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Lavoro dignitoso e informalità delle economie: il caso del Marocco

Mourji Fouzi

L’analisi della disoccupazione raccoglie la maggior parte dei lavori relativi al mercato del lavoro e occupa anche un posto di rilievo nell’agenda dei responsabili politici. Sebbene un tale interesse sia legittimo, ci sembra opportuno esaminare anche la qualità del lavoro delle donne e degli uomini occupati.

I lavori più innovativi in questo campo risalgono a molti anni fa, quando Leibenstein (1957) analizzò il legame tra la concessione dei benefici finanziari e la motivazione dei lavoratori; successivamente si sono moltiplicati gli studi sugli “scambi di doni”, basati sulla teoria dei giochi. Kaufman (2006) ha riassunto la letteratura sulla teoria istituzionalista che pone l’accento sul ruolo delle normative e delle protezioni sociali sulla qualità del lavoro. Va notato che in relazione a questo problema è emerso, con una letteratura empirica, il concetto di “lavoratori poveri”. Si veda, nel caso della Francia, il rapporto dell’Osservatorio nazionale sull’esclusione sociale 2005-2006; va peraltro notato che nell’Unione europea un dipendente su sei è povero.

Inoltre, nel contesto recente, la pandemia da Covid-19 ha, da parte sua, messo in luce le vicissitudini dei sistemi sanitari di diversi Paesi. Ma ha allo stesso modo evidenziato la precarietà occupazionale di una gran quantità di lavoratori nel settore informale e persino in quello formale.

Tutti questi elementi giustificano un’analisi delle realtà dei lavoratori in Marocco. La riflessione qui sviluppata si basa su uno studio ispirato proprio da queste problematiche.

Per quanto riguarda l’articolazione di questo articolo, iniziamo fornendo una panoramica dell’importanza del settore informale nell’economia marocchina e mostriamo (come peraltro avviene in tutti i paesi) che questo settore è molto eterogeneo, elencando e descrivendo le sue componenti. Presentiamo quindi le caratteristiche delle “Unità di produzione informali” (UPI), che si distinguono dalle “Unità di produzione formali” (UPF). La seconda sezione presenta i risultati dell’utilizzo di una banca dati che abbiamo recentemente creato per studiare la qualità dei posti di lavoro nell’agglomerato di Casablanca. L’indagine è stata condotta su diversi profili: (i) dipendenti nei settori informale e formale (in quest’ultimo caso dipendenti che lavorano in imprese formali in assenza di registrazione), (ii) lavoratori autonomi e datori di lavoro nel settore informale e (iii) imprese formali.

L’importanza del settore informale in Marocco e le sue componenti principali

A seconda delle fonti e dei metodi di stima, l’economia informale in Marocco oscillerebbe tra il 30% (stima della banca centrale Bank Al Maghrib) e il 12,6% secondo la stima dell’HCP (Indagine sulle UPI).

In termini di occupazione, il posto dell’economia informale è ancora più significativo, in quanto questo settore impiega oltre 2,4 milioni di persone; ciò corrisponde al 36,3% dell’occupazione nazionale non agricola (il che confermerebbe anche che la produttività nel settore informale è bassa). Ci sono quasi 2 milioni di UPI in Marocco, con una crescita annuale di 19.000 occupati (pari a un tasso annuo dell’1,2% ). Secondo il ramo di attività, il 50,6% delle UPI riguarda il commercio, il 24,5% i servizi, il 16% l’industria e quasi il 9% il PBT Bâtiment et Travaux Publics (edilizia delle opere pubbliche). Ma l’informalità riguarda anche l’artigianato ed è predominante nelle zone rurali.

Caratteristiche delle principali componenti del settore informale

Gli analisti spesso sbagliano quando considerano il settore informale come un insieme omogeneo o quando concentrano la loro attenzione sul mancato pagamento delle tasse da parte degli operatori del settore. Ad esempio, tutte le UPI che acquistano piccoli utensili e fattori produttivi per la loro produzione pagano l’IVA (e non la detraggono come fanno le unità formali che dispongono di una contabilità) e molte di loro pagano le tasse comunali.  Tuttavia, è opportuno rivolgere uno sguardo più sfumato e sottile al settore informale, soprattutto se l’obiettivo è identificare modi per incoraggiare la formalizzazione di alcune delle unità produttive che vi operano. Anzitutto va smentito un diffuso luogo comune: questo settore non è un parassita. Al contrario, è composto da persone che, invece di aspettare l’assistenza pubblica o rimanere inattivi (nell’accattonaggio o nella delinquenza), creano attività e generano reddito per sostenere se stessi e le proprie famiglie. Altrettanto importante è il fatto che essi consentono alle famiglie, in particolare nei paesi in via di sviluppo, di accedere a beni e servizi a cui altrimenti non avrebbero accesso. Ad esempio, i venditori ambulanti forniscono servizi locali a costi molto competitivi rispetto al potere d’acquisto delle famiglie a basso reddito che vivono nelle periferie delle città; eguagliano, anche solo con il trasporto, il prezzo dei beni che acquistano dai venditori ambulanti.

Microimprese (ME): Si tratta di UPI molto piccole, che operano per lo più in proprio e quindi costituite da una persona (è questo il caso per il 74,9% delle UPI), a volte accompagnata da un assistente (17,3%), spesso un membro della famiglia più o meno stretto.

Il 60,1% degli occupati nelle UPI in Marocco lavora in una ME. Sono compresi in questa categoria, ad esempio, i venditori ambulanti, le donne che preparano pasti fatti in casa e che poi vendono come ambulanti o agli angoli delle strade, i calzolai, i riparatori di utensili da cucina, gli idraulici con piccole attrezzature che lavorano su richiesta, o gli elettricisti.

