Gli insediamenti dei rifugiati in Uganda: come gli spazi umanitari sono diventati una discarica globale
A partire dal 2006 l’Uganda ha adottato una politica dei confini aperti che ha attratto migranti dai Paesi confinanti: Repubblica Democratica del Congo (RDC), Sud Sudan, Sudan, Etiopia, Burundi, Eritrea, Ruanda e Somalia, tra gli altri. Nel 2025 l’Uganda non solo ospita persone sfollate provenienti da oltre trenta Paesi, ma figura anche tra i primi cinque Paesi al mondo per numero di rifugiati.
L’Uganda ha adottato una politica che, in pratica, riconosce ai rifugiati il diritto al lavoro, alla proprietà e all’istruzione. In altre parole, il quadro di gestione dei rifugiati del governo ugandese sostiene l’integrazione di essi nell’economia del Paese.
Gli insediamenti dei rifugiati in Uganda sono definiti da un insieme complesso di iniziative politiche, impegno dei donatori e dinamiche geopolitiche che plasmano questo paesaggio umanitario. La popolazione rifugiata dell’Uganda si avvicina ai due milioni, facendo del Paese il principale ospitante di rifugiati in Africa. Di questi, oltre la metà proviene dal Sud Sudan, seguito dalla RDC. A differenza di altri Paesi ospitanti che prediligono l’accampamento, l’Uganda adotta un approccio insediativo in cui ai rifugiati vengono assegnati appezzamenti di terra per coltivare e costruire case, così da raggiungere l’autosufficienza. Questa peculiarità costituisce il modello ugandese, che ha ricevuto riconoscimento internazionale per la sua inclusività.
Diverse agenzie, tra cui l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR), l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM) e il Fondo delle Nazioni Unite per l’Infanzia (UNICEF), hanno collaborato con l’Ufficio del Primo Ministro dell’Uganda per garantire l’inclusione dei rifugiati nei piani di sviluppo, presupposto dell’assistenza umanitaria. La risposta ugandese ai rifugiati è ampiamente sostenuta da donatori internazionali, in particolare per la fornitura di razioni alimentari, alloggi temporanei, assistenza sanitaria e istruzione. L’Uganda, a sua volta, beneficia di progetti di sviluppo infrastrutturale finanziati da questi donatori internazionali: vengono costruiti e finanziati centri sanitari, scuole, reti stradali, progetti idrici e di igiene, condivisi sia dai rifugiati sia dalle comunità ospitanti.
Gli insediamenti dei rifugiati in Uganda: una prospettiva
L’Uganda ha promulgato un Refugees Act nel 2006, che riconosce ai rifugiati la libertà di movimento, l’accesso all’istruzione e all’assistenza sanitaria, e il diritto al lavoro e alla proprietà. Il Paese inoltre aderisce ad alcune convenzioni internazionali sui rifugiati. Tra le altre, l’Uganda ha ratificato strumenti chiave come la Convenzione sui diritti del fanciullo e la Convenzione internazionale sulla protezione dei diritti di tutti i lavoratori migranti e dei membri delle loro famiglie.
La presenza dei rifugiati ha attirato risorse e servizi nei distretti ospitanti dell’Uganda grazie ai finanziamenti dei donatori internazionali. Alcuni programmi sostengono progetti comunitari congiunti, per esempio l’“Uganda Host and Refugee Community Empowerment Project” (UHRCEP). Alcuni rifugiati svolgono attività imprenditoriali, tra cui commercio al dettaglio, allevamento avicolo e di bestiame, aziende agricole; in alcuni insediamenti si osserva una crescente urbanizzazione con l’espansione del settore informale. I rifugiati sono inoltre coinvolti in trasferimenti di denaro internazionali che hanno favorito le transazioni anche per le comunità ospitanti.
Luoel, un rifugiato del Sud Sudan, ci ha detto: «…quando sono arrivato a Palabek nel 2020, ho capito che il sostegno dell’UNHCR non era sufficiente, così ho iniziato ad allevare anatre; ho anche capre e un negozio al dettaglio. Sopravvivere è impegnativo, ma cerco di farcela anche se la fornitura di cibo tarda».
