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Libano: la solidarietà nei campi dei rifugiati palestinesi

Astolfoni Fabrizio

Lo stato di emergenza causato dal Covid-19 e il conseguente lockdown hanno colpito duramente il Libano. La disoccupazione estremamente diffusa, la crisi finanziaria (la lira libanese ha perso il 60% del suo valore) e le proteste contro il governo, che continuano dall’ottobre del 2019, hanno messo in crisi l’intero paese. Questa difficile situazione si riflette, ovviamente in maniera ancor più drammatica, sui campi profughi palestinesi che da decenni versano in condizioni di estremo disagio economico e sociale.

Tra le diaspore palestinesi in Medio Oriente, quella in Libano si distingue per non aver ricevuto alcun tipo di integrazione da parte del paese ospite. Privi di qualunque diritto politico, civile o sociale, i rifugiati palestinesi in Libano sono distribuiti nei dodici campi “ufficiali” riconosciuti dal governo, sparsi su tutto il territorio libanese. Ma a questi vanno ad aggiungersi anche i cosiddetti campi informali, cioè gli assembramenti urbani o semi-urbani che si sono formati spontaneamente nel tempo, senza alcun riconoscimento ufficiale.
Nonostante le difficoltà di questa situazione, anche in questi mesi segnati dalla pandemia  si sono verificati (come già in passato) episodi coi quali gli abitanti dei campi hanno dimostrato di essere capaci di creare legami e attuare azioni basate sullo spirito di solidarietà, ad esempio consegnando aiuti alimentari e beni di prima necessità alle famiglie più bisognose, anche quelle di residenti non ufficiali dei campi. Questi insediamenti infatti sono popolati da milioni di sfollati e non ospitano soltanto palestinesi ufficialmente registrati, ma anche immigrati siriani, sudanesi, cingalesi e filippini.

E’ proprio la presenza dei non-palestinesi a suggerirci di riconsiderare l’abituale percezione dei campi di rifugiati. Visti solitamente come spazi di relegazione urbana, essi fanno invece pienamente parte del tessuto urbano della città di Beirut, e costituiscono uno spazio “di transito permanente”.

Storia dei campi per rifugiati in Libano  

Ricostruire la storia dei campi palestinesi di Beirut è fondamentale per comprendere meglio quanto sia inesatto considerarli “temporanei”.

Nel 1948 la Nakba (l’esodo forzato della popolazione palestinese causato dall’invasione israeliana) portò circa 100.000 persone, provenienti soprattutto dalle confinanti province palestinesi di Acri e Safad, a spostarsi in Libano e stabilirsi in sedici campi stabiliti dall’UNRWA (l’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei rifugiati palestinesi nel Vicino Oriente), dodici dei quali sono tuttora funzionanti.

Fin dai primi anni, la popolazione dei campi prese ad aumentare rapidamente, sia per i continui arrivi di sfollati provenienti dai territori occupati da Israele, sia per propria crescita demografica. Il governo libanese, da sempre insofferente rispetto al continuo afflusso di sfollati musulmani, prevalentemente sunniti, iniziò ad adottare atteggiamenti decisamente ostili. Oltre a mettere in atto varie politiche sfavorevoli ai palestinesi (fu ad esempio proibito loro l’accesso all’educazione pubblica e vietato l’esercizio di alcune professioni al di fuori dei campi) il governo del Libano promulgò norme che vietavano ai palestinesi di edificare strutture permanenti di abitazione all’interno dei campi, con l’eccezione delle tende distribuite dall’UNRWA.

Le tende non erano ovviamente sufficienti quando le condizioni climatiche diventavano più difficili, e gli abitanti dei campi attuarono così varie strategie, per soddisfare le necessità abitative di una popolazione sempre in aumento. Vennero costruiti muri con lastre di ferro, all’interno delle tende, poi sostituite con mattoni di zinco, e i rifugi inizialmente costruiti col fango furono rimpiazzati gradualmente da costruzioni di cemento, con un processo molto complicato di gestione e occupazione degli spazi. All’atteggiamento ostile da parte delle autorità libanesi si contrapponeva  una sorta di accettazione di un esilio senza fine, simboleggiato proprio dall’uso del cemento nelle costruzioni.

I campi si svilupparono dunque come enclaves, all’interno delle periferie urbane della capitale. Mancavano spazi verdi, gli alloggi erano del tutto inadeguati, ed erano distanti dai mercati e dalle possibili opportunità di lavoro, ovviamente irregolare. Nonostante ciò, si trattava di alloggi a basso costo e la domanda crebbe enormemente, sia da parte delle famiglie di rifugiati palestinesi che da parte di altri migranti, tanto che i campi (non potendo espandersi orizzontalmente per i divieti imposti dal governo) si svilupparono in verticale, aggiungendo nuovi piani alle precarie strutture già esistenti.
Alla fine della la guerra civile che sconvolse il Libano tra il 1975 e il 1989  (impossibile non ricordare il massacro di Sabra e Shatila attuato nel 1982 da falangisti cristiani, nel quale morirono migliaia di civili palestinesi e sciiti) la città di Beirut era quasi completamente distrutta. Il governo libanese commissionò progetti di ricostruzione delle aree del centro città e dei quartieri finanziari, ignorando però le periferie. Ciò portò, di conseguenza, anche alla creazione di moltissime opportunità di lavoro per la manodopera a basso costo. Il particolare rapporto esistente all’epoca tra Siria e Libano causò una forte migrazione di lavoratori siriani verso la capitale libanese, aumentando così il numero di persone che abitavano nelle periferie. Inoltre, sempre come conseguenza della guerra civile, migliaia di sfollati libanesi (per la maggior parte sciiti dei villaggi rurali, contadini, o rifugiati palestinesi provenienti dai campi fuori da Beirut) furono costretti a trasferirsi nella capitale, iniziando ad occupare anche le costruzioni danneggiate dalla guerra nel centro della città.

