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In libreria – The Routledge International Handbook of Police Ethnography

Capitolo Exploring emotionality in ethnographic encounters: confessions from fieldwork on policing in Pakistan, di Zoha Waseem*

Redazione

Le forze di polizia del Pakistan sono purtroppo note per la loro corruzione, e per episodi di violenza e malcostume. Sia nel contesto coloniale che in quello postcoloniale, le direttive volte a combattere le minacce alla sicurezza hanno dato maggior potere agli agenti di polizia, mentre la mancanza di adeguate riforme ha acuito le debolezze istituzionali. L’analisi dell’attività della polizia a Karachi, la più grande città e capitale finanziaria del Pakistan, rivela molte continuità col periodo coloniale. Sia i regimi civili che quelli militari hanno continuato a garantire l’insindacabilità della condotta e l’impunità degli agenti di polizia, un’istituzione creata – come spiega senza mezzi termini l’autrice – per sottomettere la popolazione e tutelare militarmente gli interessi della classe dominante. Al contempo, le attuali modalità operative della polizia non sono un semplice prodotto dell’eredità coloniale; si sono evolute anche per affrontare nuove sfide e realtà politiche, e in questo senso si può parlare di una “condizione postcoloniale della polizia”. I fenomeni di militarizzazione e di irregolarità, che si rafforzano a vicenda, sono stati aggravati da uno Stato che confonde tra loro lotta al crimine, mantenimento dell’ordine pubblico e garanzia della sicurezza nazionale. Nel mezzo dei conflitti armati del Paese, il ruolo della polizia nella relazione tra Stato e società è una storia di insicurezza e incertezza, violenza e potere, contraddistinta dall’ambiguità delle forze di polizia che esercitano un virtuale monopolio della violenza legalizzata, proteggono e controllano, svolgono il “lavoro sporco” per la società e fanno da guardiani dell’ordine costituito.

L’originale contributo di ricerca di Zoha Waseem trova spazio anche nella corposa collettanea curata da due docenti universitarie di criminologia, Jenny Fleming dell’Università di Southampton e Sarah Charman dell’Università di Portsmouth, intitolata Routledge International Handbook of Police Ethnography.

L’etnografia è un insieme di metodologie di tipo profondamente immersivo (nel senso dell’immergersi in una particolare comunità o organizzazione per osservarla da vicino) volte a sondare sul terreno le culture e i comportamenti di importanti e fondamentali istituzioni della società. Essa ha una lunga storia – nell’ambito delle scienze umane e sociali – nel settore degli studi sulle forze di polizia, poiché le pratiche della polizia di solito hanno, in molti contesti, poca o nessuna relazione con le immagini positivamente edulcorate promulgate dai media e dalle narrazioni politiche.

L’ambizione di questo volume, che si prefigge di essere un vero e proprio manuale, è di affermarsi come fonte di riferimento accessibile, affidabile ed essenziale per accademici, ricercatori, studenti e operatori impegnati negli studi sulla polizia e sulla giustizia penale. L’etnografia della polizia impiega un approccio multidisciplinare, per cercare di comprendere un mondo particolare, un frammento opaco e stereotipato della società, che – dinanzi a forme occasionali o sistematiche di repressione – non va banalmente liquidato parlando di aberrazioni o di casi estremi di violenza e brutalità. La polizia come strumento di repressione è, invece, da considerare spesso come elemento essenziale di una società basata sull’autorità centralizzata dello Stato e sulle disuguaglianze, che mira a risolvere i conflitti radicalizzando le contrapposizioni e domando le opposizioni, piuttosto che negoziando e risolvendo mediante la mediazione e la partecipazione democratica degli interessi in campo. È sufficiente rifarsi ai fondamentali contributi di Pierre Bourdieu sui meccanismi e le istituzioni di “riproduzione” delle divisioni culturali della società attraverso il monopolio dello Stato nell’uso legittimo della violenza fisica (a cominciare dal pionieristico, celebre e discusso saggio del 1970, La Reproduction), per trovare un immediato collegamento ai classici dell’etnografia del XX secolo. Allo stesso tempo, però, oggi occorre contribuire a rinnovare l’impegno etnografico promuovendo innovazione, profondità teorica, più ampi confini geografici che si focalizzino sul Sud del mondo, esperimenti su più siti e multidisciplinarità, tutti elementi centrali per lo studio della polizia in situ e delle attività di polizia nel XXI secolo. Il Routledge International Handbook of Police Ethnography si prefigge esattamente questo, raccogliendo il lavoro di studiosi, affermati o più giovani, provenienti da tutto il mondo, per mettere in luce il mosaico odierno dell’etnografia della polizia.

