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Il calvario delle donne libiche attraverso un decennio di caos e anarchia

Rahman Fazzur

La violenza contro le donne è sempre stata utilizzata come tattica di guerra e stupro. Qualunque sia il tipo di conflitto, le donne sono più esposte alla violenza, a causa del legame con la più ampia questione della disuguaglianza di genere e delle discriminazioni. Tratta e prostituzione forzata vengono spesso adottate come strategia bellica per umiliare gli avversari o come pratica collegata alla questione dell’onore familiare che ritroviamo più frequentemente in società tradizionali e tribali, come quella libica.

Le donne libiche sono state trascinate per più di un decennio in una sanguinosa guerra civile. Sebbene esse fossero in prima linea sin dagli inizi della rivoluzione, non avevano idea che non solo avrebbero dovuto sopportare il peso reale del caos e dello spargimento di sangue che ne sono conseguiti, ma anche che sarebbero state messe a tacere e sottomesse una volta tornati a una situazione di pace e stabilità. La rivoluzione libica rappresenta un paradosso di genere, in quanto le donne sono state originariamente un potente agente della rivoluzione, ma presto si sono ritrovate a esserne le vittime.  Non si può dimenticare la nota storia di Inas Fathy, di Tripoli, che distribuiva volantini anti-Gheddafi ai suoi vicini, raccogliendo fondi e contrabbandando munizioni oltre i checkpoint. I suoi movimenti furono sorvegliati e, in seguito, Inas fu rapita e torturata dalle milizie pro-Gheddafi. Come lei, molte donne spiavano le truppe di Gheddafi e ne trasmettevano i movimenti in codice alle forze ribelli.

Più di un decennio di guerra civile libica ha lasciato dietro di sé una generazione di donne traumatizzate, vedove, rifugiate, orfane, senzatetto. Hanno perso mariti, figli, figlie e genitori, hanno subìto ogni tipo di violenza, sessuale, fisica e mentale, e la loro vita si è trasformata in un vero tormento. Hanno perso le loro case, hanno subìto stupri collettivi per mano dei loro rapitori, mentre fuggivano e cercavano un possibile rifugio. A volte sono state vendute al mercato in cambio di denaro e costrette a far commercio del proprio corpo per nutrire sé stesse e le loro famiglie. Come se non bastasse, sono noti vari casi di stupro e uccisioni anche durante la custodia giudiziaria.

Ad oggi, nel mezzo dell’escalation del conflitto, le donne in Libia si trovano ad affrontare limitazioni agli spostamenti tra le diverse città e restano i soggetti più vulnerabili ai checkpoint presidiati da diversi gruppi terroristici, dove sono esposte a violenze sessuali, rapimenti e sparizioni forzate.

Quelle che incontrano maggiori difficoltà sono le donne migranti entrate in Libia nell’intento di proseguire ulteriormente il loro viaggio. Molte riportano storie di rapimenti, frustate e aggressioni sessuali: qualche volta i rapimenti sono mirati a un riscatto, altre volte però vengono drogate solo perché avvenenti.

Secondo quanto dichiarato da una rifugiata libica intervistata, le donne che si trovano in questa situazione non hanno bisogno di acqua, cibo o denaro ma di sicurezza, che non sarà possibile ottenere senza la smilitarizzazione e la riconsegna delle armi da parte delle milizie. Ha anche aggiunto che soltanto una società libera dalla violenza si può veramente definire una società umana. Un’altra sfollata ha riferito che la Libia pullula di armi e munizioni, che circolano abbondantemente anche nelle feste di matrimonio, nei funerali e persino negli ospedali.

Spesso le donne fuggono dalle loro case perché si sentono esposte ad atti criminali perpetrati dalle milizie durante i loro attacchi. Una sfollata di Sabratha ha raccontato l’uccisione del fratello Ali per mano dell’ISIS, dicendo che avrebbe fatto la stessa fine se non avesse preso la decisione di fuggire dalla sua città natale.

Hannan Sala, un’attivista per i diritti civili, ha affermato che le violenze attualmente in corso hanno ulteriormente rafforzato il potere del patriarcato. Non è permesso alle donne viaggiare da sole, il che nel lungo periodo le priverà delle libertà faticosamente guadagnate. Un giudizio simile si evince anche dalla dichiarazione della signora Majri, quando ha riferito che si possono sentire le bombe cadere in continuazione nelle vicinanze, che le strade sono vuote, ma lei continua a recarsi al lavoro, anche se è una delle poche che ancora lo fa.