Kei, una laureata ventisettenne dell’Università di Khartoum, è arrivata in Uganda nel 2023 all’apice della guerra tra l’esercito sudanese guidato da Burhan e le Forze di Supporto Rapido guidate da Dagalo. Dopo diversi tentativi falliti di raggiungere l’Egitto, l’unica mossa disperata di Kei è stata provare con l’Uganda. Ha detto: «Il nostro obiettivo era andare negli Stati Uniti passando per l’Egitto, ma le autorità egiziane ci hanno negato l’ingresso. Avevo sentito parlare dell’Uganda e della sua politica sui rifugiati, così, quando ci siamo ritrovati in questa situazione, abbiamo dato una possibilità all’Uganda… Io, insieme a mio marito e alla sua famiglia allargata, abbiamo ottenuto tutti asilo in Uganda». Il caso di Kei non è affatto eccezionale; al contrario, è la realtà concreta della risposta ugandese all’ospitalità dei rifugiati.
Nei centri commerciali i rifugiati lavorano in settori come saloni di bellezza, sartoria, vendita di cibo, falegnameria e trasferimenti di denaro tramite telefonia mobile. Sia i rifugiati sia le comunità ospitanti intraprendono tali piccole attività attraverso forme di cooperazione reciproca. A volte l’Ufficio del Primo Ministro e alcune ONG hanno formato i rifugiati e le comunità ospitanti su competenze per la sussistenza, come modalità per promuovere la pacifica convivenza e ridurre le tensioni tra gruppi. In diverse aree di accoglienza, sia ospitanti sia rifugiati ricevono formazione in agricoltura, percorsi professionali e piccole attività imprenditoriali. Alcuni rifugiati hanno avviato Associazioni di credito rotativo, esperienze di microfinanza che promuovono l’inclusione finanziaria e favoriscono l’autosufficienza e la crescita economica.
Sebbene l’insediamento dei rifugiati in Uganda abbia generato crescita, opportunità economiche e riconoscimenti internazionali, il continuo afflusso di rifugiati nel Paese pone l’Uganda a un “bivio critico”, come è stato definito da Capoccia e Kelemen in un articolo pubblicato nel 2007 sulla rivista World Politics. Si registrano infatti sovraffollamento, disoccupazione, pressione sulle infrastrutture (soprattutto sulle strutture sanitarie) e su altri servizi sociali, vulnerabilità urbana (poiché alcuni rifugiati si spostano verso città come Kampala), pressioni sulla terra e su altre risorse naturali condivise. Inoltre, le differenze nei regimi fondiari e i territori culturalmente significativi, come le terre ancestrali e i siti culturali, sono tutelati e/o resistono a qualsiasi tentativo di condivisione con i rifugiati. L’aumento della popolazione rifugiata ha portato a concorrenza per le risorse naturali, soprattutto acqua, terreni agricoli e pascoli. Le carenze di risorse hanno causato deforestazione e degrado del suolo, soprattutto all’interno e nei territori circostanti gli insediamenti. La competizione per le opportunità di lavoro con la comunità ospitante, gli appezzamenti ridotti negli insediamenti-che non possono sostenere i mezzi di sussistenza-e, per di più, il forte taglio delle razioni alimentari aggravano la situazione. Scuole e centri sanitari sono sovraffollati in un contesto di aiuti in diminuzione.
Con il calo del sostegno umanitario, il successo e la sostenibilità della politica ugandese sui rifugiati sono sotto esame. Sebbene gli spazi umanitari debbano essere luoghi di sicurezza, come sancito dal Target 10.7 dell’Obiettivo 10 degli Obiettivi di sviluppo sostenibile («agevolare una migrazione e mobilità delle persone ordinate, sicure, regolari e responsabili, anche attraverso l’attuazione di politiche migratorie pianificate e ben gestite») essi stanno invece diventando una “discarica globale” di popolazioni indesiderate. La trascuratezza degli spazi di soccorso è evidente mentre l’Uganda affronta arrivi quotidiani, soprattutto dai Paesi vicini soggetti a conflitti (RDC, Sud Sudan e Sudan). L’UNICEF ha segnalato casi estremi di malnutrizione e malaria, con numeri in forte aumento che aggravano l’emergenza umanitaria.
