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Nicaragua: dalla speranza del cambiamento all’involuzione autoritaria

Belfiore Adalberto

In Nicaragua la tornata elettorale del 7 novembre, in cui saranno eletti il presidente della repubblica ed i deputati all’Assemblea nazionale e al Parlamento centromericano (Parlacen), si avvicina a grandi passi. Ma l’attuale presidente Daniel Ortega non ha dato alcun segno di voler creare le condizioni per la presenza di osservatori internazionali, o dare la possibilità a tutti gli altri candidati di fare propaganda, come chiedono da tempo Nazioni Unite, Organizzazione degli stati americani (OSA), Stati Uniti, Unione Europea, Canada, Gran Bretagna e Commonwealth.

Al contrario, secondo il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti, l’avvicinarsi delle elezioni sta confermando la tendenza dittatoriale del regime al potere, che afferma  di essere la continuazione della Rivoluzione popolare sandinista degli Settanta-Ottanta del secolo scorso. Anche l’Unione Europea, per bocca dell’alto rappresentante Josef Borrell, ha stigmatizzato la deriva autoritaria in corso in Nicaragua. Il settantacinquenne presidente, al potere ininterrottamente dal 2007, ha represso nel sangue le manifestazioni di massa che dall’aprile 2018 hanno chiesto le sue dimissioni e da qualche mese, proprio in vista delle elezioni di novembre, ha scatenato una campagna repressiva a tutti i livelli. Si sono intensificati gli interventi repressivi della polizia e gli attacchi agli organi di informazione indipendenti.
Il Parlamento, controllato dal partito di governo, ha disegnato leggi per impedire le attività dell’opposizione, ha nominato fedelissimi negli organi della macchina  elettorale, e ha revocato la personalità giuridica a due partiti di opposizione. A giugno è avvenuto l’arresto di Cristiana Chamorro, principale candidata dell’opposizione e figlia di quella Violeta Barrios de Chamorro che sconfisse Ortega nelle elezioni del 1990. E nel giro di pochi giorni sono stati arrestati anche gli altri principali leader nati dalle proteste del 2018, oltre all’ex presidente dell’Associazione degli industriali (COSEP), al presidente della Camera di commercio Nicaragua-USA (AmCham), al direttore della principale banca privata del Nicaragua (BANPRO), a importanti attivisti dei diritti umani e perfino a ex leader guerriglieri, ora dissidenti.

Un piano repressivo organico orchestrato da Ortega e da sua moglie, nonché vicepresidente, Rosario Murillo, al fine di sbarazzarsi di qualunque opposizione che possa minimamente impensierire la loro permanenza al potere, e di garantirsi il quarto mandato consecutivo.

Una realtà inquietante

Il paese centroamericano è governato da un gruppo familiare autocratico che si è reso colpevole di continue e gravissime violazioni dei diritti umani, documentate anche da grandi agenzie internazionali pubbliche come l’Alto commissariato dell’ONU (OHCHR) e la Commissione interamericana per i diritti umani dell’OSA (CIDH), e da associazioni di grande prestigio come Amnesty International e Human Right Watch. Un rapporto del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti del 2017 sul traffico di stupefacenti critica la mancanza di controlli, la corruzione istituzionale e la scarsa affidabilità del sistema giudiziario e indica il Nicaragua come il principale punto di snodo in America Centrale dell’attività dei cartelli della droga messicani. Il think tank Global Financial Integrity riporta che in Nicaragua vengono riciclati annualmente 1,5 miliardi di dollari. Trasparency international cataloga il Nicaragua come il paese più corrotto dell’America Latina dopo Venezuela e Haiti, e il Rapporto mondiale sulla ricchezza, stilato dalla società Wealth X di Singapore con il patrocinio dell’Unione di banche svizzere (UBS), calcola in 30 miliardi di dollari, ossia tre volte il Pil del Nicaragua, l’ammontare delle ricchezze dei milionari nicaraguensi, di cui la famiglia presidenziale e gli oligarchi “sandinisti” fanno parte.

