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In libreria – Corporate Regulation for Climate Change Mitigation in Africa. A case for dilute interventionism

Un volume di Kikelomo O. Kila *

Redazione

Il volume di oltre 250 pagine di Kikelomo Kila pubblicato per Routledge, dal titolo “Corporate Regulation for Climate Change Mitigation in Africa. A case for dilute interventionism”, appare interessante per diverse ragioni.

Anzitutto ha il merito di affrontare direttamente – con l’intento di arrivare al chiarimento di molti nodi irrisolti – una questione importante rimasta in qualche modo in sospeso, ovvero il coinvolgimento del settore privato nelle politiche di mitigazione dei cambiamenti climatici nei PVS.

La definizione di finanza climatica è molto ampia. Quella fornita dalla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (United Nations Framework Convention on Climate Change, UNFCCC) include “finanziamenti locali, nazionali o transnazionali da fonti di finanziamento pubbliche, private e alternative” che cercano di sostenere la mitigazione e l’adattamento. Ciò ha lasciato, di fatto, le definizioni operative nelle mani dei governi e delle istituzioni internazionali.

Attualmente esistono diverse fonti di finanziamento per l’adattamento e la mitigazione rispetto ai cambiamenti climatici: i bilanci statali (come indicano i piani contenuti nei Contributi Nazionali Volontari per la mitigazione e l’adattamento ai cambiamenti climatici, i Nationally Determined Contributions, NDC), i meccanismi di finanziamento legati alla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (United Nations Framework Convention on Climate Change, UNFCCC), i flussi di finanziamento della Banca Mondiale e di altre istituzioni finanziarie internazionali, l’aiuto pubblico bilaterale allo sviluppo e gli investimenti privati delle imprese.

Le politiche di cooperazione allo sviluppo hanno un gran daffare nel cercare di dimostrare il rispetto di quanto prescritto dall’articolo 4.3 dell’UNFCCC, che richiede ai Paesi più ricchi di fornire fondi “nuovi e aggiuntivi” per la mitigazione e l’adattamento ai cambiamenti climatici. Questo significa che gli importi forniti come parte degli impegni nazionali nell’ambito dell’UNFCCC devono essere aggiuntivi rispetto all’impegno a fornire aiuti pubblici allo sviluppo pari allo 0,7% del loro Reddito nazionale lordo per lo sradicamento della povertà e il raggiungimento degli Obiettivi di sviluppo sostenibile. Il capitolo della finanza climatica a sostegno dei PVS corre il rischio di rimanere un’arma spuntata, oppure di sottrarre risorse alla lotta alla povertà estrema e alle disuguaglianze. In altri termini l’Aiuto pubblico allo sviluppo (APS), attraverso i canali bilaterali e multilaterali, rimane il principale strumento di finanziamento pubblico per il clima, il che è problematico per la coesistenza del duplice obiettivo dello sviluppo da un lato e della mitigazione e dell’adattamento ai cambiamenti climatici dall’altro, non sempre coincidenti.

Il documento finale approvato dall’assemblea plenaria alla Conferenza delle parti (COP 27) dell’UNFCCC tenuta a Sharm el-Sheikh, a novembre del 2022 non lascia ben sperare. Del resto, la COP 27 era iniziata in presenza di un peggioramento della crisi climatica e di un palpabile disimpegno dei Paesi con economie ad alto reddito, a seguito della crisi energetica indotta dalle sanzioni NATO dopo l’invasione russa dell’Ucraina.

Il documento si limita ad auspicare timidamente l’eliminazione dei sussidi alle fonti fossili e chiede soltanto la riduzione della produzione elettrica a carbone, non la sua eliminazione, né si esprime nettamente sulla riduzione o eliminazione dell’uso dei combustibili fossili. Parimenti, il documento finale nota con seria preoccupazione che non è stato ancora istituito il fondo da 100 miliardi all’anno dal 2020 previsto dall’Accordo di Parigi del 2015 (COP 21) per aiutare i Paesi meno sviluppati nelle politiche climatiche. Lo stesso documento prevede per la prima volta un fondo per compensare le perdite e i danni irreparabili dovuti agli impatti climatici dei cambiamenti climatici (loss and damage) patiti dai Paesi più vulnerabili e di cui i Paesi “ricchi” sono considerati responsabili secondo l’approccio della giustizia riparativa (restorative justice), ma nulla si dice dell’ammontare di risorse finanziarie da mobilitare e degli impegni da assumere. Se ne ricomincerà a parlare nel 2023, in un contesto non certo facile: l’incombente recessione economica mondiale sarà probabilmente più profonda di quella del 2008 e la probabile spirale di stagflazione (recessione e inflazione) renderà ancora più difficile affrontare la crisi climatica. A fronte di una sfida tanto importante e urgente, il processo politico a livello internazionale appare quindi lento e sinora colpevolmente inefficace.