Lo scoppio della guerra in Siria nel 2011 (con conseguente afflusso di sfollati a Beirut e l’assenza di azioni in merito da parte del governo libanese) ha segnato il  momento di maggiore difficoltà, per la già drammatica situazione abitativa dei campi di rifugiati palestinesi.

I campi di rifugiati come spazio di solidarietà

L’aumento incessante della popolazione dei campi, dovuto all’immigrazione di lavoratori siriani, all’arrivo di libanesi provenienti dalle campagne, e al crescente numero di immigrati asiatici (provenienti in particolare dal Bangladesh) e di sfollati della guerra civile in Siria, da una parte ha reso i campi sempre più urbanizzati, ma dall’altra ha aggravato i problemi dovuti alla mancanza di sicurezza, di servizi e di infrastrutture. Inoltre, con la crescita dei prezzi degli affitti causata dall’aumento della domanda, molte famiglie palestinesi hanno preso a trasferirsi e per la prima volta è sembrato che i palestinesi si avviassero a diventare un gruppo minoritario, all’interno dei campi. La coabitazione tra differenti gruppi in condizioni fortemente disagiate ed il senso di abbandono, sia da parte delle autorità governative che da parte delle agenzie umanitarie, ha contribuito ad aumentare le tensioni. Ad esempio, i siriani trasferitisi nei campi sono stati percepiti come una minaccia per la moralità dell’ambiente e per le donne palestinesi.
A dispetto di tutti questi problemi, i campi profughi costituivano comunque i soli luoghi di abitazione che queste comunità erano in grado di permettersi economicamente, ed i soli nei quali, in qualche modo, potevano trovare aiuto e sostegno.
Il caso del campo di Baddawi, nel nord del Libano, è esemplare. Costruito negli anni Cinquanta come campo profughi palestinese, con una popolazione di 15.000 persone, oggi è completamente inserito nel tessuto urbano della circostante città di Tripoli. Col tempo ha visto quasi raddoppiare i suoi abitanti, in particolare dopo che gli scontri tra Fatah Al-Islam (un movimento armato jihadista salafita) e l’esercito libanese hanno distrutto il vicino campo profughi di Nahr el-Bared e sfollato i rifugiati palestinesi che vi risiedevano fin dal 1949. Un ulteriore aumento di popolazione si è verificato quando sono stati ospitati sfollati provenienti dalla Siria a causa della guerra, che comprendevano anche palestinesi e iracheni.

Nonostante l’estrema povertà del campo (e gli scontri tra differenti fazioni politiche per il controllo interno), nella percezione dei “nuovi” rifugiati il campo di Beddawi ha rappresentato la destinazione finale della loro fuga in Libano. Dietro questa visione vi sono motivi diversi, come la relativa sicurezza provvista dai campi di rifugiati, a fronte della totale assenza di una politica di campi per i siriani in Libano, che li pone in una condizione legale aleatoria e poco protetta.

Un altro caso esemplare è stato lo sfollamento, avvenuto nel 2006, di più di un milione di civili libanesi a causa del conflitto tra Israele e il partito libanese Hezbollah. Molti di loro hanno cercato rifugio nei campi palestinesi di Rashidieh e di El-Buss, nel sud del paese, che non erano obiettivo di bombardamenti. I comitati dei campi si organizzarono per ospitare gli sfollati, offrendo loro spazio e risorse, pur con tutte le limitazioni del caso.

Anche nel 2020 – nonostante l’emergenza legata al Covid-19, le forti misure di confinamento imposte dal governo (messe in atto peraltro senza alcun sostegno economico da parte del governo stesso) e la crisi economica sempre più dura –  si sono registrati diversi esempi di iniziative di solidarietà attuate dagli abitanti dei campi profughi. Sono infatti centinaia le famiglie bisognose (palestinesi, siriane o di migranti) ad aver ricevuto donazioni da parte delle associazioni palestinesi. Confezioni di cibo, bombole del gas e altri beni di prima necessità sono stati distribuiti in primavera, dopo l’inizio della pandemia, attraverso diverse campagne di raccolta fondi, per aiutare le famiglie messe più in difficoltà dalle misure governative.

Un genere di iniziative cui si è assistito anche nell’ultimo agosto. Dopo l’esplosione di un deposito nel porto di Beirut, che ha provocato la distruzione dell’area circostante, gli abitanti dei campi di rifugiati si sono organizzati con squadre di volontarie e volontari, che si sono recati nei quartieri di Gemmayzeh, Mar Mikhael e Bourj Hammoud e hanno rimosso le macerie, ripulito le strade dai detriti e distribuito cibo, materiali igienici, medicine e vestiti alle migliaia di sfollati che hanno perso la casa.
I campi dei rifugiati non sono entità fisse e immutabili, ma spazi estremamente porosi, nei quali si sovrappongono persone di diversa provenienza, e in tempi differenti. Per i rifugiati il campo rappresenta anche un vero e proprio spazio di solidarietà e opportunità, da condividere con altri rifugiati. Una prospettiva certo più allettante rispetto a quella di vivere isolati in una qualunque città libanese, privi di ogni diritto o protezione. Allo stesso tempo, è importante sottolineare la capacità di azione e di iniziativa dei gruppi marginalizzati (palestinesi, siriani o immigrati da altri paesi), che dimostrano uno sforzo per integrarsi nel contesto sociale e politico, anche durante l’attuale fase di emergenza per il Covid-19.

Foto Credits: EU Civil Protection and Humanitarian Aid. Attribution-NonCommercial-NoDerivs 2.0 Generic (CC BY-NC-ND 2.0) attraverso Flickr