Durante il conflitto in corso, l’operazione militare compiuta nell’aprile 2019 a Tripoli da parte delle forze di Haftar ha rappresentato un duro colpo per le donne, che in quell’occasione costituivano il 51,5% sul totale di 90.500 persone fuggite dalla città. La loro sfida più grande fu quella di salvarsi dalle molestie, dalle aggressioni sessuali e dalle percosse inflitte nei rifugi. Gli abitanti della regione sono ancora perseguitati dagli orribili ricordi dei massacri di Tarhuna (città della Libia occidentale), dove centinaia di persone furono uccise soltanto per la loro fedeltà alle forze anti-Haftar. Quando nel giugno 2020 il Governo di accordo nazionale riprese il controllo della città, sottraendola alle forze di Haftar, furono infatti rinvenute diverse fosse comuni.

Molti sono gli esempi di abusi subiti dalle donne in Libia, anche a livelli più alti della società. La parlamentare Siham Sergewa è stata rapita dalle forze armate arabe libiche durante un attacco a Tripoli, solo per aver stigmatizzato Haftar.

Le donne libiche inoltre non hanno alcuna forma di assistenza come i centri di counseling, il che impedisce loro di ricostituire una rete sociale per tenersi in contatto. La loro condizione di vulnerabilità poi si acuisce se appartenenti a una minoranza etnica. In questi casi devono affrontare enormi difficoltà anche per partecipare alla vita politica. Una donna appartenente all’Unità per le questioni femminili è stata rapita ed è evidente che molte donne non se la sentono di parlare della loro detenzione e delle violenze sessuali cui sono state sottoposte.

Oggi in Libia, circa duecentomila donne hanno bisogno di aiuti umanitari e circa centomila nella sola città di Tripoli hanno perso l’unica fonte di sostegno economico. Molte hanno sofferto per mano dei terroristi e altre sono state trucidate per aver osato sfidare i tabù sociali alla ricerca di sostentamento. Un esempio è l’assassinio dell’avvocatessa e attivista per i diritti umani Salwa Bugaigish, uccisa mentre usciva dal seggio elettorale durante le elezioni del febbraio 2014 soltanto per aver osato sfidare il gruppo terroristico che considera le donne semplicemente delle schiave sottomesse agli ordini del marito tra le mura domestiche. Intisar Al-Hosari, un’attivista per i diritti umani, è stata un’altra vittima di queste violenze, uccisa nel 2015 dagli stessi gruppi terroristici per aver fatto sentire la sua voce a sostegno dell’uguaglianza di genere. Resta inoltre sconosciuto il destino di Sihma Segedel, psichiatra e donna politica, rapita nella città di Bengasi nel 2019 per aver condannato il signore della guerra Khalifa Haftar. Ugualmente, l’eminente avvocatessa e attivista Hanan al-Barasi è stata assassinata in una delle strade più affollate di Bengasi nel novembre 2020, nel periodo del Dialogo nazionale. Il giorno prima della sua uccisione si era schierata contro le regole familiari in Libia e aveva accusato Haftar di coinvolgimento in casi di corruzione e abuso di potere.

In Libia, le donne devono sopportare questo calvario anche a causa del radicamento della cultura beduina tradizionale e della struttura sociale maschilista e sciovinista. È esemplare il caso di Najla al-Manqoush, già membro del Consiglio nazionale per la transizione e attuale Ministro degli Esteri, da molti considerata il futuro Primo Ministro libico, che fu condannata da Al-Sadiq Al-Ghariani, l’ex Mufti della Libia, per le sue opinioni politiche progressiste che causarono la sua espulsione dalla capitale, Tripoli.

Questa situazione di instabilità politica e di anarchia ha privato le donne libiche dell’emancipazione politica, della possibilità di progredire negli studi e dell’indipendenza economica conquistata negli ultimi anni, sospingendole di nuovo sull’orlo del disastro sociale. Il colonnello Gheddafi infondeva nelle donne uno spirito marziale ed era sempre circondato da guardie del corpo donne. Per le ragazze sopra i 15 anni l’addestramento militare era obbligatorio. Il numero di donne iscritte all’università superava quello degli uomini e le ragazze avevano migliori prospettive di carriera. Ugualmente, il numero di donne con una laurea di primo livello era all’incirca lo stesso degli uomini, mentre il 77% delle giovani al di sotto dei 25 anni seguiva corsi di studio superiori rispetto al 67% degli uomini.

