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Il Mali tra seconda decolonizzazione e storie di mamme di migranti

Attanasio Luca

Dal Sahael, un quinquennio fa, è partito un fenomeno politico che sta scuotendo l’area e, in un certo senso, l’intero continente africano. Alla testa di questo sommovimento c’è senza dubbio il Mali che tra il 2020 e il 2021 ha dato vita a due colpi di Stato, innescato un effetto domino e ispirato un percorso di chiaro stampo anti-occidentale che qualcuno definisce seconda decolonizzazione. Il primo golpe maliano avvenne a settembre 2020 ma il governo transitorio che ne scaturì ebbe breve vita: il generale Assimi Goïta e un manipolo di suoi fedelissimi, non soddisfatti delle prime mosse del governo provvisorio, esautorarono nove mesi più tardi il presidente Bah Ndaw, di cui Goïta era vice, lo fecero incarcerare e presero tutto il potere a maggio 2021. Il nuovo esecutivo golpista, nato sulle ceneri ancora calde del precedente, fu subito affidato a Goïta, leader carismatico e fermamente anti-occidentale. L’ascesa rapidissima di questo giovane ufficiale (all’epoca del golpe aveva 37 anni, ndr) e la presa di potere autocratica ma allo stesso tempo incruenta, furono salutate fin da subito da scene giubilari di masse di maliani scesi in piazza per schiararsi al fianco del nuovo eroe e manifestare l’apprezzamento per la nuova via marcatamente anti-francese e nazionalista. Lo smarcamento netto da tutto quanto avesse retaggi occidentali ebbe una prima chiara manifestazione proprio in occasione di queste imponenti dimostrazioni di piazza: accanto a bandiere maliane, sventolavano bandiere russe. Da quella fase in poi, l’affrancamento dalla Francia, è sempre rimasta la stella polare del percorso di governo scelto da Goïta. La prima tappa del processo fu l’appariscente cacciata delle truppe francesi di stanza nel paese chiamate nel 2013 a guidare le campagne anti-jihadiste (poi strutturatesi nel 2014 nell’immensa ‘Operazione Barkhane’), e allontanate in malo modo a gennaio 2022 al culmine di un fallimento certificato: in quasi dieci anni di presenza degli oltre 5.500 effettivi francesi, della presa in carico di operazioni militari e caserme, la penetrazione jihadista era aumentata vistosamente.

Con l’occasione, gli ufficiali golpisti rispedirono a Parigi anche l’ambasciatore francese Joël Meyer accusato di «essersi impegnato in attività sovversive» e da quel momento le relazioni diplomatiche restano ai minimi storici. I rivolgimenti maliani funsero da innesco a una serie di altri colpi di Stato che in breve coinvolsero tutta l’area saheliana e oltre. Ciad (aprile 2021), Guinea (settembre 2021), Burkina Faso (gennaio 2022) e Niger (luglio 2023), sono solo alcuni esempi di golpe succedutisi in rapida sequenza e che, a differenza di quello avvenuto a ottobre 2021 in Sudan, sono stati attuati nella quasi totalità in modo incruento.

La svolta maliana nella gestione della lotta al jihadismo, con tutto il potere ritornato nelle mani dell’esercito autoctono, sostenuto dalla Russia, ha portato miglioramenti nell’arginamento del terrorismo di matrice islamica. Non si può certo dire, però, che la questione sia risolta. Nel frattempo, in un progressivo processo di chiusura verso l’occidente e gli organismi transnazionali, il Mali ha abbandonato all’inizio dell’anno la Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale (Ecowas) insieme a Niger e Burkina Faso, e dato vita una nuova realtà geopolitica proprio con questi due vicini: l’‘Alleanza degli Stati del Sahel’ (AES). Sempre con Niger e Burkina Faso ha deciso inoltre di uscire dall’Organizzazione internazionale della francofonia (Oif), mentre nel giugno del 2023 ha espulso gli effettivi della Minusma, la missione di pace Onu che comprendeva 15.000 soldati e poliziotti inviati in Mali da decine di paesi. In quest’ultimo caso è interessante notare che il ritiro fu in un certo senso consensuale perché gli stessi Caschi blu, che dovettero annoverare l’uccisione di centinaia di peace-keeper nei dieci anni di attività, ammisero il sostanziale fallimento nel favorire pace e stabilità.

