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Rohingyafobia e voci inascoltate di rifugiati durante la pandemia di COVID-19

Chapparban Sajaudeen

Ho sostenuto nell’editoriale della rivista newyorkese Café Dissensus che “i Rohingya non sono né la ‘minoranza più perseguitata’ né degli ‘apolidi’ ma piuttosto sono vittime di una precisa organizzazione sociale e legale che li ha ridotti alle condizioni in cui vivono oggi”. Le radici della violenza contro i Rohingya sono profondamente radicate nell’odio sviluppatosi contro i musulmani in Myanmar, la cui origine risale all’XI secolo. I processi esclusivisti del nazionalismo culturale hanno accelerato l’affermazione del buddismo come religione nazionale, cosa che ha portato alla creazione, discriminazione ed eliminazione di minoranze, considerate come ‘altre’ ed ‘estranee’ rispetto alla maggioranza nazionalista maggioritariamente buddista. Il periodo socialista (1970-inizio anni ’90) non ha incoraggiato il buddismo come religione di stato ma con l’ascesa al potere della Giunta militare (dalla fine degli anni ’90 all’inizio degli anni ’10 del XXI secolo) la separazione, la discriminazione, la tortura e l’uccisione dei musulmani sono diventate minacciosamente visibili. La costruzione di immagini e stereotipi sui Rohingya, descritti come estremisti, terroristi, islamisti, fondamentalisti, radicali, ecc. ha portato le masse ad essere più feroci nei confronti dei Rohingya e i media a giustificare la grave violazione dei diritti umani contro questa comunità svantaggiata. Ho pensato di racchiudere la costruzione degli stereotipi, dell’odio, della paura irritante e della violenza contro questa comunità nel termine Rohingyafobia.

Una fobia che nasce dalle tracce di quella che oggi è apertamente chiamata islamofobia. Uno dei motivi più concreti della persecuzione di questa comunità, infatti, è la sua identità musulmana. La legge sulla cittadinanza birmana (1982) ha legalmente discriminato e privato i Rohingya della cittadinanza escludendoli dalle ‘razze nazionali’. L’identità religiosa è il motivo principale per cui non sono inclusi in queste ‘razze nazionali’. La violenza odierna ha la sua genesi nei sentimenti antislamici dei buddisti conservatori e nel loro desiderio di omogeneizzare culturalmente le identità birmane perseguitando ‘l’altro descritto come diverso’. I musulmani vengono giudicati attraverso la modernità monoculturale comunitaria buddista, che è stata per molto tempo incoraggiata e rinforzata. Coloro che sono culturalmente ‘diversi’ sono costretti a adattarsi o ad andarsene e i musulmani Rohingya sono vittime di questo non solo perché sono ‘altri’ ma anche perché sono ‘un altro facilmente identificabile’. La costruzione della loro identità in associazione con estremismo, terrorismo, militantismo, islamismo, ecc. nel passato recente ha anche coinciso con la retorica globale della ‘guerra al terrorismo’. Le immagini condivise del musulmano come terrorista e dell’Islam come estremista hanno fornito il pretesto teorico per sospettare i musulmani fin dall’11 settembre e bersagliarli in nome della ‘sicurezza nazionale’. L’utilizzazione di queste parole ed immagini nella costruzione e nella rappresentazione dell’identità Rohingya in Myanmar ha spianato la strada alla canalizzazione dei sentimenti anti-Rohingya e anche ad una sostanziale accettazione delle gravi violazioni dei loro diritti umani perpetrate fino ad oggi.

Le immagini e gli stereotipi, inoltre, hanno continuato a migrare con i Rohingya anche in esilio, in paesi come l’India e il Bangladesh, in cui sono sempre sospettati e perfino il loro diritto ad essere rifugiati è stato violato, aggiungendo nuovi motivi di vulnerabilità alla loro esistenza.

I sentimenti antimusulmani esistevano nella Birmania britannica precoloniale e hanno continuato ad esistere durante la colonizzazione britannica e più violentemente negli ultimi decenni a causa delle crescenti correnti di islamofobia nell’Asia meridionale. Ci sono numerosi esempi di violenza anti-musulmana in questo Paese, a partire dall’uccisione di due figli di Byat Ta (alias fratelli Sywe Byin) nel 1050 d.C. [furono uccisi solo perché musulmani (Pe Maung Tin et al.1960) ] ai recenti genocidi perpetrati durante il governo dell’esercito nel 2017. Durante le ondate delle rivolte antimusulmane del 2017, circa 1 milione di donne, bambini e uomini Rohingya sono fuggiti dalle loro case per persecuzione, confisca di proprietà e terre, stupri, uccisioni, incendi dolosi, saccheggi, molestie, abusi sessuali, schiavitù, limitazioni alla mobilità, matrimoni forzati, limitazioni del diritto all’educazione e alla libertà, ecc. Quello che si stava consumando contro i Rohingya è stato definito dall’ONU un “esempio da manuale di pulizia etnica”. Queste atrocità vengono identificate anche nei rapporti di inchiesta delle Nazioni Unite come “crimini contro l’umanità” e “genocidio”.

