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Le donne afghane calpestate dal regime talebano

Ahadolla Hoseiny

In questi ultimi mesi la crisi umanitaria afghana è stata dimenticata: la grande attenzione mediatica di agosto sull’Afghanistan è venuta meno, la comunità internazionale – che aveva preso l’impegno di continuare a sostenere e vigilare sui i diritti delle donne – si è concentrata esclusivamente sul conflitto ucraino, la crisi umanitaria è stata trascurata e si susseguono restrizioni che hanno riportato la popolazione alla situazione esistente nel primo emirato.

I talebani, inizialmente preoccupati del riconoscimento internazionale, avevano fatto promesse di inclusione e moderazione, rassicurando di essere diversi dal passato, ma a riflettori spenti hanno cominciato a rendere sempre più rigide le restrizioni e alla fine è arrivato anche l’obbligo di indossare in pubblico il burqa, che riporta indietro soprattutto la condizione femminile afghana. Attualmente le donne afghane sono private del diritto allo studio, del lavoro, della libertà di esistere. L’Occidente ha la responsabilità politica della tragedia in atto, in cui, oltre alla negazione dei diritti della persona, la popolazione è alla fame, in parte a causa dell’embargo e della fuga in massa di ONG e donatori internazionali.

Nell’Afghanistan dei talebani, oggi come ieri, alle donne è negato ogni diritto: è vietato lavorare, andare a scuola, viaggiare da sole, praticare qualsiasi attività sportiva, essere visitate da medici maschi, frequentare parchi e bagni pubblici, usare cosmetici, portare i tacchi alti, intrattenersi con uomini non mahram (parenti stretti), farsi fotografare, guardare la televisione, ascoltare musica ed altro ancora. Ora, come negli anni novanta, quando il Mullah Omar impose il burqa, si è materializzato di nuovo questo simbolo, che sancisce la continuità con il primo emirato e il dramma delle afghane.  Le donne tornano a casa prigioniere della famiglia, la nuova regola chiama i loro parenti stretti a far rispettare l’obbligo; padri, mariti, figli maschi dovranno essere i controllori e ne dovranno rispondere in prima persona con severe sanzioni.

A stabilire questa imposizione è stato un decreto emanato il 7 maggio scorso dal Ministero per la Propagazione della Virtù e la Prevenzione del Vizio. I fondamentalisti hanno reso obbligatorio l’uso dell’abito che copre interamente il corpo, lasciando solo delle piccole fessure davanti agli occhi. Nel decreto si legge che “le donne che non sono né troppo giovani né troppo anziane devono coprirsi il corpo ed il viso, tranne gli occhi come indicato dalla Sharia, devono indossare un chadori (burqa che copre interamente tutto il corpo), evitare di provocare quando incontrano uomini che non siano mahram”. Il decreto stabilisce anche che “è meglio che le donne stiano in casa se non hanno cose vitali da fare all’esterno della propria abitazione.”

L’uso del burqa era stato reso obbligatorio dai talebani durante il loro primo regime. L’imposizione non ha basi nell’Islam, ma è una prerogativa dei talebani, che ripresero una tradizione limitata, in uso alla fine dell’ottocento presso la classe sociale più alta. L’obbligo fu eliminato dopo il 2001 e in questi ultimi anni, anche se l’uso del burqa resisteva ancora nelle zone rurali, nelle grandi città era quasi del tutto scomparso, soprattutto tra la nuova generazione nata dopo la fine del primo regime: donne istruite, cresciute libere, coprivano i capelli con un foulard, vestivano con l’abbigliamento colorato e raffinato tipico proprio di questo paese e le più giovani anche all’occidentale. Ora i controlli si sono fatti imponenti. I talebani hanno istituito addirittura posti di blocco per il controllo della “moralità”, per verificare se le donne hanno accompagnatori maschi, per controllare l’abbigliamento, e da alcuni ospedali giungono notizie che i funzionari talebani hanno imposto di non curare le pazienti se arrivano sole e in caso di assenza di medici donne.