Oltre a questi fallimenti della politica, c’è anche un convitato di pietra molto ingombrante, che rimane spesso nell’ombra: il settore privato for profit. Indubbiamente, questo settore ha grandi responsabilità in materia di emissioni di gas a effetto serra in atmosfera, di insufficiente risparmio ed efficienza energetica, di ritardo nella transizione verde, di ricorso ai combustibili fossili e di uso ancora troppo limitato delle tecnologie sostenibili necessarie, come per esempio le tecnologie agricole “agroecologiche”.

Il settore privato for profit ha anche una responsabilità diretta sul piano della finanza climatica per i Paesi in via di sviluppo. I 100 miliardi di dollari l’anno promessi entro il 2020 non sono stati ancora garantiti dai Paesi “ricchi” al Sud del mondo e i flussi finanziari sin qui contabilizzati, oltre che insufficienti, sono anche oggetto di critiche perché “gonfiati”, includendo meccanismi di cosiddetta finanza mista (blended finance) che di fatto possono sovvenzionare forme di partenariato pubblico-privato, alleggerendo il settore privato for profit dall’onere di farsi carchi dei rischi commerciali di investimento nei PVS.

È anche vero che il dibattito internazionale si concentra, prevalentemente, sul ruolo delle istituzioni pubbliche nel gestire la finanza climatica e il coinvolgimento del settore privato for profit. In pratica, i finanziamenti internazionali per il clima a favore dei PVS sono intesi come flussi finanziari internazionali innescati da interventi pubblici. Inoltre, con il termine apparentemente sofisticato di “finanza climatica” e di “partenariati pubblico-privato” si intende, in sostanza, quasi sempre nulla più che una sovvenzione o un elemento agevolato di un comune strumento finanziario, come doni, crediti di aiuto (a condizioni agevolate, in termini di bassi tassi di interessi, lunghi periodi di grazia e di maturità) e garanzie. Questa definizione è molto più ristretta di quelle teoricamente suggerite parlando di finanza privata e di strumenti finanziari innovativi, allettanti in teoria, ma modesti sin qui nella pratica.

A fronte di un’enfasi eccessiva sul coinvolgimento attivo del settore privato nella finanza climatica, i risultati finora sono molto deludenti, per il semplice fatto che il settore privato for profit ha mobilitato poche risorse finanziarie proprie e ha utilizzato principalmente lo strumento del credito, contribuendo a far crescere l’onere del debito dei PVS ed esprimendo assai poca capacità di innovazione.

A tutto ciò si aggiunge un “peccato originale” del processo internazionale per l’attuazione di politiche climatiche. Molte delle proposte di finanziamento  oggi sul tavolo, come per esempio il sistema di scambio di quote di emissione dell’Unione Europea (EU Emissions Trading System, EU ETS), manifestano una fiducia illimitata nelle soluzioni di mercato, che rendono la capacità di riciclaggio della CO2 del pianeta una merce come altre. L’esperienza ha finora mostrato, invece, che le soluzioni affidate alla capacità di autoregolamentarsi del mercato risultano inadeguate.

Alla luce di tutto questo, il libro di Kikelomo Kila ha il merito di focalizzarsi senza distrazioni sul ruolo reale e potenziale del settore privato for profit in Africa.  Ma un secondo merito è quello di farlo da un’angolazione particolare, cioè analizzando criticamente le prospettive di revisione del quadro giuridico della regolamentazione legata ai cambiamenti climatici per le imprese, negli Stati africani. Nel fare ciò, l’autrice adotta il quadro normativo del cosiddetto “interventismo diluito” (introdotto, come idea principale del volume, nel capitolo 3 e sviluppato in quelli successivi) per affrontare la cultura della resistenza normativa delle imprese in Africa. Si tratta, per quanto ci risulta, di un approccio nuovo e originale.

