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La fine del paradiso: la nuova sfida del sargasso in America Centrale e nei Caraibi

Di Reda Lorenzo

Quando parliamo del sargasso (sargazo, in spagnolo), parliamo di una specie di alga tipica dei mari tropicali e di alcune zone dell’Oceano Atlantico, di tonalità tendenzialmente marrone ma che può assumere molteplici forme, dimensioni e sfumature di colore. Nello specifico, il sargasso pelagico è particolarmente diffuso in numerose parti del Mar dei Caraibi (tra cui il celebre Mar dei Sargassi) e del Golfo del Messico, e possiamo distinguerne due specie: Sargassum natans e Sargassum fluitans.

Le prime testimonianze ci pervengono da Cristoforo Colombo, che annotò sul suo diario (in data 16 settembre 1492) la presenza di alghe galleggianti. Il nome, infatti, dovrebbe provenire da una radice portoghese relativa auna particolare varietà di grappoli di uva (sarga) o alle alghe stesse (algaço).

Il sargasso si conglomera naturalmente in acqua, creando veri e propri ecosistemi oceanici a sé stanti, con numerose specie endemiche di pesci e invertebrati marini che nascono, si sviluppano e si riproducono in questi ambienti.

Al contempo, storicamente, la deriva del sargasso presso le coste tropicali è sempre stata un determinante fattore di sostentamento per gli ecosistemi costieri, così come le alghe in decomposizione hanno creato nei secoli uno scudo naturale contro l’erosione delle coste e un elemento nutritivo rilevante per le vegetazioni locali.

Negli ultimi dieci anni, però, si è registrato un significativo aumento dell’afflusso di sargasso in diverse zone costiere dell’Atlantico, con un aumento esponenziale dei livelli di stress degli ecosistemi coinvolti. Questo fenomeno continua a espandersi in tutta la regione del Golfo del Messico, colpendo principalmente i Paesi dell’America Centrale (Messico, Honduras, Repubblica Dominicana) e le Isole dei Caraibi e toccando perfino la costa settentrionale del Brasile e la Florida.

Riguardo alle cause scatenanti, le teorie sono numerose e contrastanti, ma quasi tutte convergono sui fattori antropici e sul riscaldamento globale. Tali elementi sono, inoltre, coadiuvati e rafforzati dalle correnti marine, dai venti, dalla pressione atmosferica e dalle variabili climatiche, rendendo la questione assolutamente transnazionale.

Un prezioso studio del Florida Atlantic University (FAU) Harbor Branch Oceanographic Institute, in collaborazione con altre università statunitensi, ha evidenziato come, tra il 1980 e il 2010, il livello di azoto nelle acque interessate da questo fenomeno sia aumentato di circa il 35%, mentre si è registrato un drastico calo di fosforo, elemento utile a contenere il livello di produzione di sargasso.

Secondo i ricercatori, le emissioni antropogeniche e gli scarichi nei fiumi africani e americani (sia del nord, come il Mississippi, che del sud, come il Rio delle Amazzoni e l’Orinoco) hanno svolto un ruolo determinante nello stravolgimento dei delicati equilibri oceanici in cui il sargasso si è sempre mosso. Questi fattori, insieme all’aumento delle plastiche e dei residui di idrocarburi negli oceani, nonché al generale surriscaldamento delle temperature marine, hanno creato le condizioni ottimali per una riproduzione incontrollata di quest’alga, che dispone di un clima ideale e di nuove sostanze fin troppo nutrienti nell’acqua in cui vive.

Le conseguenze socioeconomiche

Solo nell’estate 2011 si è cominciata a percepire la deriva massiva di sargasso come un reale problema. Infatti, in diverse aree costiere del Golfo del Messico – in particolare nello stato messicano del Quintana Roo, nella penisola dello Yucatán – e dei Caraibi, l’alga ha iniziato a riversarsi sulle spiagge in quantità mai registrate prima. I Paesi caraibici e il Messico stesso si trovarono, all’epoca, totalmente impreparati nei confronti di questo nuovo fenomeno. Nel luglio del 2015, l’aumento di sargasso sulle coste messicane è stato del 400% rispetto all’anno precedente, costringendo il governo centrale a spendere centinaia di milioni di pesos nella ricerca e nel contrasto all’invasione dell’alga. Situazioni simili si sono ripetute anche nel 2018 e nel 2019.