Ciò che aggrava ulteriormente la crisi femminile nel caos libico è il ritardo nei matrimoni: le donne faticano a trovare uomini da sposare, visto che oggi la maggior parte dei giovani sono disoccupati. Nel corso degli anni, il numero di libici che hanno rinviato il matrimonio è aumentato. Questa situazione diventa ancor più critica se si considera che in Libia la metà della popolazione ha meno di 30 anni. Il governo si sta impegnando molto per offrire un bonus matrimoniale e recentemente il governo di unità nazionale di Abdel Hamid Dbeibah ha stanziato un pacchetto economico speciale per superare la crisi. Molti criticano questa politica perché ritengono che non sia una soluzione duratura e che la causa alla radice della crisi sia molto più profonda e strutturale. Altri invece la considerano un’opportunità per impedire ai giovani di unirsi alla milizia.

Tra tanto orrore e terrore, troviamo alcune storie di donne che non hanno permesso al clima di violenti disordini di privarle del ruolo di mediatrici che spetta loro secondo le tradizionali norme tribali e socioculturali. Una di queste promotrici di pace nascoste è Aisha al-Bakoush, originaria di una città-oasi di Sebha, una capo infermiera che nel corso degli anni ha ampliato la sua missione di cura dal solo campo medico ai conflitti armati. Nel 2013, quando alcuni miscredenti fecero irruzione nel suo ospedale, lei riuscì a scacciarli dall’ospedale, salvando la vita a molti pazienti. La stessa Aisha al-Bakoush è stata invitata da un leader tribale del Fezzan a fare da mediatrice nei colloqui con gli avversari e ha anche negoziato con successo una tregua tra le tribù Tebu e Awlad Suleiman.

La al-Bakoush dichiara di portare avanti l’eredità di Hajji Zohra, una donna della tribù Warfalla (ritenuta la più numerosa e una delle più potenti tribù libiche: formata da un milione di individui su una popolazione totale di sei milioni di abitanti, occupa l’area intorno alle città di Sirte e Bengasi), a cui si rivolgevano sempre le parti in conflitto e le cui decisioni erano considerate vincolanti. Ciò testimonia il fatto che la funzione di mediatrici delle donne è organica alla cultura libica. La storia del ruolo femminile nella risoluzione dei conflitti non fa parte della storia scritta nazionale ma della tradizione orale. Le donne in Libia non la definiscono “mediazione” ma “lavoro per la comunità”, sono conosciute come Sheikhah e godono di grande rispetto. Questa eredità è ancora viva sotto forma di diverse organizzazioni gestite da donne per ristabilire la pace nel paese. Uno di questi organismi è il Peace Making Network, il cui obiettivo è impedire ai bambini di unirsi a gruppi estremisti e imbracciare le armi.

Rida Al-Tubuly, co-fondatrice di Together We Build, è stata nominata tra le cento donne più influenti al mondo nel 2019. La sua missione è stabilire la democrazia e la pace in Libia, e la sua organizzazione è anche impegnata nell’emancipazione femminile. Per lei la questione della partecipazione delle donne all’evoluzione politica in Libia non è una mera questione di femminismo, ma è anche un riflesso della cultura e della tradizione nazionale, e ritiene che il maschilismo e il militarismo escludano le donne dal processo di pace. Sostiene che le donne debbano essere parte del dialogo perché possiedono spiccate capacità negoziali legate alla loro cultura, e che il loro coinvolgimento nel processo politico ridurrebbe il livello di violenza contro le donne. Al culmine della guerra civile tra le forze di Alba libica e quelle di Operazione dignità nel 2015, la Nalut Municipality Partnership ha organizzato un concorso nazionale di pittura con l’obiettivo di unire i libici e inviare un messaggio di pace a tutto il paese.

Molte donne sono entrate nel parlamento libico in occasione delle elezioni che hanno fatto seguito al periodo delle rivolte. Fatima Baqy ha fondato il partito Al Karamah e ha conquistato il seggio femminile nelle elezioni municipali di Tripoli. Ha vinto le elezioni comunali di Bengasi nel 2013. Nel 2021, inoltre, per la prima volta nella storia della Libia, cinque donne sono state nominate ministro nel governo di transizione guidato da Abdelhamid al-Dabaiba, sostenuto dalle Nazioni Unite.

Nonostante queste iniziative e la riappropriazione del loro ruolo tradizionale durante questa crisi, le donne libiche devono fare ancora molta strada per ritrovare pace e stabilità, e forse questo sarà realizzabile solo con la cooperazione degli uomini, che al momento non sembrano voler perseguire la via della ragionevolezza per garantire prosperità alle prossime generazioni.

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Foto Credits: UN Photo/Amanda Voisard, Attribution-NonCommercial-NoDerivs 2.0 Generic (CC BY-NC-ND 2.0), attraverso Flickr