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Genere e ambiente negletti nel futuro dell’Indonesia

I vuoti nella campagna elettorale per il voto del 14 febbraio

Giordana Emanuele

L’Indonesia degli ultimi due anni è stata attraversata da una lunga campagna elettorale per le presidenziali, le legislative e le amministrative. Dunque il grande arcipelago con 17mila isole e oltre 270 milioni di abitanti è stato tappezzato di manifesti elettorali e i social media, le piazze e le televisioni si sono riempite di comizi, dibattiti e show. Attraversandolo lungo l’equatore, da Giava sino all’estremo Est di Timor, si notano i cartelli gialli del Golkar, uno dei partiti più longevi, o del Pdi-P, un’organizzazione che esibisce la faccia di Sukarno (il “liberatore” dal giogo olandese) accoppiata a quella di un toro in campo rosso. Si nota anche l’esibizione dei faccioni di questo o quella candidata, con la piacevole sorpresa che le donne non sono poche. Ma sembra che in questa campagna elettorale ci sia – e ci sia stato – poco spazio per i contenuti che riguardano il genere o, altro tema fondamentale in un Paese che ospita con l’Amazzonia una delle più vaste foreste del pianeta, l’ambiente. A scorrere le dichiarazioni dei candidati, gli show televisivi, le analisi dei giornali, si fa fatica a vedere uscire questi due temi. Soffocati da quelli economici e da quelli eminentemente politici, complicati da una serie di scelte elettorali che hanno spaccato e polarizzato il Paese.

Per farci un’idea delle diversità che contiene questo vasto arcipelago abbiamo scelto di attraversarlo da Est a Ovest visitando le diverse anime che lo compongono. A Giava abbiamo incontrato una studiosa di Kejawen, l’antica religione giavanese – o meglio l’insieme delle tante anime della spiritualità giavanese – che vive nella città di Surakarta. Laura Romano abita da diversi anni in questa importante città il cui sindaco Gibran Rakabuming Raka si è candidato a vicepresidente, sollevando perplessità perché si tratta del figlio del Capo di Stato uscente, Joko Jokowi Widodo. Affrontiamo il tema del genere a partire dall’islam – la religione maggioritaria – e dal velo. In una società composta all’87% da musulmani, molti dei quali vivono a Giava – l’isola più grande che conta 150 milioni di abitanti – il velo è una novità relativamente recente. Negli anni della dittatura del generale Suharto (1966-1988) era, se non vietato, disincentivato. Ma con la Reformasi, l’avvento della democrazia dopo la sua caduta, le cose sono cambiate e in Indonesia il velo ha preso la forma di una riaffermazione di identità. Anche per contrastare forme più radicali di un revivalismo islamico che ha contagiato l’arcipelago negli ultimi 25 anni. “Ma non va preso nemmeno troppo sul serio – dice Romano – o quantomeno le indonesiane non vivono il velo come una costrizione a essere in un certo modo. Le mie amiche – conclude con una battuta – mi dicono che il velo risolve loro molti problemi, compreso quello di doversi truccare o sistemare per uscire di casa”. Se la diffusione del velo non è un elemento di radicalismo religioso è vero comunque che l’emancipazione femminile è ancora un cammino in salita. Anche se meno di quanto possa sembrare.

A Sumba, a Bali o a Timor – isole dove c’è una forte presenza cristiana o indù – il velo non si vede proprio. E in tutto l’arcipelago, nei luoghi di lavoro, la presenza femminile è diffusa anche se il problema è come sempre chi sta al vertice. Il movimento femminile ha fatto comunque enormi passi avanti già alla vigilia della fine della dittatura di Suharto nel 1998. Un mese prima della caduta del dittatore in maggio, uscì Saman, il primo libro di una giovane scrittrice indonesiana – Ayu Utami – che aveva il coraggio di rompere gli schemi e di far parlare le donne infrangendo tabù che tiravano in ballo sentimenti, ruoli ma anche sessualità. Nacque così un movimento letterario, chiamato Sastra Wangi o “letteratura fragrante”, fenomeno che, alla fine della trentennale dittatura di Suharto, aveva sconvolto il panorama culturale indonesiano. Ci si accorse allora che anche in Indonesia esistevano le donne e che non erano solo danzatrici, cameriere o cuoche, inevitabilmente madri e altrettanto inevitabilmente sottomesse. Ayu venne tradotta in italiano nel 2010, sorte che toccò poi ad altre come Feby Indirani (Non è mica la Vergine Maria per esempio, uscito nel 2019). Ma al di là della letteratura e dei progressi in una nazione con una società civile molto vivace, la strada delle donne resta in salita. Secondo l’indice stilato annualmente del World Economic Forum (WEF) – riportato dall’Indonesia Business Coalition for Women Empowerment (IBCWE), un’organizzazione locale impegnata a promuovere l’emancipazione economica delle donne e l’uguaglianza di genere – nel rapporto Global Gender 2022 l’Indonesia si era classificata al 92° posto su 146 paesi. Nel rapporto del 2023 ha registrato un miglioramento salendo all’87°. Troppo poco. Il punteggio si basa su quattro sottoindici nei settori dell’istruzione, della salute, della partecipazione e delle opportunità economiche e dell’empowerment politico. I risultati della ricerca dicono che se nel 2023 l’uguaglianza di genere resta stabile e nella media globale sia nell’istruzione sia nel settore sanitario, partecipazione e opportunità economiche sono diminuite anche se rientrano ancora nella media globale. Ma i risultati nel campo dell’empowerment politico – avverte la ricerca – sono invece inferiori alla media globale. Nei Paesi Asean (l’associazione regionale del Sudest asiatico) l’Indonesia è al sesto posto su 11 Paesi e, a livello asiatico in generale, la posizione dell’arcipelago è davanti anche a diversi Paesi sviluppati dell’Asia, come Giappone, Cina e Corea del Sud. Forse proprio l’impulso dei movimenti di base ha spinto il Paese a considerare diversamente il pianeta femminile anche se continuano a prevalere pregiudizi morali e tradizioni che consentono il primato maschile. Del resto, nessuna donna è stata candidata alla presidenza, nemmeno come vice.