Se nei primi mesi c’erano state manifestazioni di piazza importanti, che avevano visto donne di tutte le età scendere in piazza per difendere i diritti acquisiti, per protestare contro il divieto di lavorare e di frequentare scuole e università, attualmente resistono piccoli gruppi di giovani ragazze, ma l’imposizione dell’hijab obbligatorio ha riportato le donne di nuovo in strada a sfidare i talebani. Le immagini di Tele-Tolo hanno mostrato queste coraggiose donne, a viso scoperto, sfilare con cartelli del tipo: “il burqa cancella la personalità impedendo alla donna di respirare”.

Dopo le manifestazioni sono cominciate le ritorsioni; le partecipanti sono state ricercate nelle loro case, picchiate, fermate, punite, e quattro di loro sono state trucidate. Molte attiviste e giornaliste che in questi anni si sono battute per il miglioramento della condizione femminile nella società e nella famiglia ora sono ricercate, i talebani danno loro la caccia casa per casa e sono soggette a perquisizioni notturne. Sono già tante le donne scomparse e alcune sono state uccise, tra le quali Frozan Safi, docente universitaria, attivista molto nota; la direttrice del carcere femminile di Herat, Alia Azizi, è scomparsa da sette mesi. Nonostante tutto, anche se oramai sono sempre meno, è eroica la loro resistenza nelle città: qualche piccolo gruppo di donne a Kabul ha dato fuoco al burqa dicendo che non fa parte della loro identità, a riprova che queste ragazze non vogliono arrendersi ad un futuro di orrore. Non circolano più notizie, i media che esistevano sono spariti, 257 hanno chiuso, molti giornalisti e fotoreporter, soprattutto donne, sono stati picchiati per aver riferito sulle proteste anti-talebane e non sono più ammessi nelle redazioni. Sono state anche sciolte cinque importanti istituzioni pubbliche, tra cui la Commissione per i diritti umani.

La condizione femminile in Afghanistan è sempre stata difficile, ma prima della guerra civile (1992-96) il Paese aveva cominciato a sostenere i diritti delle donne. Negli anni venti il re Amanullah aveva iniziato a modernizzare il Paese e ad aprire all’istruzione femminile, negli anni sessanta il processo di emancipazione era ben avviato ed era continuato sotto la dominazione sovietica. La situazione precipitò prima con l’avvento dei Mujahiddin (1992-1996), e poi con la presa del potere dei talebani (1996-2001), i quali applicarono una visione estrema della sharia che ha cancellato completamente la figura femminile. In quegli anni le donne avevano accesso limitato alle cure sanitarie e molte di loro morivano di parto, visto che solo il 6% delle nascite avveniva con assistenza sanitaria. In anni più recenti si erano registrati enormi progressi nella cura della persona, e l’aspettativa di vita media delle donne era aumentata da 46-50 anni a 66. Tra il 1996 e il 2001 a nessuna ragazza era permesso di andare a scuola, la loro percentuale su un milione di studenti era dello 0,4%; dopo la caduta del regime, la percentuale si era alzata fino ad arrivare intorno al 40%; 300.000 giovani frequentavano l’università e 100.000 erano donne, mentre nel duemila il numero era limitato a qualche migliaio di maschi. Ora le scuole femminili, tranne la primaria, non hanno riaperto, le ragazze dopo i 12 anni sono già state private dei loro diritti, così che l’impoverimento culturale è già in atto. Inoltre, alle donne è stato impedito di lavorare e sono state allontanate dalle loro posizioni nella vita politica e nella magistratura. La spesa sanitaria per le donne ha subito imponenti tagli, soprattutto quella relativa al parto, e la stessa sorte è toccata a quella per i vaccini per l’infanzia. Recentemente è esplosa un’epidemia di morbillo che ha già causato la morte di 200 bambini, e l’Oms teme che nei prossimi mesi possa verificarsi un aumento vertiginoso dei casi. In passato il regime dei talebani aveva vietato qualunque vaccinazione infantile, molte donne si sono lasciate morire, alcune si sono date fuoco. Il mondo ha ignorato la tragedia delle afghane fino al 2001.