Verso la dittatura

Come si è potuto arrivare a una simile situazione, nel paese della rivoluzione che abbatté la dittatura della famiglia Somoza – la più longeva dell’America Latina (1937-1979) – , che arrivò ad avere l’appoggio entusiasta di tanti intellettuali di alto livello e della grande maggioranza della popolazione, malgrado le sofferenze e le ristrettezze imposte dalla guerra nei dieci anni di governo rivoluzionario (1979-1990), e che suscitò in tutto il mondo entusiasmi e passioni paragonabili a quelli della guerra civile spagnola?

La storia del Nicaragua, fin dalla sua indipendenza nel 1821, rivela che i governi autoritari e le dittature sono stati la regola e non l’eccezione. Un’analisi puntuale dei meccanismi che in questi anni hanno portato all’accentramento dei poteri nelle mani di una sola persona si può trovare in uno studio di Salvador Martí I Puig dell’Università di Salamanca. A ciò possiamo aggiungere una certa passività, dovuta alle dure condizioni di vita della maggioranza della popolazione, e il peso nella storia dell’America latina della figura del “caudillo”, l’uomo forte e carismatico in grado di risolvere i problemi del popolo.

Di questa realtà ha saputo approfittare Ortega, piegando al suo progetto di potere personale le istanze libertarie e la prorompente volontà di partecipazione popolare che la Rivoluzione Sandinista aveva liberato. Dopo 16 anni di opposizione, Ortega riuscì finalmente a tornare al potere con le elezioni del 2006 per mezzo di una legge elettorale disegnata appositamente per rendere possibile la vittoria del suo partito, che godeva di una base elettorale limitata al 35%. Fu uno dei frutti dell’accordo risalente al 1997 con l’estrema destra dell’ex presidente Arnoldo Alemán, dominus del vecchio Partito Liberale Costituzionalista (PLC). Il “patto scellerato”, come è stato definito da alcuni, può essere considerato un capolavoro politico perché ha garantito al “caudillo” il controllo del 90% dei seggi in Parlamento. Ma il prezzo è stato la perdita definitiva dell’identità progressista del movimento sandinista. La strada era spianata per impadronirsi delle istituzioni, recuperare il controllo delle forze armate, intervenire a piacimento sulla Costituzione. Come è effettivamente avvenuto con la modifica costituzionale che ha reso possibile la ricandidatura per il terzo mandato consecutivo nel 2016 in quanto – questa è la motivazione ufficiale – l’esclusione di Ortega dalla possibilità di candidarsi ne avrebbe violato i diritti umani. Dopo la cacciata di Somoza, Ortega fu scelto come coordinatore della Direzione Nazionale del Fronte sandinista di liberazione nazionale (FSLN), perché ritenuto uomo di scarso carisma, che non aveva neppure avuto un ruolo di primo piano nella guerriglia, e quindi non pericoloso per gli equilibri interni. La predominanza del FSLN, protagonista della resistenza e dell’insurrezione, sulle altre forze che si opponevano alla dittatura comportò la nomina di Ortega anche a coordinatore della Giunta di ricostruzione seguita alla caduta del governo Somoza. Venne eletto presidente nel 1984, in piena guerra civile, con elezioni osservate internazionalmente e certificate come sostanzialmente corrette, che diedero al FSLN il 67% dei consensi. Nel corso degli anni Ortega ha saputo accentrare su di sé sempre più potere, approfittando della logica di guerra in cui la parola d’ordine che determinava il comportamento dei militanti del FSLN e la vita del partito era “Direzione Nazionale agli ordini!”, e riuscendo a emarginare progressivamente chiunque fosse in grado di contendergli il potere.

