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Il dibattito in Sudan porterà ad una riforma della legge sulla famiglia più orientata all’autonomia della donna?

A proposito dello studio di Samia El Nagar*, Liv Tønnessen**

Redazione

Il colpo di stato che nel 1989 ha portato al potere Omar Hassan al-Bashir ha condotto alla progressiva islamizzazione della legislazione sudanese in nome del cosiddetto progetto di civilizzazione (al-Mashru al-Hadari), secondo il quale la matrice arabo-islamica costituisce il fondamento dell’identità nazionale. Il ruolo della donna e il diritto di famiglia sono stati profondamente modificati con l’adozione, nel 1991, della Legge sullo Status Personale dei Musulmani, che ha anticipato molti altri paesi islamici nel trasferire la regolamentazione dei rapporti famigliari dalla sfera religiosa a quella della legislazione nazionale. La legge regola matrimonio, divorzio, cura e successione.
L’islamismo sudanese ha storicamente postulato la promozione del ruolo femminile e dell’ “equità” fra i generi (insaf) in contrapposizione all’“uguaglianza”, considerata figlia della secolarizzazione. I rapporti familiari sono regolati secondo il principio della qawama (letteralmente guardiania, protezione), secondo il quale uomini e donne, in quanto diversi biologicamente, hanno ruoli e responsabilità diversi e complementari. L’uomo svolge la funzione di proteggere e custodire la famiglia, mentre la donna quella di nutrirla e curarla. L’uomo è obbligato a sostenere finanziariamente la famiglia (nafaqa), in cambio la moglie gli deve obbedienza. La moglie mantiene il diritto a una dote (mahr), al mantenimento (nafaqa), a poter far visita ai genitori e ai parenti con cui non è possibile contrarre matrimonio (maharim) e a non subire violenza fisica o psicologica. Il marito ha diritto al confinamento della moglie (haq alhabs), cioè ad impedire alla moglie di uscire di casa senza permesso. Inoltre, può pretendere il consenso della moglie al rapporto sessuale.
La regolamentazione del matrimonio stabilita nel 1991 prevede che il parente maschio che tutela la sposa (wali) organizzi il matrimonio con il consenso di quest’ultima, anche se questo può essere ottenuto posteriormente alle nozze. È la sposa che deve eventualmente adire in giudizio contro padri o fratelli e ha lei l’onere di provare che il suo consenso non è o non era stato dato. Viceversa, il wali può far annullare un matrimonio celebrato senza il proprio consenso, con l’eccezione del caso in cui la sposa sia incinta. L’età minima per le nozze corrisponde al tamyeez, cioè all’età nella quale è possibile distinguere il bene dal male, che la legge fissa a 10 anni. La moglie può essere dichiarata disobbediente (nashiz) e perdere il diritto al mantenimento se rifiuta di trasferirsi nella dimora coniugale, se la lascia o lavora fuori casa senza permesso, o se rifiuta di seguire il marito in viaggio senza un motivo legittimo.

By David Stanley from Nanaimo, Canada (Sudanese WomenUploaded by AlbertHerring) [CC BY 2.0 (https://creativecommons.org/licenses/by/2.0)], via Wikimedia Commons