Sul fronte ambientale le cose non vanno meglio. Nonostante vi siano diversi movimenti ambientalisti il rischio di un compromesso al ribasso tra sviluppo e difesa dell’ambiente è alto. L’arcipelago non possiede solo il polmone verde del Borneo (Kalimantan) ma può contare sulle maggiori riserve mondiali di nichel, un materiale chiave oggi proprio per la transizione ecologica: serve per i veicoli elettrici o i pannelli solari, cosa che fa dell’Indonesia il produttore di una materia prima molto richiesta. Non è l’unica. Le sue risorse vanno dai prodotti di piantagione (olio di palma, gomma, pasta per fabbricare carta) alle riserve fossili: carbone, stagno, petrolio e gas. Il Paese ha beneficiato dell’aumento dei prezzi delle materie prime e ha garantito uno sviluppo economico che è tra le bandiere di successo del presidente uscente Jokowi. Ma estrazioni minerarie, disboscamento delle aree verdi, inquinamento dell’aria dovuto allo smog e ai fumi delle piantagioni (quando si bruciano i residui della produzione agricola) fanno da controcanto.

Il vantaggio prodotto dalla rapida espansione del disboscamento, dall’estrazione mineraria e dalla diffusione delle piantagioni, ha comportato in parte il consumo delle foreste pluviali, l’inquinamento delle acque costiere e delle faglie, lo smog (haze) nelle città. “Per accelerare lo sviluppo delle industrie chiave, Joko Widodo ha vietato le esportazioni di alcune materie prime come nichel e bauxite, che vengono utilizzate per produrre alluminio, obbligando le aziende a costruire raffinerie per lavorare e aggiungere valore a ciò che l’Indonesia vende al resto del mondo”, spiega un’inchiesta dell’Associated Press che riassume la politica economica del presidente. Il tema è sensibile perché se da una parte aumenta il valore aggiunto, aumenta anche l’inquinamento. Eppure su questo tema nessun candidato alla presidenza ha sollevato dubbi.

Un altro progetto che ha sollevato le critiche degli ambientalisti, ma non degli ambienti politici, è la costruzione di una capitale amministrativa nel Borneo che salvi Giacarta, la capitale attuale, da un sovraffollamento scomposto che la sta stritolando. I tre candidati alla presidenza – Prabowo Subianto, Ganjar Pranowo e Anies Baswedan – sono sembrati insensibili al tema ambientale: “Nessuno di loro – ha scritto la rivista ecologista indonesiana Mongabay –   ha parlato di alcun tipo di transizione energetica per un Paese che è il più grande esportatore mondiale di carbone”. Una  ricerca condotta dal Centro di studi economici e giuridici (CELIOS) e da UniTrend (Gadjah Mada University), pubblicata nel settembre scorso, spiega che gli elettori di età inferiore ai 44 anni affermano di sperimentare gli effetti disastrosi del cambiamento climatico e si aspettavano che i candidati offrissero piani sostanziali per risolverli. Millennial e Generazione Z costituiscono più della metà dei 205 milioni di aventi diritto al voto del 14 febbraio 2024. Probabilmente sono rimasti delusi dalla campagna elettorale. Ma è probabile che aspettino al varco il suo vincitore.

 

Foto Credits: Department of Foreign Affairs and Trade, CC BY 2.0 <https://creativecommons.org/licenses/by/2.0>, – Wikimedia Commons
Emanuele Giordana, https://www.atlanteguerre.it/indonesia-al-voto-tra-polemiche-e-spaccature/