Mondo Editoriali

La guerra tra dollaro e yuan nel Sud del mondo

Litre Gabriela

All’inizio di ottobre è stata portata a termine per la prima volta un’operazione commerciale tra Cina e Brasile in valute locali, con transazioni finanziate e regolate in yuan e convertite direttamente in reais. L’operazione ha avuto un forte impatto in Cina, compresa la rete CCTV, di proprietà statale, e sul social network Weibo, ed è considerata una pietra miliare nella storia del commercio sino-brasiliano.

Il movimento brasiliano si inquadra in un contesto di cambiamenti dell’ordine internazionale che è caratterizzato, tra gli altri fattori, dallo sforzo della Cina di eguagliare, se non addirittura superare, gli Stati Uniti da un punto di vista tecnologico, militare ed economico.

Attenti alle politiche cinesi, i Paesi del Sud del mondo, in particolare il Brasile, lavorano in prospettiva di un ordine multipolare e sono alla ricerca di strumenti per realizzarlo. Il presidente brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva ha già compiuto passi concreti in questa direzione.

Durante la sua visita di Stato in Cina nell’aprile di quest’anno, Lula ha ricordato che la decisione di rendere il dollaro la valuta dominante dopo la cessazione del gold standard non è stata universalmente accettata e ha invitato i paesi del Sud del mondo a collaborare per sostituire il dollaro con le proprie valute nel commercio internazionale.

Le dichiarazioni di Lula suonano come musica per le orecchie del governo cinese, che utilizza lo yuan come parte della sua strategia per rafforzare la sua valuta nell’arena finanziaria globale, per diversificare il sistema monetario mondiale e, di conseguenza, per confrontarsi con gli Stati Uniti.

Il percorso della Cina per rafforzare lo yuan passa principalmente attraverso il commercio di materie prime e la necessità per i Paesi del Sud del mondo di diversificare le opzioni valutarie per ridurre la dipendenza dal dollaro nelle transazioni commerciali. Molti di essi stanno attualmente affrontando crisi economiche e difficoltà nel finanziare il loro commercio estero.

È il caso dell’Argentina, il cui governo ha annunciato che i suoi acquisti dalla Cina saranno pagati in yuan, invece che in dollari, per preservare le sue scarse riserve internazionali. La carenza di dollari ha spinto più di 500 aziende argentine, comprese alcune compagnie petrolifere e minerarie, a richiedere il pagamento in yuan per le loro importazioni, compresi i prodotti di elettronica, ricambi auto e tessuti.

Il Cile ha aperto la strada in questa direzione creando la prima banca di compensazione dello yuan in America Latina nel 2015, per facilitare le transazioni commerciali senza ricorrere al dollaro.

La Bolivia potrebbe essere il prossimo paese del Sud America a seguire la strada tracciata da Brasile e Argentina. Il presidente boliviano Luis Arce ha affermato che la dedollarizzazione è una tendenza regionale a cui il suo Paese potrebbe presto aderire. La Bolivia si trova ad affrontare una situazione simile a quella dell’Argentina, con un calo considerevole delle riserve internazionali e una carenza di dollari.

Geopolitica

“Se usi continuamente la tua valuta come arma, gli altri paesi smetteranno di usarla”. Questa è la risposta di Elon Musk, pubblicata sul suo account Twitter lo scorso 25 aprile, a un post video dell’economista Peter St Onge, in cui sottolineava che “la dedollarizzazione è reale e sta avvenendo velocemente”.

Nel video che ha attirato l’attenzione del CEO di Tesla e SpaceX, St Onge affermava che “la quota del dollaro è passata dal 73% (2001) al 55% (2020). È scesa al 47% in seguito all’imposizione delle sanzioni alla Russia e ora il processo è dieci volte più veloce rispetto ai due decenni precedenti”.

Secondo uno studio pubblicato dal Fondo Monetario Internazionale (FMI), c’è infatti una tendenza alla dedollarizzazione che coinvolge la geopolitica, l’uso del dollaro come strumento per le sanzioni e la rivalità tra Stati Uniti e Cina.

Le dichiarazioni di Musk, che devono essere analizzate tenendo conto dei suoi interessi economici e politici, sono esempi di una tendenza che sta prendendo piede e inizia a minare la posizione del dollaro come centro del sistema monetario e finanziario internazionale.

Da un lato, le sanzioni internazionali contro la Russia per l’invasione dell’Ucraina hanno aperto una finestra di opportunità per la rivalutazione della divisa cinese. Durante un incontro con il presidente cinese Xi Jinping nel marzo di quest’anno a Mosca, il presidente russo Vladimir Putin ha supportato l’uso dello yuan nel commercio internazionale, dichiarandosi favorevole all’utilizzo dello yuan nelle transazioni tra la Russia e i paesi dell’Asia, dell’Africa e dell’America Latina.