Durante il ventennio dell’occupazione, a fronte delle molte aspettative delle donne, si sono registrati alcuni lenti ma significativi progressi, anche se non in maniera omogenea, dal momento che nelle zone rurali del Paese poco era cambiato. Si è creduto che la guerra al terrore in suolo afghano potesse anche liberare le donne oppresse e favorire un processo di emancipazione, uguaglianza e democrazia. È stata un’illusione: se per un ventennio si erano costruite scuole per l’istruzione delle ragazze, sono bastate poche settimane per distruggerle e chiuderle definitivamente. Del resto in questi ultimi due anni alcuni segnali c’erano già stati, sotto forma di numerosi attentati e crimini compiuti nei confronti delle scuole e delle donne, soprattutto delle giornaliste che erano in prima linea e delle magistrate.

Una scelta, quella dei talebani, alquanto prevedibile, era solo questione di tempo. Gli afghani non si erano fatti illusioni, sapevano che il ritorno talebano avrebbe cancellato il recente passato, poiché i talebani agiscono da talebani, legati a una visione del mondo fuori dal tempo, incapaci di governare un Paese, più preoccupati della cosiddetta moralità che della popolazione affamata. Solo la comunità internazionale li aveva sottovalutati.

La notizia del ritorno del burqa avrebbe dovuto fare rumore, almeno per il fatto che è l’Occidente ad avere abbandonato e riconsegnato la scorsa estate il Paese ai talebani. La guerra, secondo la narrazione, era stata combattuta anche per liberare le donne dalla prigione talebana, ed invece nel disinteresse generale le afghane sprofondano. La pretestuosa esportazione della democrazia al momento dell’occupazione è caduta e la guerra al terrorismo non ha estirpato il terrore. In Afghanistan sono presenti decine di gruppi terroristici pronti ad agire e in questi mesi diversi attentati hanno prodotto già centinaia di morti. Sono in aumento gli atti terroristici dello Stato islamico (nella provincia afghana) del Khorasan: soltanto nel recente Ramadan il sangue è tornato a scorrere nelle moschee con centinaia di vittime, e si sono ripetute esplosioni a catena davanti alle scuole.

Ancora se ne parla poco, ma il Fronte Nazionale di Resistenza, attualmente riparato tra Turchia e Tagikistan, si sta riorganizzando. In 8 province su 34 i talebani sono sotto attacco, migliaia di ex militari e generali del precedente governo ricercati dai talebani sono attivi nel Paese.

Questa decisione è arrivata mentre in Afghanistan la crisi umanitaria è in peggioramento e oltre il 90% della popolazione è alla fame. In una situazione così drammatica, può la comunità internazionale aiutare il paese senza compromettersi con il regime?

Con quest’ultima misura i talebani si sono ulteriormente isolati dalla comunità internazionale. Il Paese è completamente fermo e la comunità internazionale ha perso l’occasione di insistere sin dall’inizio per ottenere le dovute garanzie sul rispetto dei diritti umani. Il presidente della Banca mondiale ha affermato che alla luce di quanto sta facendo il regime talebano è difficile che riprendano gli aiuti finanziari, e ciò sarebbe catastrofico per un Paese dove ormai manca tutto.

Viene spontaneo chiedersi a cosa sono serviti vent’anni di occupazione, di modernizzazione, di “esportazione della democrazia” se la popolazione è stata lasciata affamata e priva dei diritti fondamentali della persona. Un terribile passo indietro che suona come la sconfitta definitiva per tutto l’Occidente. Le donne afghane non sono state aiutate, ma soltanto illuse e abbandonate a se stesse.

Foto Credits:

Afghanistan Matters, Woman with Burqa. Attribution 2.0 Generic (CC BY 2.0) attraverso Flickr
J McDowell Boy in Window. Attribution-NonCommercial-NoDerivs 2.0 Generic (CC BY-NC-ND 2.0) attraverso Flickr