La parabola di un partito rivoluzionario

Il FSLN deve il suo nome alla figura leggendaria di Augusto C. Sandino, che negli anni Trenta riuscì a sconfiggere i marines statunitensi che avevano occupato il paese. Sandino fu fatto uccidere a tradimento da Anastasio Somoza García, che sarebbe divenuto il primo dittatore della dinastia Somoza. Negli anni Novanta il FSLN è stato progressivamente depurato di tutte le figure di spicco, comandanti guerriglieri a capo dell’insurrezione, intellettuali di rilievo internazionale, imprenditori, tecnici e quadri militari in grado di ostacolare il rafforzamento del potere personale di Ortega. Non sono mancati neppure episodi oscuri, come l’assassinio del giornalista Carlos Guadamuz, militante del FSLN divenuto critico dei sistemi di Ortega, lo strano suicidio di Alexis Argüello, il popolarissimo tre volte campione mondiale di boxe divenuto sindaco di Managua per il FSLN ma in seguito molto critico anch’egli verso Ortega, e la morte in piena campagna elettorale, ufficialmente per cause naturali ma mai del tutto chiarita, di Herty Lewites, un popolare imprenditore sandinista ed ex sindaco della Capitale, che era stato espulso dal FSLN per aver chiesto elezioni interne e aver osato candidarsi alle elezioni presidenziali del 2006 con un partito formato da sandinisti dissidenti.

Sta di fatto che, dopo l’espulsione di Lewites il FSLN, protagonista di una delle più interessanti epopee rivoluzionarie latinoamericane, si è definitivamente trasformato in uno strumento di potere a uso esclusivo di Ortega, di sua moglie e di una ristretta cerchia di fedelissimi. Dopo l’abolizione dell’Assemblea sandinista – una sorta di parlamento interno del FSLN – che in passato aveva espresso – seppur con molti limiti – alcune istanze critiche, non si è svolto più alcun congresso e la linea politica e le decisioni operative sono diventate di esclusivo appannaggio del “caudillo” e di sua moglie. Infine, nel 2019, dopo mesi di stragi e repressione, il FSLN è stato espulso dall’Internazionale Socialista con la motivazione che “il socialismo è incompatibile con la tirannia”.

Anni di crescita senza democrazia

Il regime sembrava essere riuscito a evitare di pagare un prezzo politico per questo enorme fallimento. Di fatto dal 2007 all’aprile 2018 Ortega, grazie al petrolio venezuelano, agli investimenti stranieri e ai prestiti delle banche di sviluppo, era riuscito a garantire tassi di crescita sostenuti, seppure senza alcuna sostanziale riforma del modello economico e a costo di approfondire le già enormi diseguaglianze sociali. Questo sviluppo distorto, che garantiva grandi profitti agli speculatori, sfruttamento incontrollato delle risorse naturali e lavoro non qualificato alla popolazione, unito al controllo sociale e alla repressione di ogni dissenso, è stato sufficiente a garantire un decennio di apparente pace sociale. Questa si basava su un patto tra il regime e le oligarchie economiche, simile a quello praticato dalla dittatura dei Somoza e che, secondo l’analista politico ed economista nicaraguense Oscar René Vargas, è una costante nella gestione del potere in Nicaragua.

Il risultato contraddice tutte le istanze di giustizia sociale, diritti e partecipazione popolare espresse dalla Rivoluzione: la creazione del paese più diseguale del Centroamerica dove, secondo un’analisi del 2019 dello stesso Vargas, 210 persone possiedono più dei restanti sei milioni e mezzo di cittadini, i salari sono i più bassi dell’area e le persone che vivono sotto la soglia della povertà superano il 70% della popolazione. L’alleanza col grande capitale del nuovo ceto di ex rivoluzionari, fattisi ricchi con il saccheggio dei beni pubblici, sembrava non dover mai entrare in crisi. Le esenzioni e i favori fiscali agli investitori stranieri, specialmente nelle zone franche industriali, il controllo sulle associazioni di categoria, l’assenza di organizzazioni sindacali indipendenti, le concessioni minerarie alle multinazionali dell’estrazione e agli agrari per l’introduzione di nuove coltivazioni industriali (biocarburanti e olio di palma) nelle terre appartenenti alle etnie indigene e nelle riserve naturali, sembravano garantire al regime ampi spazi di manovra. Un importante strumento di governo è stato anche il fiume di risorse (fra 4 e 6 miliardi di dollari) della cosiddetta cooperazione petrolifera venezuelana, nell’ambito del “Socialismo del XXI secolo” proclamato dal presidente venezuelano Hugo Chávez, che ha permesso politiche assistenziali e clientelari presentate dal regime come “conquiste della rivoluzione”. Questi ingenti fondi non sono entrati nel bilancio dello Stato ma sono stati gestiti in modo non trasparente, attraverso un complicato sistema di società controllate dalla famiglia Ortega. A tutto ciò si è aggiunto ultimamente il progetto di privatizzazione dell’acqua, con la possibile futura cessione agli speculatori delle ingenti risorse idriche del paese, le più importanti di tutto l’istmo centroamericano. Una politica di stampo nettamente neoliberista, in pieno accordo con dettami del Fondo monetario internazionale (FMI) e con il tacito assenso di Washington.