Il consenso di cui gode Assimi Goita tra la popolazione, almeno nella capitale Bamako dove il morso jihadista si sente meno, resta altissimo. Al generale i concittadini ascrivono una ritornata fierezza nazionale, un miglioramento nella lotta all’estremismo islamico (anche se negli ultimi mesi i jihadisti sembrano nuovamente guadagnare terreno) oltre alla campagna di pulizia radicale della classe politica che il popolo giudica quasi unanimemente corrotta e incapace. Ma se si passeggia tra le strade di Bamako, dove può capitare di venire apostrofati con insulti perché ritenuti francesi, e si parla con la gente comune, oltre all’ apprezzamento per il nuovo corso, si comprende anche la fatica di vivere.

«La sicurezza è ancora un grosso problema per la popolazione – spiega Mons. Cissè, arcivescovo cattolico di Bamako – e quelli che io preferisco chiamare terroristi, perché le loro attività hanno a che fare con il business, non con la religione, stanno arrivando anche a sud e al centro. Anche qui a Bamako cominciano a far sentire la presenza». La crisi economica, complice un isolamento progressivo della giunta, si fa sentire. Le infrastrutture restano un problema anche nella capitale dove le strade principali sono mediamente percorribili ma quelle collaterali sono più simili a mulattiere che a arterie di circolazione. La scolarizzazione, inoltre, presenta dati molto bassi con un tasso di alfabetizzazione fermo al 33,7%.

Il mix di tutti questi e altri fattori, continua a spingere la popolazione, soprattutto la sua fascia più giovane, a cercare fortuna verso un’Europa sempre più sbarrata per chi viene dal Sud del mondo e ad affrontare i rischi di viaggi infernali nelle mani di trafficanti. A casa, aggrappate al proprio telefonino in attesa di notizie dai propri cari in viaggio, rimangono in gran parte donne. Rimangono mamme in attesa di un cenno dai propri figli che a volte tarda ad arrivare, a volte, non arriva.

«Mi chiamo Hatoumata Kantako – dice una donna incontrata nel quartiere di Missabougou, alla periferia di Bamako – Un giorno del 2024 mio figlio Mamadou uscì presto di casa, pensavo fosse andato al mercato ma non era così. Per ore ho atteso sue notizie, ho chiesto a tutti i suoi amici, a suo zio, ma nessuno sapeva nulla. Passavano i giorni e cominciai a essere molto preoccupata». Mamadou, aveva racimolato un po’ di soldi per pagare il primo trafficante ed era partito all’alba, così come tanti altri ragazzi, senza dire nulla a nessuno. La paura di dare un dolore alla mamma, di non avere il coraggio di guardarla piangere, fa sì che tanti giovani, alcuni giovanissimi, tengano per sé il progetto migratorio e restino per tempo senza telefonare. Nel corso del tragitto, poi, capita spesso che i telefonini vengano sequestrati o che non si abbiano soldi per comprare credito. E, dall’altro capo, le famiglie, le mamme, restano immobilizzate nell’angoscia «Ero molto preoccupata, passavo le giornate fuori a cercarlo, andavo dai suoi amici e in tutti i posti che frequentava, ma tutti mi dicevano che non aveva detto nulla.  Ho anche chiamato i miei parenti al villaggio per vedere se fosse lì. Passavo le notti in bianco perché temevo cosa gli sarebbe successo. Eravamo molto legati, parlavamo molto, ma non ho mai dubitato della sua partenza». Qui Hatoumata si ferma. La sua narrazione subisce come un duro colpo. Il volto tradisce l’infinita sofferenza. «Mesi dopo, uno dei suoi amici ha chiamato…”Signora, mi disse, Mamadou è salito sul barcone ma per paura voleva scendere. Non abbiamo fatto in tempo a trattenerlo, si è gettato in acqua…ed è morto”. Aveva solo 20 anni. Ricordo di essere svenuta, mi hanno portato in ospedale». Con le ultime forze, Hatoumata aggiunge che la notizia fu uno shock per tutto il quartiere, il suo Mamadou era conosciuto e amato. «Era il mio primo figlio maschio. Se n’è andato senza dire nulla… Non ho potuto neanche salutarlo»