Un tempo si diceva che la criminologia si occupa di poliziotti, crimini e pene. I poliziotti, che vivono in un mondo complesso e contraddittorio sono stati oggetto di un prolungato esame etnografico, particolarmente attento e partecipe, con ottimi risultati. Il Routledge International Handbook of Police Ethnography è un’opera monumentale che si avvale del contributo di varie generazioni di studiosi, dai primi pionieri ai giovani accademici, per offrire una panoramica quasi globale di come è nata l’etnografia, di cosa comporta, di come e dove viene applicata e di dove potrebbe ancora progredire. Dobbiamo essere grati ai suoi redattori e autori per aver portato a termine un compito così importante.

Zoha Waseem, nel suo contributo al volume, intitolato Exploring emotionality in ethnographic encounters: confessions from fieldwork on policing in Pakistan, accetta la sfida e, in una ventina di pagine intense e appassionate, racconta la propria storia e le proprie emozioni di etnologa, durante i suoi incontri con i poliziotti di Karachi: angoscia (in situazioni difficili), compassione (per agenti in condizioni di subalternità e vulnerabilità) e sensi di colpa (per aver usato una posizione di privilegio, il proprio potere e la posizione di studiosa con “conoscenze in alto”, e frasi come “lei non sa chi sono io”, per proteggersi e uscire da incontri difficili con poliziotti corrotti).  Elaborando episodi del proprio lavoro a Karachi, con momenti anche divertenti alla lettura, l’autrice non perde mai di vista l’obiettivo di riflettere e riesaminare costantemente la sua posizione di privilegio e di potere in relazione alla ricerca etnografica su uomini (o a volte donne) a loro volta considerati in posizioni di potere. Così facendo, l’autrice arriva anche a rianalizzare le emozioni che ha provato durante il suo lavoro sul campo e a valutare in che misura queste possano essere state influenzate da quelle dei suoi interlocutori. Si tratta di un esercizio fondamentale per il compito dell’etnologa, come insegna la letteratura in materia. Il lavoro sul campo è una forma di lavoro essenzialmente emozionale e occorre impegnarsi a comprendere come le emozioni – inevitabilmente forti in contesti ad alto rischio, estremamente variabili e insicuri, come nel caso del Pakistan –influenzino le esperienze di ricerca e il processo decisionale sul campo. L’etnografia è per antonomasia una disciplina e un metodo di lavoro in cui i corpi, le emozioni e il proprio “sé” contano, per cui occorre scavare in profondità in chi/cosa siamo, rendendo visibile il sé del ricercatore al centro della scena.

Per questa ragione, il capitolo inizia con un breve sguardo su come le emozioni sono state trattate nel lavoro etnografico relativo alle aree della polizia e della sicurezza in generale. Dopo aver parlato del caso di studio e dei metodi impiegati, l’autrice approfondisce alcune delle principali sfide emotive incontrate durante la ricerca sulle forze di polizia in Pakistan: in primo luogo la paura, l’empatia, il senso di colpa e l’ansia (alcune delle quali spesso contemporanee).

La lezione che l’autrice condivide è che, come etnografi, occorre da un lato mantenere l’attenzione sull’osservazione degli intervistati, degli interlocutori e dei partecipanti agli studi, ma dall’altro occorre rivolgere lo sguardo verso l’interno, per osservare le proprie risposte emotive e comportamentali a ciò che si incontra sul campo e praticare attivamente la riflessività. Per comprendere veramente il lavoro e la cultura della polizia, in Pakistan come altrove, non occorre considerare solo ciò che la polizia fa, dice e prova, ma anche ciò che noi – come studiosi e membri della società civile – proviamo di fronte a coloro che appartengono a istituzioni che dovrebbero proteggere e servire quelli come noi.