Politiche clientelari e corruzione

I ceti popolari più diseredati, specialmente in ambito rurale, sono stati oggetto di piccole donazioni finalizzate a creare subordinazione e consenso, certo non un cambiamento strutturale nell’organizzazione della società. Come il Plan hambre cero (Piano fame zero) con le lamine di zinco, le galline ovaiole, le zappe e le sementi: vere e proprie elemosine gestite e controllate con metodi clientelari dalle organizzazioni di base e intermedie del partito di governo. Ma i proventi del saccheggio delle risorse naturali, dello sfruttamento del lavoro e delle speculazioni finanziarie finivano nelle tasche della vecchia e nuova oligarchia.

Un regime autoritario antipopolare

In una sorta di prosecuzione perversa degli anni Ottanta, in cui la Rivoluzione Sandinista dovette effettivamente affrontare una sanguinosa guerra civile, dalla rivolta di aprile 2018 in poi il governo di Ortega ha operato con una logica di scontro militare, e ogni manifestazione è stata bollata con l’accusa di terrorismo e di golpismo controrivoluzionario al servizio dell’imperialismo. Per tali accuse la magistratura infligge condanne e lunghe pene detentive. A difesa del suo potere, il presidente nicaraguense ha, negli anni, dedicato molto impegno al consolidamento del controllo su polizia ed esercito e, dal 2018, anche alla costituzione di gruppi paramilitari armati e coordinati dalla stessa polizia. Il controllo dell’esecutivo ha raggiunto anche la magistratura e il tribunale elettorale, i ministeri e l’apparato dello Stato, i mezzi di comunicazione (in buona parte comprati coi dollari del petrolio venezuelano e affidati ai figli di Ortega), i sindacati di categoria, gli enti pubblici di carattere economico. Una concentrazione che ha annullato la separazione dei poteri e qualunque forma di controllo e garanzia. 

Il fallimento del “secondo canale” e la rivolta del 2018

Contro questo regime autoritario nell’aprile 2018 scoppiò una rivolta di popolo che colse di sorpresa il governo, gli osservatori e la stessa società che ne è stata protagonista, se non altro per l’ampiezza e la capillare diffusione. Ma il malcontento per il clima repressivo, la violazione dei più elementari diritti democratici, il clientelismo e la corruzione diffusa, covava da tempo.

Concrete manifestazioni di dissenso si erano prodotte già alcuni anni prima, principalmente in zone rurali interne del paese, come conseguenza del rifiuto opposto dalla società civile al progetto di un nuovo canale interoceanico. Il canale, presentato come concorrente del canale di Panama, era un progetto ambizioso con cui Ortega voleva passare alla storia ma presto naufragò per l’ambiguità dell’uomo d’affari cinese Wang Jing, un imprenditore delle telecomunicazioni cui, con una legge del 2013, era stata appaltata l’opera. Questa legge fu definita incostituzionale da qualificati giuristi, in particolare perché concedeva a una società straniera il diritto di esproprio su proprietà nazionali, per la mancanza di trasparenza e per le condizioni estremamente sfavorevoli per lo Stato nicaraguense. Ma Wang Jing, che vari osservatori sospettano essere stato un prestanome del governo cinese, non è stato in grado di reperire gli ingenti capitali necessari ed è poi sparito nel nulla. Se realizzato, il progetto avrebbe sconvolto una delle ultime riserve di foresta primaria del Nicaragua (il bacino del fiume San Juan), cambiato per sempre il delicato equilibrio ecologico del lago Cocibolca, intaccato in profondità le proprietà e i diritti delle comunità indigene. La polizia ha compiuto pesanti interventi repressivi delle manifestazioni di protesta , prima che il progetto fosse definitivamente accantonato nel febbraio 2018.