La violenza contro i musulmani in Birmania è diventata visibile a partire dalle rivolte antimusulmane degli anni Quaranta. (Yegar: 1972). Nel 1997, le rivolte di Mandalay hanno fornito una chiara dimostrazione di violenza contro i musulmani, provocando uccisioni, stupri, saccheggi, incendi dolosi, incendi di luoghi e simboli religiosi, inclusi i Corani, la demolizione di moschee e la loro trasformazione in caserme militari, ecc. La ricerca dell’Università del Maryland intitolata “Minorities at Risk: cronologia per i Rohingya (Arakanese) nei documenti della Birmania” racconta: solo a Mandalay, 18 moschee sono state distrutte e aziende e proprietà private di musulmani sono state vandalizzate. Copie del Corano sono state bruciate”.

Le organizzazioni buddiste di estrema destra come ‘Ma Ba Tha’ (un nome abbreviato birmano per l’Associazione per la Protezione della Razza e della Religione e Comitato per la Protezione della Nazionalità e della Religione) e il ‘Movimento birmano 969’, guidato dal monaco anti-musulmani Ashin Wirathu, assomigliavano al KKK, PEGIDA e Act America! della controparte occidentale, che alimentavano i sentimenti anti-islamici e diffondevano l’odio contro i musulmani. Sebbene il Ma Ba Tha e le organizzazioni affiliate siano state costantemente criticate da alcuni monaci buddisti progressisti come Kar Wi Ya dentro e fuori il Myanmar, esse continuano ad avere una loro devastante influenza sulle masse birmane su cui infondono sentimenti collettivi di odio e che istigano alla persecuzione di questa comunità.

Le fobie sui Rohingya hanno prevalso non solo in Birmania ma anche in altri paesi come il Bangladesh e l’India, dove i Rohingya si sono rifugiati, ma in questi paesi la fobia ha assunto caratteristiche differenti. In India, i Rohingya devono affrontare molteplici sfide e discriminazioni. Uno dei motivi ovvi è la loro identità religiosa e l’essere stereotipati e descritti come terroristi, estremisti e militanti. Paesi come il Bangladesh sospettano i Rohingya soprattutto per quest’ultima ragione. La cosa più angosciante dell’esperienza dei Rohingya non è che siano perseguitati in madrepatria a causa della loro identità religiosa ma che siano discriminati anche nei paesi dell’Asia meridionale dove cercano rifugio. La mancanza di un quadro giuridico chiaro contribuisce allo sfruttamento dei rifugiati, non solo in India ma nell’intero subcontinente, ad eccezione dell’Afghanistan. In paesi come l’India, essi sono discriminati legalmente a causa della loro identità religiosa grazie a leggi riprovevoli come il recente Citizenship Amendment Act 2019 (Emendamento della legge sulla cittadinanza- è un emendamento che garantisce la cittadinanza ai rifugiati in base alla religione. Assegna selettivamente la cittadinanza indiana a quasi tutti i rifugiati perseguitati provenienti dai paesi dell’Asia meridionale, eccetto i musulmani. Ciò ha provocato aspre critiche e proteste in tutto il Paese e nel mondo, per aver reso accessibile a tutti il carattere distintivo che rappresenta il possedere la cittadinanza della più grande repubblica democratica mondiale).

Il dibattito sui rifugiati Rohingya in India continua e molte persone hanno partecipato a manifestazioni in favore e contro di essi. Sebbene i rifugiati Rohingya in India costituiscano un numero molto piccolo (17.000 secondo The Hindustan Times, UNHCR 2019), essi sono strumentalizzati e considerati come un peso per l’economia e una minaccia per la sicurezza nazionale. Ma allo stesso tempo, l’India ha ospitato un gran numero di rifugiati provenienti da paesi vicini come Sri Lanka, Tibet, Bhutan, Myanmar, Bangladesh, Afghanistan, Pakistan, ecc. In precedenza, il riconoscimento della cittadinanza era basato sull’umanità, ma il recente emendamento della legge sulla cittadinanza ha incomprensibilmente legato il procedimento e la concessione della cittadinanza alla mera religione dei rifugiati. Il dato più preoccupante qui è la mutevolezza delle dinamiche politiche e comunitarie del riconoscimento della cittadinanza, che sottintendono l’emergere del comunalismo in Asia meridionale e anche dell’islamofobia, che non risparmia le comunità più vulnerabili, come quella dei rifugiati.