L’impatto determinato dall’aumento esponenziale di sargasso ha generato problemi immediati a livello ambientale ed economico, con il coinvolgimento del turismo, delle industrie, delle economie costiere e, ovviamente, della pesca. Sono state documentate, infatti, una serie di conseguenze dirette e tangibili, come una netta riduzione della presenza di pesce costiero, una maggiore difficoltà nella navigazione, la corrosione di alcuni dispositivi elettronici presenti al largo delle coste e il deterioramento di innumerevoli spiagge, ricoperte di cumuli di sargasso. Nel 2016, si è stimato che il costo di pulizia delle spiagge in tutta l’area dei Caraibi abbia superato i 120 milioni di dollari.

Una delle minacce più concrete è costituita dall’erosione del tessuto della barriera corallina, problematica già esistente e accelerata dalle ondate di sargasso. Si parla addirittura di una vera e propria “sindrome bianca” (el sindrome blanco), causata dal netto peggioramento delle condizioni delle acque locali, anche se nel complesso questo fenomeno è ancora relativamente recente e difficile da misurare. L’unica certezza è che l’integrità di questa barriera naturale aiuta ad arginare la deriva delle alghe, e la sua erosione è un fattore peggiorativo dell’invasione del sargasso.

In tutta la regione dei Caraibi, il problema risulta di estrema attualità e rilevanza: nel giugno 2022 si è registrato un nuovo record, con 24,2 milioni di tonnellate di sargasso accumulate tra tutti i Paesi dell’area.

A Cuba, il governo ha lavorato insieme a vari progetti internazionali di cooperazione, con una spesa di oltre nove milioni di dollari, per ripulire circa 1300 km del proprio litorale solo durante il 2023, in particolare nella zona centro-occidentale dell’isola. In questo Paese, la questione ha iniziato a presentarsi nel 2012 nella baia di Cienfuegos, assumendo sempre più peso negli anni a seguire. Le autorità nazionali hanno così iniziato un costante monitoraggio satellitare, preso come riferimento anche dai Paesi limitrofi.

In Honduras, le località più colpite sono anche quelle più turistiche, come l’isola di Roatán, anche a causa dei periodici fenomeni atmosferici e metereologici quali la Niña. Roatán ha così sviluppato un sistema ormai rodato di pulizia delle spiagge, mobilitando scuole e centri giovanili, organizzando giornate locali di raccolta del sargasso e cercando il supporto anche di altri Paesi, in particolare Messico e Repubblica Dominicana, per la gestione dell’emergenza. Da Tegucicalpa, infatti, il sostegno nella risoluzione del problema è stato scarso e scostante, motivo per cui l’isola di Roatán ha deciso di mettersi in proprio per combattere l’invasione dell’alga.

La Repubblica Dominicana risulta uno dei Paesi più colpiti, ma anche uno di quelli più risoluti nel contrastare il problema. Oltre alle misure locali, quali la costituzione di squadre di pulizia e l’installazione di barriere in mare, il governo dominicano ha siglato accordi con il settore privato per coordinare meglio la propria azione, rivolgendosi anche ad importanti imprese nazionali per la pulizia delle acque e delle spiagge. Lo stesso Presidente dominicano, Luis Abinader, ha inaugurato il 25 aprile 2023 a Santo Domingo il primo Seminario internazionale “Retos y oportunidades de la gestión del sargazo para el turismo de República Dominicana” (“Sfide e opportunità nella gestione del sargasso per il turismo della Repubblica Dominicana”), coinvolgendo esperti e accademici nazionali e internazionali. Il Presidente Abinader si è rivolto direttamente a tutti i paesi del Gran Caribe, auspicando un’azione congiunta contro l’invasione del sargasso, ma anche nella ricerca delle opportunità che quest’alga può presentare.

Mentre gli scienziati sono preoccupati dall’aspetto ecologico e ambientale, i Paesi coinvolti dall’ondata di sargasso continuano ad essere allarmati principalmente dall’impatto di tale fenomeno sul turismo, che secondo uno studio della CEPAL (Commissione economica per l’America Latina e i Caraibi) del 2019, costituisce circa il 26% del PIL dell’intera regione caraibica.

Il sargasso, infatti, non solo compromette la trasparenza delle cristalline acque caraibiche, ma, decomponendosi, emette spesso un odore nauseabondo, attirando per di più mosche e insetti.

