una mensa comunitaria e fornito centinaia di pasti caldi al giorno». Ma la domanda è molto superiore a quella che possono soddisfare anche perché l’afflusso di profughi aumenta di ora in ora e il reperimento delle risorse finanziarie e materiali, è molto complesso.
«Tutti i nostri mezzi provengono da persone comuni – sudanesi e alcuni sostenitori all’estero – che donano direttamente attraverso i nostri social media e le nostre reti personali. Non abbiamo finanziamenti istituzionali né riceviamo aiuti da Ong. Ci affidiamo invece alla fiducia e alla responsabilità costruite in mesi di coordinamento diretto con i volontari all’interno del Sudan. Ogni donazione che riceviamo va direttamente a contatti locali di fiducia che acquistano cibo, medicine e forniture dai mercati vicini, organizzano la preparazione dei pasti e la distribuzione e ci inviano le prove di tutte le transazioni e attività».
Il loro modello, così come quello delle Emergency Response Rooms, presenti in ogni angolo del Paese, e di tanti altri, è un notevole esempio di resistenza e di sostegno tra concittadini. In una situazione estrema dove sembrerebbe impossibile trovare risorse e aiutare altri, questi gruppi di mutuo soccorso riescono nel miracolo di portare almeno un po’ di sollievo materiale e morale a una popolazione allo stremo. «Riusciamo a lavorare anche quando l’accesso umanitario formale è bloccato. Siamo persone che aiutano altre persone: una rete di solidarietà che mantiene in vita molte comunità in luoghi dove le organizzazioni più grandi non possono arrivare».
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