Imprese molto piccole (TPE) completamente informali

Sono relativamente più grandi delle ME, quindi con uno o pochi dipendenti (spesso meno di 10). Si distinguono anche per attrezzature più sofisticate, dispongono di locali ma non hanno completato alcuna formalità o procedura per ottenere uno status legale e sociale.

Imprese molto piccole (TPE) con licenza

Dal punto di vista delle dimensioni e delle attrezzature hanno le stesse caratteristiche delle TPE precedenti, ma sono in possesso di licenza (e quindi di un numero che le identifica). Pagano le tasse locali. Alcune non pagano ancora tasse come IR (imposta sul reddito) o IS (imposta sulle società) e possono o meno avere un codice fiscale. Altre pagano le imposte citate e sono soggette al regime fiscale forfettario. Pertanto, non mantengono  una contabilità e non effettuano dichiarazioni per le detrazioni IVA. Sono costituite da persone fisiche o da società di fatto. Rappresenterebbero circa il 23% delle UPI.

Imprese molto piccole (TPE) con licenza, RC ma non affiliate al CNSS (La Caisse Nationale de Sécurité Sociale)

L’ultima categoria comprende le unità con il più basso livello di informalità (livello 1). Rappresentano il 13% della popolazione delle UPI. Hanno uno status legale (un numero di registro delle imprese) e fiscale (con relativo codice), ma non esistono “socialmente” poiché non sono affiliate al CNSS; non dichiarano i loro dipendenti, che quindi non hanno una copertura sociale.

  1. Valutazione della qualità del lavoro: insegnamenti tratti dai dati dell’indagine

Il campione di riferimento è il seguente:

Il questionario è composto da 65 domande suddivise in 4 sezioni. Il primo riguarda le caratteristiche demografiche e socio-economiche dei dipendenti (sesso, età, numero di anni di studio, numero di anni di esperienza lavorativa, settore dell’attività principale dell’azienda in cui lavorano, ecc.). Le tre sezioni successive illustrano le caratteristiche del lavoro svolto: copertura previdenziale, accesso all’assistenza sanitaria, esistenza di un contratto di lavoro, numero di ore e di giorni di lavoro, modalità di retribuzione, esistenza di premi e commissioni, copertura degli  infortuni sul lavoro, accesso a ferie retribuite, ecc. Abbiamo anche cercato di identificare l’esistenza di possibili rischi di molestie (sessuali e morali) e malattie o incidenti legati all’attività professionale.

Per sintetizzare i risultati, abbiamo calcolato un indice composito di qualità del lavoro, dato che il concetto è multidimensionale, utilizzando tutti gli indicatori sopra menzionati.

Questi forniscono informazioni su diversi aspetti che caratterizzano i lavori svolti, e che vanno dalle risorse che generano sino al grado di dignità raggiunto (ferie e sicurezza sociale, ecc.) e alle agevolazioni che possono incidere sulla salute fisica e psicologica dei lavoratori.

L’indice sintetico della qualità del lavoro (QE) si ottiene calcolando la media (a parità di peso) dei valori assegnati a ciascuno degli indicatori citati.

Sembra che il 63% dei lavoratori nelle UPI svolga lavori di qualità media, mentre per quasi il 28% sia di bassa qualità. Questo risultato si basa sull’indice composito già menzionato, che non consente di apprezzare la qualità del lavoro. Infatti, non essendo ponderato, l’indice tende a ridurre in una certa misura la dimensione della “precarietà del lavoro”, poiché nel settore informale i dipendenti non hanno un contratto di lavoro formalizzato che li protegga.

A titolo di confronto, abbiamo anche intervistato i dipendenti che lavorano in imprese formali e la tabella seguente riassume i risultati.

La maggior parte (85%) dei posti di lavoro occupati dai dipendenti nelle imprese formali sono di media o buona qualità, rispettivamente nel 31,20% e nel 53,85% dei casi. Tuttavia, per il 6% la qualità dell’occupazione lascia a desiderare. Ma anche in questo caso, l’indice composito, che – ricordiamo – è una media non ponderata, sottostima la scarsa dignità del lavoro, perché non assegna un maggior peso alla mancanza di accesso alla copertura previdenziale o all’assenza di un consiglio di fabbrica.

Infine, va notato che nel caso del Marocco la crisi sanitaria ha ulteriormente allertato l’opinione pubblica sullo stato di precarietà di molti lavoratori e sulla necessità di riforme; le autorità pubbliche hanno dichiarato la loro volontà di accelerare l’avanzamento di progetti strutturali, come la generalizzazione della copertura medica (l’assicurazione sanitaria di cui ha beneficiato solo una piccola parte della popolazione), e di lanciare nuovi progetti come il “registro sociale unificato”. Quest’ultimo riguarda l’istituzione di un registro contenente informazioni sulle famiglie e sul loro grado di benessere o precarietà, in modo che i più bisognosi possano poi beneficiare di aiuti diretti (come per esempio i trasferimenti di denaro ai fini dell’istruzione). Tale registro consentirà alle autorità pubbliche di identificarli in caso di shock (come una crisi sanitaria) e di aiutarli facilmente. Questo sarà un modo per affrontare politiche di natura globale e basate su azioni relative ai prodotti. È il caso, ad esempio, dei sussidi e delle aliquote IVA ridotte sui beni di prima necessità, che si rivelano troppo costosi per il bilancio e alla fine avvantaggiano gli strati sociali più abbienti (che assorbono la maggior parte della spesa fiscale inerente a tali sovvenzioni o alle aliquote IVA ridotte, mentre inizialmente non ne costituiscono l’obiettivo).

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Foto Credits: Kieren Messenger, Attribution-NonCommercial 2.0 Generic (CC BY-NC 2.0) attraverso Flickr