Come gli spazi umanitari sono diventati una discarica globale
L’idea che gli spazi umanitari siano diventati una “discarica globale” è una riflessione critica su come tali spazi vengano abusati, politicizzati o persino mercificati. È una riflessione provocatoria sulle crescenti preoccupazioni riguardo al modo in cui, talvolta, l’assistenza umanitaria è stata abusata. In alcuni casi, questi spazi sono sopraffatti dall’aumento vertiginoso del numero di rifugiati. Gli spazi di soccorso sono stati trasformati in luoghi di scarico per popolazioni indesiderate. Si tratta di un nuovo modo di gestire le popolazioni “indesiderate” al di fuori dei confini dei Paesi sviluppati. La pratica di collegare assistenza umanitaria e cooperazione allo sviluppo al tema migratorio può essere vista come una “contenzione attraverso lo sviluppo”, in cui la deterrenza della mobilità dei rifugiati si realizza creando condizioni favorevoli in “terzi spazi” dove i rifugiati sono accolti.
Prendendo le mosse dall’esperienza del quadro di accoglienza dei rifugiati in Uganda, il rischio concreto è che gli spazi umanitari stiano diventando una discarica globale di popolazioni indesiderate; al contrario, gli spazi umanitari dovrebbero essere luoghi di diritti e di rispetto della dignità, come indicato dal Target 10.7 dell’Obiettivo 10, attraverso sei ambiti, ossia diritti dei migranti, governance, cooperazione, benessere socioeconomico, risposta alle crisi e gestione della migrazione.
Marco Armiero, nel suo libro (2021), L’era degli scarti. Cronache dal Wasteocene, la discarica globale, pubblicato in Italia da Einaudi, esplora come viviamo in un mondo definito da rifiuti, tossicità e usa-e-getta, compresa l’ingiustizia ambientale. Per l’autore, viviamo nell’“era dei rifiuti”. Possiamo utilizzare il concetto di Wasteocene utilizzato da Armiero non solo in senso materiale ma anche simbolico, per comprendere la natura di trascuratezza e “disponibilità allo scarto” dei rifugiati e degli sfollati; i loro corpi e i loro paesaggi riflettono ingiustizie stratificate. Poiché viviamo in un mondo definito da “relazioni di scarto”, alcune persone, come i rifugiati, diventano sacrificabili. La loro marginalità è evidente nelle condizioni di vita: insediamenti congestionati con scarsa igiene, degrado ambientale, cattiva gestione dei rifiuti, infrastrutture inadeguate, alloggi temporanei semipermanenti, insicuri e disordinati, privi dei servizi di base.
Con il restringersi degli aiuti umanitari e le strategie guidate da considerazioni geopolitiche, la vita delle persone sfollate è minacciata. Loyong è un bambino rifugiato del Sud Sudan la cui separazione familiare lo ha esposto alle dure realtà della vita: sopravvive con un pasto ogni tre giorni. Con i tagli agli aiuti umanitari, molti rifugiati sono stati lasciati in una “nuda vita”, per citare Agamben. Quando il governo degli Stati Uniti, sotto il presidente Donald Trump, ha avviato tagli agli aiuti internazionali, le conseguenze sono state gravi in tutto il mondo. Tenendo presente che gli Stati Uniti, tramite USAID, e l’Unione europea (UE) sono stati i principali donatori per la risposta umanitaria e lo sviluppo nel Sud globale. Di fatto, la sola UE ha investito milioni di euro per sostenere i mezzi di sussistenza dei rifugiati, compresi istruzione, assistenza sanitaria e insediamento dei rifugiati in Uganda. Tra il 2017 e il 2025, l’UE ha investito oltre 282 milioni di euro. Ciò dimostra che gli spazi umanitari non sono definiti solo da potenze esterne, ma sono anche fragili. I Paesi ricchi definiscono e controllano il sostegno agli aiuti verso il Sud globale, il che richiede un’analisi critica di come gli attuali modelli di accoglienza dei rifugiati perpetuino il clientelismo e la dipendenza. I tentativi di eliminare le disuguaglianze globali si sono rivelati difficili, poiché sono costellati di problemi di governance e di diritti umani.