Il 3 aprile 2018, nel sud del paese, iniziò a bruciare la Riserva naturale Indio Maís, la seconda del paese e uno degli ultimi lembi di foresta primaria del Nicaragua, senza che il governo intervenisse. Furono quattro giorni di incendi colossali di cui molti hanno denunciato l’origine dolosa: tra questi il giovane presidente della Fundación del Río, Amaru Ruiz e la giurista Mónica López Baltodano, – figlia di una storica comandante guerrigliera sandinista – che a rischio della propria incolumità denunciavano da tempo gli interessi dei coltivatori per estendere le terre coltivabili nella riserva e la collusione di funzionari governativi. Ma la Fundación è stata confiscata e Ruiz e López Baltodano sono stati costretti a fuggire in Costarica.

A causa del dissesto dell’Istituto nazionale della previdenza (INSS), il 16 aprile il Governo annunciò il taglio del 5% delle già magre pensioni e l’aumento dei contributi per lavoratori e imprese. A León, terza città del paese, alcuni anziani che erano andati a protestare davanti all’istituto vennero malmenati dagli attivisti del FSLN. Non era una novità l’uso di militanti per reprimere proteste di qualunque tipo e per il controllo delle piazze. Ma nell’era dei social le immagini degli anziani buttati a terra e presi a calci e bastonate dagli squadristi divennero virali.

Il 18 aprile 2018 scesero in piazza gli universitari delle università pubbliche, a cui si unirono collettivi e movimenti della pur gracile società civile: femministe, ambientalisti, disoccupati, venditori ambulanti. Persone di ogni tipo e classe sociale, ma in prevalenza giovani dei ceti popolari, con manifestazioni spontanee esprimevano un rifiuto radicale del sistema e chiedevano le dimissioni di Ortega. La reazione del regime fu durissima, e i giovani vennero assaliti da paramilitari e polizia. Da aprile fino a tutto luglio, il Nicaragua sembrò essere sull’orlo della guerra civile. I manifestanti bloccarono con barricate le maggiori città per impedire arresti e rappresaglie e tagliarono le principali vie di comunicazione. Per qualche settimana sembrarono in grado di imporre condizioni al regime, anche se le organizzazioni padronali, invitate ad aderire alla rivolta e bloccare le attività produttive, mantennero una posizione attendista. Ortega e Murillo bollarono i rivoltosi come promotori di un colpo di Stato finanziato dalla “destra” e dall’”imperialismo”, ma nessuna organizzazione internazionale ha mai avallato questa versione dei fatti. A causa della pressione internazionale, della condanna della repressione da parte dell’OSA, degli Stati Uniti, dell’Unione Europea e del biasimo dallo stesso Segretario generale dell’Onu  António Guterres, il presidente Ortega si vide costretto ad accettare una trattativa, con la mediazione della Chiesa cattolica. Ma questo si rivelò un espediente tattico: non appena fu chiaro che polizia e paramilitari stavano avendo la meglio sui manifestanti e che le reazioni internazionali non andavano al di là di inviti al dialogo e alla moderazione – solo più tardi arriveranno sanzioni verso alti funzionari e istituzioni pubbliche, – Ortega lanciò la cosiddetta Operación limpieza (Operazione pulizia). I blocchi stradali furono rimossi dai bulldozer e i cortei furono attaccati militarmente. La Chiesa cattolica decise di ritirarsi dal dialogo nazionale e divenne a sua volta oggetto di attacchi dei sostenitori del governo – da ricordare tra l’altro l’assedio alla chiesa di San Miguel in Masaya  e l’irruzione di paramilitari nella cattedrale di Managua per interrompere uno sciopero della fame di alcune madri di detenuti politici. Il 30 maggio, in occasione della Festa della Madre, una delle ricorrenze più sentite dalla popolazione, un enorme corteo pacifico e disarmato che chiedeva le dimissioni della coppia presidenziale ed elezioni anticipate, venne colpito da cecchini armati con fucili di precisione Dragunov in dotazione all’Esercito. Si sparò per uccidere “al collo, alla testa e al petto” (come confermerà Rafael Solís, un alto magistrato sandinista anch’egli rifugiatosi in Costarica): vi furono 19 morti e 54 feriti. In maggio l’ultima resistenza di Monimbó, quartiere indigeno della città di Masaya, che fu uno dei bastioni della lotta alla dittatura dei Somoza, venne repressa da 500 uomini tra polizia e paramilitari. Da quel momento cessò ogni forma di resistenza e di protesta pubblica. In seguito ai duri rapporti pubblicati sulla repressione e le violazioni dei diritti umani, in dicembre Ortega espulse dal Nicaragua la missione ONU e quella della CIDH. Il saldo delle vittime della repressione tra aprile e luglio oscillerà tra 328 e 520 secondo le diverse fonti (lo stesso Governo ne ammette 200), i feriti e gli arresti si conteranno a migliaia. I prigionieri, secondo la CIDH, vennero sottoposti a tortura e a trattamenti disumani e degradanti. I profughi arriveranno a superare i 100.000 nel corso del 2020. La rivolta venne domata, ma gli equilibri politico sociali su cui si basava il potere di Ortega e la normalità agognata dal regime difficilmente potranno essere recuperati.