Altre misure previste dalla legge del 1991 stabiliscono differenze nel diritto di successione, secondo le quali le sorelle ereditano la metà di quanto spetta ai fratelli. La poligamia è legale fino ad un massimo di cinque mogli, a patto che il trattamento riservato loro sia uguale. Il marito può decidere di divorziare senza dover ricorrere al tribunale e addurre motivazioni (talaq), mentre nel caso della moglie è necessario il passaggio in tribunale. Le donne divorziate, inoltre, perdono il diritto alla potestà sui figli nel caso in cui contraggano un nuovo matrimonio.
Il paese, attraversato da conflitti interni fin dalla Dichiarazione di Indipendenza del 1956, ha vissuto la separazione delle aree meridionali nel 2005 con la firma del Comprehensive Peace Agreement (CPA), noto anche come Accordo di Naivasha, fra il Partito del Congresso Nazionale Islamico al potere a Khartoum e il Movimento di Liberazione del Popolo del Sudan. La firma dell’accordo ha dato stimolo al dibattito sulla riforma della legge sulla famiglia, sia all’interno delle istituzioni sia nella società civile. La Costituzione provvisoria adottata nello stesso anno, che contiene accenni all’uguaglianza fra i sessi nel godimento dei diritti civili, politici, sociali, culturali ed economici, incluso quello alla parità di salario, ha dato spazio ai fautori di un adeguamento della legislazione al nuovo orientamento. Nelle ultime elezioni, svoltesi nel 2010, la legge sullo Stato Personale dei Musulmani è stata uno dei temi maggiormente dibattuti e attorno alla questione del diritto di famiglia ruotano anche molte delle discussioni in tema di riforma costituzionale. Il Sudan rimane l’unico paese dell’Africa settentrionale che ancora non ha proceduto ad una riforma del diritto di famiglia diretto ad una maggiore uguaglianza.
Lo studio, curato dalle ricercatrici del Chr. Michelsen Institute, riporta i risultati di un vasto numero di interviste realizzate dal 2006 al 2017, sia con esponenti del campo riformista sia del fronte conservatore e governativo, sul tema della riforma e dettaglia i numerosi tentativi e le maggiori iniziative di promozione di una riforma del diritto di famiglia.
Prima del 1991, le spinte per una maggiore parità fra sessi riguardavano soprattutto i diritti nel mondo del lavoro, mentre l’uguaglianza nella sfera privata della famiglia era un’istanza marginale, portata avanti principalmente dal movimento dei Fratelli Repubblicani fondato da Mahmoûd Mohammed Tâhâ, che si opponeva all’islamizzazione del paese. In particolare, in alcuni pamphlet diffusi dall’organizzazione che proponevano interpretazioni dell’islam in chiave femminista, si attaccavano norme del diritto familiare giudicate anticostituzionali, come quelle relative alla poligamia e all’obbligo di obbedienza della moglie al marito. Nel concreto, tuttavia, i risultati dei movimenti di opposizione sono stati esigui e l’unico successo significativo che può essere ricordato è l’abolizione nel 1969 del diritto al ricorso alla forza pubblica per obbligare la moglie all’obbedienza al marito.
Dall’approvazione della nuova legge nel 1991, c’è stata una maggiore mobilitazione della società civile, sia all’interno dell’Università Femminile di Ahfan, sia fra i movimenti femminili per i quali la riforma è divenuta una priorità. Tuttavia, nonostante l’intensificazione del dibattito dopo l’approvazione della nuova Costituzione, le speranze dei riformisti interni ed esterni al governo sono state finora deluse. L’opposizione alla riforma basa le proprie argomentazioni sulla diretta discendenza della legge dalla norma religiosa (Sharia) e conta sul notevole potere delle frange religiose più conservatrici, che mantengono presenza e legami all’interno delle istituzioni e controllano i media statali. In particolare, l’Accademia Islamica Fiqh (Mujamaa Al Fiqh Al Islami) e l’Associazione degli Ulema del Sudan (Haiaat Ulema Sudan), istituite rispettivamente nel 1998 e nel 1999, alle dirette dipendenze del Presidente e con funzioni di consulenza sulle questioni riguardanti la Sharia, sono molto influenti ed esercitano una forte capacità di reazione alle spinte riformiste.
Il Sudan non ha ancora ratificato le convenzioni internazionali per diritti delle donne, come la Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione della donna (Convention on the Elimination of All Forms of Discrimination Against Women, CEDAW) o il Protocollo di Maputo, ma il fatto che anche in altri paesi con bassi livelli di democrazia i movimenti femminili abbiano ottenuto riforme significative mantiene elevato il livello del dibattito nel paese. La pressione internazionale in tema di rispetto dei diritti umani e il nuovo quadro generato dall’alleggerimento delle sanzioni statunitensi favoriscono un cambiamento del clima politico alimentando le aspettative. Le prospettive secondo gli osservatori rimangono aperte e si ripongono molte speranze nella possibilità che un’azione coesa da parte delle donne presenti all’interno del governo e di altre istituzioni riesca a generare risultati concreti.