Tutti coloro che sono legati alle attività turistiche dell’area, dagli albergatori agli insegnanti di snorkeling, si preoccupano principalmente degli effetti di questa calamità sul turismo. Molti di loro si ritrovano a ripulire le spiagge quasi ogni giorno, vedendo i propri sforzi subito vanificati dall’ingente accumulo notturno di alghe. Questo elemento fa emergere una questione ulteriore, ossia quella del lavoro non salariato: buona parte degli addetti alla pulizia delle spiagge sono infatti gli stessi impiegati degli hotel che, alla fine del proprio turno, sperano in questo modo di racimolare qualche soldo in più grazie alle mance dei turisti. Nonostante questo, secondo uno studio effettuato a giugno del 2020, meno della metà di coloro che avevano partecipato alla raccolta del sargasso sulle spiagge aveva ricevuto un compenso quantomeno degno.

Tra i resort della zona, alcuni hanno fatto installare barriere al largo delle coste, mentre altri hanno agito in maniera più sostenibile, prevedendo tra le attività proposte ai propri clienti la possibilità di partecipare tramite alcune Onlus alla riforestazione della barriera corallina caraibica, oppure l’adozione vera e propria di un corallo in cambio di piccole somme di denaro.

Un ultimo aspetto da considerare è il divario tra le aree turistiche e quelle destinate alla pesca: ad esempio, il Messico e i suoi stati regionali sembrano molto più orientati a investire nella salvaguardia delle zone di villeggiatura rispetto a quelle meno turistiche. Molti villaggi di pescatori, principalmente nella parte meridionale del Quintana Roo e al confine con il Belize, si ritrovano così abbandonati e di fatto impossibilitati ad affrontare concretamente il problema.

Le possibilità di sfruttamento

Nonostante le numerose ed evidenti problematiche create dall’incontrollabile accumulo di sargasso, c’è chi prova a trovare soluzioni alternative per non arrendersi allo stato attuale delle cose.

Un esempio virtuoso è rappresentato da Fort Lauderdale, una piccola cittadina della Florida meridionale che, da più di un decennio, utilizza tutto il sargasso, raccolto sulle spiagge tramite appositi trattori, facendolo essiccare e trasformandolo in compostaggio agricolo. Il costo annuale dell’operazione per l’amministrazione locale è tutt’altro che irrilevante (di poco inferiore ai 400.000$) ma considerato il riutilizzo che viene fatto del materiale organico, in sostituzione del semplice smaltimento, questa alternativa risulta sicuramente tra quelle attualmente più interessanti.

Altri studi propongono l’impiego di alghe marine per la produzione di biocombustibili. Questa soluzione, però, si presenta non priva di rischi, considerata la particolare attitudine del sargasso ad accumulare metalli tossici come piombo, cadmio, arsenico, alluminio e così via.

Infine, un caso singolare è quello di alcuni piccoli imprenditori messicani, che utilizzano grandi quantità di sargasso per produrre beni di ogni tipo: mattoni e blocchi da costruzione altamente ecosostenibili, prodotti di cosmetica e alimenti per il bestiame. Quest’ultimo prodotto, in particolare, è stato sviluppato soprattutto in Jamaica, dove l’impresa Awganic Inputs, sostenuta dal Banco Interamericano de Desarrollo e dal Centro de Innovación Climática del Caribe, fornisce dal 2018 alle comunità locali mangime di qualità, insieme a carbone ecologico, partendo proprio dal riutilizzo dell’alga.

In conclusione, la questione del sargasso sembra ancora ben lontana dall’essere risolta, nonostante appaiano sempre più evidenti le responsabilità umane rispetto all’insorgenza del fenomeno. Le amministrazioni nazionali e locali sembrano poco propense ad effettuare interventi massivi e strutturali, anche in virtù della transnazionalità del problema, mentre le condizioni di salute dei sistemi economici e ambientali interessati risultano sempre più compromesse. Probabilmente, solo studiando in modo più approfondito le caratteristiche di quest’alga si riuscirà a trarre qualche profitto da una situazione altrimenti molto complessa e sfavorevole, in cui solo nuove proposte di smaltimento e riutilizzo sostenibile riusciranno a essere veramente decisive per risolvere la crisi.

Foto Credits: rjsinenomine – Attribution 2.0 Generic (CC BY 2.0), attraverso Flickr