La pandemia

Un tema che chiarisce la natura e l’ideologia del regime nicaraguense è la gestione della pandemia del Covid-19. Per mesi viene semplicemente negata: in piena pandemia il Governo organizza feste, fiere, competizioni sportive e una manifestazione di massa denominata “L’amore al tempo del Covid”. Tutta l’informazione viene gestita in segreto dal Ministero della salute, che nel maggio 2020 sospende l’unico bollettino informativo settimanale. Ai medici viene imposto, pena il licenziamento, di registrare i casi di contagio, le ospedalizzazioni e i decessi con diagnosi diverse (malattie polmonari, diabete, shock anafilattici ecc.) in modo da potersi presentare internazionalmente come il governo con la migliore performance possibile di controllo della pandemia. Ma gli ospedali e i cimiteri sono al collasso, i morti vengono seppelliti con i protocolli Covid e i parenti non possono vederli. Un gruppo di medici e ricercatori indipendenti organizza un Osservatorio sulla pandemia, che fornisce dati ben superiori a quelli ufficiali. Molti esperti indipendenti e la Federazione internazionale per i diritti umani (FIDH) ritengono i dati ufficiali non affidabili.

Crisi del modello autoritario

Dopo l’aprile del 2018 l’economia nicaraguense è entrata in recessione. La mancata risoluzione della crisi politica e l’instabilità, ma soprattutto l’inesistenza dello Stato di diritto e l’arbitrarietà nell’esercizio del potere, hanno aumentato l’isolamento internazionale del Nicaragua e spaventato gli investitori stranieri. Anche gli imprenditori locali, pur manifestando in molti casi passività se non acquiescenza nei confronti del regime, non hanno potuto che limitare gli investimenti. Con la conseguenza di un sensibile aumento di disoccupazione, sottoccupazione, lavoro nero, povertà e  il precipitare di una crisi che difficilmente troverà soluzione, senza un cambiamento del modello economico attuale, basato su politiche vantaggiose per investitori e possidenti ma pesantemente penalizzanti per i lavoratori. L’autoritarismo, l’accentramento dei poteri e le ambizioni dinastiche del regime di Ortega e Murillo sembrano essere una riedizione della dittatura iniziata negli anni Trenta dalla famiglia Somoza, più che una versione negativa del “Socialismo del XXI secolo”. E’ la reintroduzione di un modello politico autoritario, radicato negli interessi e nella cultura delle oligarchie locali, sia tradizionali che di nuova formazione. La possibilità di superare questo sistema starà nella capacità di resistenza della società civile e in una maggiore consapevolezza da parte della comunità internazionale del pericolo rappresentato dalla sopravvivenza, nel terzo millennio, di regimi di questa natura.

 

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