Diversi fattori – tra cui la debolezza dello Stato di diritto, l’assenza di capacità amministrativa del governo e la debolezza del potere contrattuale nei confronti delle imprese multinazionali che dispongono di vaste risorse di capitale finanziario, tecnologico e capacità di creare occupazione – limitano le capacità normative degli Stati. La sfida per i Paesi africani consiste, quindi, nello stabilire il giusto equilibrio tra l’intervento coercitivo dello Stato nella regolamentazione delle attività delle imprese e l’utilizzo di misure persuasive e facilitanti per ottenere un’adesione volontaria e convinta alle norme di standard normativi da parte delle imprese. Esattamente in questo punto si colloca l’approccio proposto di “interventismo diluito”.

L’autrice esamina le ragioni per cui gli Stati africani dovrebbero intervenire direttamente attraverso meccanismi legislativi, per obbligare le imprese a incorporare la mitigazione dei cambiamenti climatici nelle loro attività commerciali. E propone che questo intervento diretto comprenda una miscela di meccanismi prescrittivi e facilitativi (una sinergia tra punizione e persuasione), strutturati in un modello normativo di interventismo diluito, nel senso che prevede gli strumenti interventisti più severi alla base e una escalation di strumenti prescrittivi più blandi, in base all’aumento della conformità delle imprese. L’adozione di questo modello è – sempre secondo l’autrice – un modo efficace per arrestare la cultura dell’impunità normativa che le imprese hanno instaurato negli Stati africani. Il libro propone inoltre che l’attuazione di questo modello comporti l’istituzione di un regolatore forte e indipendente con un sistema di protezione basato su attori con potere di veto (coniando, nel capitolo 6, il termine di veto firewall per la protezione del sistema) per garantire l’effettiva indipendenza dell’autorità di regolamentazione dal governo e dalle influenze esterne nell’esercizio quotidiano delle sue funzioni.

Si traccia di un approccio non riconducibile a quanto prevale nella letteratura esistente sull’argomento che si concentra su teorie generali e “occidentali” di regolamentazione aziendale, come per esempio nel caso della teoria della cosiddetta responsive regulation, che fa riferimento a un programma di regolazione adattivo e dinamico in cui le autorità pubbliche, impiegando in maniera reattiva strumenti (di regolazione ed enforcement) persuasivi e punitivi, tentano di ottenere la collaborazione dei privati nella realizzazione delle politiche. La prospettiva dell’autrice del libro, invece, è molto più ambiziosa perché, anziché adattare agli Stati africani teorie e approcci ben noti nella letteratura occidentale, mira a fornire una prospettiva nuova, disegnando un quadro normativo di regolamentazione delle imprese in materia di cambiamenti climatici a partire dai fattori socio-economici propri degli Stati africani. È, cioè, il tentativo di presentare un approccio di regolamentazione basato sul problema, e che deve contribuire a risolvere il problema della gestione efficace della partecipazione delle imprese private for profit alla mitigazione dei cambiamenti climatici in Africa, ma senza sanzionare a priori le imprese e senza adottare un approccio normativo irragionevole, che scoraggerebbe gli investimenti esteri delle imprese multinazionali.

Compito certamente non facile – e che comporta il rischio del velleitarismo – ma che l’autrice svolge prendendo in considerazione, in una visione ad ampio raggio, il quadro giuridico sui cambiamenti climatici in tutti gli Stati africani, chiarendo perché i sistemi normativi alternativi (come quello di mercato) per colmare la lacuna normativa nel coinvolgimento delle imprese nella mitigazione dei cambiamenti climatici risultano carenti e inaffidabili per la regolamentazione delle imprese negli Stati dell’Africa. Conducendo uno studio più approfondito di casi specifici sulle due maggiori economie africane – Nigeria (capitoli 10 e 12) e Sudafrica (capitolo 11) – l’autrice evidenzia la similarità dei problemi presenti in tutto il continente e il potenziale del paradigma dell’interventismo diluito per affrontare in modo significativo questi problemi, nella convinzione che gli Stati africani debbano intervenire direttamente, attraverso meccanismi legislativi, per obbligare le imprese a incorporare la mitigazione dei cambiamenti climatici nelle loro attività commerciali, se si vuole realmente invertire la rotta.

Le conclusioni finali che seguono i 12 capitoli riassumono le argomentazioni del libro e le indicazioni che si possono trarre dall’analisi, formulando raccomandazioni per realizzare con successo il modello dell’interventismo diluito, ed evidenziando le aree di ricerca future sulla partecipazione delle imprese alla mitigazione dei cambiamenti climatici. Un aspetto – lo ripetiamo – importante ma poco studiato della governance dei cambiamenti climatici.