Nel dibattito sui fenomeni migratori così spesso strumentalizzato e ancor di più incompreso, le voci di chi resta nell’altro emisfero, i sentimenti, le sofferenze, i problemi sono totalmente assenti. E alla crudeltà di costringere decine di migliaia di individui a viaggi infernali costellati di lager, passaggi nei deserti, traversate nei mari e morti perché non si prevedono politiche di gestione dei visti come per chiunque viaggi provenendo dall’emisfero nord, si aggiunge quella di lasciare familiari, amici, cari, parenti, nell’angoscia di non avere notizie e nel terrore di ricevere la più devastante.

Sembra difficile immaginare che dall’altra parte del Mediterraneo o dell’Egeo, ci siano persone che aspettano. Ci siano mamme che vivono sospese.

Per raccogliere le loro voci e farle emergere quale contributo fondamentale nel dibattitto, chi vi scrive ha ideato ‘Mums, narrare il fenomeno migratorio attraverso la voce delle mamme dei migranti’, un progetto giornalistico finanziato dal Coordinamento Nazionale Comunità Minori (Cncm) e sostenuto da un crowdfunding, composto da quattro missioni in altrettanti paesi africani. L’obiettivo è quello di produrre una serie di cortometraggi – uno per ogni paese – e di realizzare un documentario finale.

La prima tappa si è svolta in Gambia nel settembre 2024. In quell’occasione sono state intervistate quattro mamme di altrettanti ragazzi sopravvissuti al viaggio e ora stabilitisi in Italia. La tappa di Bamako, invece, svoltasi lo scorso settembre, ha raccolto le voci di cinque mamme i cui figli sono andati a ingrossare il numero di persone morte mentre cercavano di raggiungere l’Europa: solo in mare 33mila circa dal 2014 a oggi, ma al computo, mancano quelli deceduti prima di raggiungere le coste.

«Mio figlio si chiamava Seydou – dice Assitan, anticipando, attraverso l’uso dell’imperfetto, il senso del dramma del suo racconto – Avevo sei figli, un maschio e cinque femmine, ma il ragazzo è scomparso nel Mediterraneo. Un giorno venne da me e mi disse: “Mamma, ho deciso, parto”. “Ma dove vai figlio mio, come facciamo senza di te?” mi disse di non preoccuparmi, che se Dio lo avesse voluto, avrebbe portato a casa molti soldi. Il giorno dopo è partito e per me è cominciato un incubo». Assitan non avrà più notizie del suo ragazzo per un tempo infinito poi, finalmente, una chiamata «Mi disse “Mamma, sono in Mauritania, parto per l’Europa” e poi di nuovo, nessuna notizia. Un giorno sentii che una barca piena di maliani si era capovolta, pensai “e se c’era sopra  Seydou?” Allora ho chiamato uno dei suoi cugini, “Zia, mi disse, l’ho appena saputo… Seydou è morto” e poi aggiunse “fatti forza cara zia!”».

Le voci flebili, miti, disarmate di queste donne, rappresentano un grido di tante altre mamme, di padri, di sorelle, mogli, mariti che dall’Africa e dal Sud globale si spinge fino all’Europa. «I nostri figli vogliono andare in Europa in cerca di un futuro migliore per loro e per noi qui, la politica degli occidentali deve cambiare».

Foto Credits: Noborder Network, Attribution 2.0 Generic attraverso Flickr