A causa del crescente comunalismo, un campo profughi Rohingya a Nuova Delhi è stato ridotto in cenere nell’aprile 2018, dopo aver subìto quattro tentativi di incendio in sei anni. Ironicamente, l’attentato è stato orgogliosamente rivendicato da un leader di destra, che ha affermato di aver appiccato il fuoco. Il quotidiano The Times of India ha riportato l’incidente osservando: “Una denuncia penale è stata presentata contro il leader dell’ala giovanile del BJP, Manish Chandela, per aver presumibilmente ammesso sui   social media di aver bruciato un campo profughi Rohingya nella capitale nazionale domenica scorsa” (TOI).

I rifugiati Rohingya non hanno potuto vivere in pace nemmeno durante il lockdown mondiale causato dalla pandemia di COVID-19. Come già in altre occasioni, in mezzo alla crisi globale dovuta al nuovo coronavirus sono stati vittime di discriminazioni e sospetti. L’ascesa dell’islamofobia in India durante la crisi del COVID ha fatto crescere il sospetto che i musulmani diffondessero il coronavirus nel Paese. Un’intera campagna mediatica è stata costruita contro di loro, usando frasi provocatorie come “corona bomb”, “corona jihad”, “bio jihad” ecc. La Tablighi Jamaat, una delle correnti musulmane, con sede a Nuova Delhi, ha organizzato una regolare congregazione prima del blocco nazionale all’inizio di marzo 2020 e questo è stato letto dai media islamofobici come un deliberato tentativo di diffondere il Coronavirus attraverso la catena di trasmissione umana. Le persone associate a questo evento sono state sospettate e arrestate, incluso un professore universitario. Alcuni rifugiati Rohingya, sospettati di far parte di quella congregazione, sono stati identificati e rintracciati. I media hanno aggiunto benzina al fuoco di islamofobia e rohingyafobia. Il Ministero dell’Interno ha emesso avvisi agli Stati affinché tutti i Rohingya che avevano partecipato a quella funzione fossero testati per il COVID-19.

Ci sono stati episodi di discriminazione contro questa comunità anche durante il lockdown. Mohammed Shakir, 27enne, uno degli intervistati in un’intervista con Pooja Singh ha riferito che “Nel momento in cui [i datori di lavoro] scoprono che sono un Rohingya, dicono che sono una “corona bomb” e si rifiutano di darmi lavoro”. Uno dei rifugiati Rohingya dice: “C’è una clinica privata vicino a uno degli insediamenti Rohingya a Delhi, ma quando il medico lì ha scoperto che eravamo Rohingya, si è rifiutato di curarci perché non eravamo cittadini indiani”. (Amnesty International – India). Durante il lockdown, i rifugiati Rohingya hanno avuto difficoltà ad ottenere lavoro, cibo e altri beni essenziali come disinfettanti e maschere di protezione. Non è stata prestata loro molta attenzione perché erano rifugiati, musulmani e rohingya allo stesso tempo.

Pertanto, durante il blocco mondiale da COVID-19 essi hanno combattuto e lottato contro la fame, l’odio, la fobia e il virus contemporaneamente. Jaffar Ullah dice ad Al Jazeera: “Solo poche famiglie hanno saponi nel nostro slum, la maggior parte di loro non può permettersi di comprarne uno” (Al Jazeera). Altri partecipanti hanno detto che la fame prenderà i Rohingya prima del coronavirus. Sayed Ullah dal campo profughi del Bangladesh ha detto: “La maggior parte di noi non sa cosa sia questa malattia. La gente ha solo sentito dire che ha ucciso molte persone. Non abbiamo Internet per sapere cosa sta succedendo”, “Noi confidiamo nella misericordia di Allah “(Naik n.p.).

In Bangladesh, ci sono circa un milione di rifugiati Rohingya, per lo più a Cox’s Bazar, che soffrono la fame, povertà, malnutrizione, arresto della crescita, sono sospettati e sotto sorveglianza. La povertà estrema ha portato alcuni di loro a scegliere mezzi di sussistenza illegali, tra cui spaccio e traffico di droga. Inoltre, sono sospettati di essere coinvolti in attività terroristiche ed estremiste perché alcuni sono stati coinvolti in attività militanti a Rakhine, in Myanmar. Le immagini e gli stereotipi dei Rohingya come violenti, separatisti, estremisti, terroristi, militanti, ecc. continuano ad accompagnare questa comunità anche nei paesi in cui cercano rifugio.

In poche parole, i Rohingya sono presi di mira a causa della loro identità culturale e religiosa e a causa della loro identità ‘artefatta’ di estremisti e terroristi, non solo nella loro madrepatria ma anche nei paesi che li ospitano.

Pertanto, la rohingyafobia è il risultato sia dell’islamofobia che della fobia del terrore, un nuovo episodio nel libro di testo del crimine e dell’odio contro altri esseri umani.

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Foto Credits: United to End Genocide – Attribution-NonCommercial-NoDerivs 2.0 Generic (CC BY-NC-ND 2.0) Flickr