Questa mossa è stata sostenuta dalla presidente della Banca dei BRICS, Dilma Rousseff, che non esclude l’idea di una moneta unica tra i Paesi che fanno parte del blocco. Le sue dichiarazioni sono in linea con quanto sostiene il presidente Lula, suo mentore politico, il quale ha esortato i paesi BRICS a utilizzare le proprie valute per il commercio bilaterale e gli investimenti.

I BRICS sono un altro forum in cui le politiche attuate dalla Cina, così come il basso livello di apertura finanziaria di quel Paese, continuano a impedire allo yuan di diventare una valuta dominante a livello globale.  Per fare un esempio pratico: un esportatore argentino che venda tonnellate di carne bovina e rame in yuan non avrà dove investire gli yuan senza prima convertirli in dollari, dal momento che non esiste ancora un mercato mondiale consolidato per la valuta asiatica.

La mancanza di un mercato finanziario aperto e sufficientemente sviluppato in Cina impedirebbe perciò all’esportatore argentino di mantenere in equilibrio il bilancio delle vendite di carne e di investirlo in modo redditizio.

La domanda sorge spontanea: se è così difficile, perché insistere nell’uso dello yuan? Al di là della retorica sull’autonomia commerciale e la sovranità economica dei BRICS nei confronti degli Stati Uniti, la riduzione dei costi è la principale attrattiva per le aziende e i governi.

In effetti, le operazioni in yuan sono libere dai rischi delle fluttuazioni del dollaro, dal pagamento delle commissioni sul cambio e possono consentire ai governi di sviluppare il loro commercio internazionale senza dover utilizzare le loro riserve in dollari.

Per Paesi come l’Argentina, ad esempio, che hanno riserve di dollari molto scarse, questo tipo di commercio si rivela estremamente utile, quasi un’ancora di salvezza.

Un altro fattore importante ha a che fare con la logistica delle operazioni, che oggi sono dominate dallo Swift, un sistema controllato dai Paesi occidentali la cui funzione principale è quella di consentire lo scambio di informazioni bancarie e le transazioni tra istituzioni finanziarie.

Per consentire le transazioni tra valute locali, il Brasile ha dovuto, ad esempio, firmare un accordo di cooperazione monetaria bilaterale con la Cina per aderire al Sistema di pagamento interbancario cinese, l’alternativa cinese allo Swift.

Oltre il Sud del mondo

La Cina sta lavorando per rafforzare lo yuan nel commercio globale. Il gruppo ha ricevuto 19 candidature da parte di nuovi membri, tra cui l’Arabia Saudita e l’Iran. Sia in Medio Oriente che in America Latina, c’è una maggiore disponibilità politica a usare lo yuan.

L’Arabia Saudita ha annunciato che sta valutando la possibilità di vendere petrolio con pagamenti in euro, yuan e altre valute. Anche l’Egitto, che già utilizza lo yen giapponese, prevede di adottare lo yuan.

L’Iraq è uno dei paesi che ha recentemente iniziato a fare affari con la Cina utilizzando lo yuan, mentre gli Emirati Arabi Uniti stanno prendendo in considerazione la rupia indiana per scambiare merci con l’India.

Nonostante queste iniziative e questi discorsi entusiastici, la verità è che lo scambio tra Paesi che non usano il dollaro è irto di sfide e di rischi.

Le difficoltà di sfuggire al dominio del dollaro

Il controllo sui capitali

Il Sud America è diventato uno dei principali teatri della disputa tra dollaro e yuan, ma non è l’unico. Anche le regioni più sviluppate stanno valutando il processo di sganciamento delle loro valute dal dollaro e le strategie da adottare in questo scenario. È il caso della Francia che, per ragioni diverse da quelle del Sud del mondo, sta lavorando per ridurre la sua dipendenza dalla valuta statunitense.

In un’intervista alla testata on-line Politico, il presidente francese Emmanuel Macron ha dichiarato in effetti di non voler essere preso di sorpresa da un eventuale conflitto tra Stati Uniti e Cina nella crisi che coinvolge Taiwan, e quindi cerca di ridurre la dipendenza dal dollaro per non diventare “uno Stato vassallo”.

La verità è che, nonostante la spinta verso una maggiore diversificazione valutaria, i Paesi del Sud del mondo devono ancora affrontare sfide significative, poiché il dollaro continua a svolgere un ruolo fondamentale nei mercati globali delle materie prime e nei benchmark.

Infatti, il dollaro rappresenta il 42% delle valute utilizzate nel commercio internazionale, seguito dall’euro al 33%, dalla sterlina britannica al 6%, dallo yen giapponese al 5% e dallo yuan ad appena il 2%, secondo gli ultimi dati del sistema di pagamento internazionale Swift.

Tuttavia, l’interesse dei leader del Sud del mondo e la crescente quota dello yuan nella finanza commerciale globale mostrano che c’è un aumentato interesse per la ricerca di alternative al dollaro che nei prossimi anni potrebbero minare l’egemonia della valuta statunitense.

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Foto Credits: Palácio do Planalto, CC BY 2.0 DEED Attribution 2.0 Generic – attraverso Flickr