Scarico della responsabilità
Gli spazi umanitari sono messi alla prova da congestione, finanziamenti limitati, fallimenti politici e, in alcuni casi, sono stati usati come merce di scambio per diplomazie fallite. I tagli degli Stati Uniti alle iniziative finanziate da USAID sono una chiara attestazione di rapporti diplomatici a rischio di fallimento. Con l’assottigliarsi degli aiuti, la condizione degli insediamenti finanziati dall’UNHCR in Uganda è segnata da razionamenti alimentari, malnutrizione (soprattutto infantile) e un impatto complessivamente negativo sui programmi di risposta ai rifugiati.
Questo ugandese è un caso in cui i Paesi più ricchi hanno “scaricato” la responsabilità, in modo ben poco sensibile rispetto all’SDG 10. USAID, come istituzione globale, al pari di molte altre istituzioni multilaterali o bilaterali, a volte riversa le proprie responsabilità morali su Paesi poveri ed economicamente svantaggiati. La loro fragilità economica e politica li pone in una posizione tale da non poter rivendicare o contestare la superiorità delle dinamiche di potere esterne, che perpetuano disuguaglianza e dipendenza.
Questo preoccupante spostamento negli spazi umanitari sminuisce il rispetto dei principi sanciti dal Target 10.7 dell’Obiettivo di sviluppo sostenibile (SDG) 10. “Discarica globale” diventa allora una potente metafora che rappresenta il degrado degli spazi di assistenza, la cui riprova tangibile si sperimenta negli insediamenti per i rifugiati, ora sovraffollati e con e tensioni crescenti sulla terra.
Sono state riportate notizie di un numero crescente di rifugiati auto-insediati nelle aree urbane; essi affrontano sfide che vanno dalla competizione per il lavoro con la popolazione locale all’elevato costo della vita, in un contesto di sostegno umanitario in diminuzione. I tagli ai finanziamenti hanno comportato una riduzione delle forniture alimentari e di altri servizi. Tali criticità sono i principali fattori che mettono a dura prova la pacifica convivenza con le comunità ospitanti.
Oggi, dunque, con l’aumento delle minacce geopolitiche nella regione, testimoniato dalla perdurante instabilità nella Repubblica Democratica del Congo, nel Sud Sudan e nel Sudan, ci si chiede quanto sia sostenibile la politica ugandese delle porte aperte. Gli insediamenti dei rifugiati in Uganda riflettono da un lato uno spirito umanitario e, dall’altro, la pressione concreta di ospitare un gran numero di popolazioni sfollate. Ciò ha un impatto multilivello sulla regione, sulla mobilità, sulla politica e sull’economia.
Conclusione
Il modello ugandese di accoglienza dei rifugiati, pur essendo lodato a livello globale, deve il suo successo e dipende dalla sostenibilità della risposta umanitaria, dalla stabilità geopolitica e dalla gestione delle realtà locali. Oggi, questo modello, è immerso in un insieme di sfide che rivelano un equilibrio tra fragilità e generosità. Nonostante l’impegno umanitario della comunità internazionale, la risposta dell’Uganda ai rifugiati rimane cronicamente sotto finanziata, poiché l’elevato numero di persone sfollate continua a crescere in conseguenza della sua politica delle porte aperte. Resta molto da fare per capire se il Target 10.7 dell’Obiettivo 10 degli Obiettivi di sviluppo sostenibile sarà effettivamente raggiunto.
Foto credits: Thelifeofdaniel1994, CC BY-SA 4.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0>, via Wikimedia Commons