Afghanistan Opinioni

“Chiamami col mio nome”: una conquista storica per le donne afghane

Ahadolla Hoseiny

Le donne afgane avranno il loro nome sulla carta d’identità.
Fino ad oggi sui loro documenti si scriveva “figlia di”, “moglie di”, o “madre di”, senza nessun riferimento alla loro identità. Solo quello di appartenenza a qualcun altro. Anche sui certificati di nascita dei figli è indicato soltanto il nome del padre e, in alcune zone del Paese, perfino sulle tombe non ci sono i loro nomi. La loro identità personale è definita in relazione ad un uomo.
Il successo di questa battaglia è opera di un gruppo di attiviste afghane, che tre anni fa ha iniziato la rivendicazione per vedere riconosciuta l’identità delle donne sui documenti personali. Avevano lanciato tramite i social network l’hashtag #whereismyname, e ora hanno vinto: il governo afghano ha annunciato infatti che è stata approvata una legge che prevede la modifica dei registri anagrafici, per includere il nome delle donne sulle loro carte d’identità e sui documenti dei figli.
Si tratta di una vittoria civile significativa, in un Paese in cui le donne hanno pochi diritti e la loro libertà è continuamente limitata e minacciata.

La perdita dell’identità personale femminile aveva avuto inizio nel 1996, con l’ascesa al potere dei talebani: studenti islamici cresciuti nelle madrasse del Pakistan e addestrati dai servizi segreti di Islamabad, che presero il potere in un paese dilaniato dalla guerra civile e imposero una specie di emirato afghano riconosciuto da Pakistan, Emirati Arabi e Arabia Saudita.
In soli due anni l’Afghanistan vide il collasso del suo sistema d’istruzione, e di quello economico (già fragile per la dura carestia in corso) basato essenzialmente sulla produzione ed esportazione dell’oppio. Fu imposta la proibizione di qualunque attività ricreativa come musica, teatro e canto, con particolare durezza verso la popolazione femminile.
Durante i cinque anni del loro governo (1996-2001) i talebani imposero una forma estremamente rigida della sharia, privando la popolazione – in particolare le donne – dei più elementari diritti. Fu proibito loro di “esistere”, cancellandole dalla società: furono private del loro volto, nascoste dietro il burqa o i vetri oscurati delle case, e picchiate o lapidate per ogni minima violazione di quella che i talebani interpretavano come legge coranica.
Durante il governo dei talebani, alle donne fu negato il diritto all’istruzione, al lavoro, alla salute, ed anche alla giustizia: una donna non poteva fare ricorso a un tribunale se non tramite un membro maschio della famiglia, e inoltre la sua testimonianza valeva (ed è ancora così) la “metà” di quella di un uomo. Furono private della vita relazionale, e fu proibita loro ogni forma di divertimento. Le donne sorprese a disattendere quei divieti furono torturate, violentate, perfino lapidate.

Prima della guerra civile e dell’instaurazione del regime dei talebani il Paese – nonostante il suo retaggio culturale patriarcale – aveva cominciato ad aprirsi alla modernità e ad avviare diverse riforme per favorire il diritto di voto e di partecipazione delle donne afghane alla vita politica e sociale.
Una maggiore apertura c’era stata negli anni della dominazione sovietica (1979-1989). In particolare, venne data molta importanza all’alfabetizzazione ed istruzione delle bambine, e furono introdotte una serie di riforme volte alla laicizzazione del Paese. Le donne cominciarono ad inserirsi nella vita civile: costituivano il 40% dei medici e il 70% degli insegnanti, ed il parlamento arrivò ad avere il 30% di presenza femminile.

Con l’ascesa al potere dei fondamentalisti nel 1992 quei diritti vennero progressivamente ridotti, e poi l’arrivo dei talebani li negò definitivamente. Le donne afghane cessarono di “vivere”.

Dopo la sconfitta dei talebani nel 2001 si era aperta una speranza per il futuro dell’Afghanistan. Significativi miglioramenti sono stati introdotti, ma l’insicurezza del Paese – ancora intrappolato tra guerra e attacchi terroristici – ha interrotto il percorso di sviluppo e di emancipazione delle donne, e la violenza e la discriminazione di genere hanno ripreso vigore.

In particolare, è ancora molto forte, soprattutto nelle zone rurali, il legame con una tradizione fondata su antichi e radicati costumi, che guidano lo svolgersi della vita quotidiana. Nella società afghana l’uomo è il centro della famiglia, della politica, dell’economia, della cultura. Nei villaggi, soprattutto in quelli dell’interno, tutto è regolato dal consiglio dei capi dei villaggi, che agiscono secondo le leggi tribali del “pashtunwali”. Molte usanze della tradizione contrastano con i diritti delle donne. Viene ancora praticata la poligamia e resistono tabù e leggi arcaiche, come la pratica “ba’ad” (in base alla quale le donne vengono date in compensazione di un crimine commesso da un maschio della famiglia) o il matrimonio forzato in età infantile con uomini adulti, e molte forme di violenza domestica, tra cui stupri e mutilazioni. Secondo un rapporto UNICEF del 2019, molte bambine afghane vengono ancora date in sposa prima dei 16 anni.
Se nelle zone del paese che sono sotto il controllo occidentale la condizione delle donne – soprattutto per le nuove generazioni – è certamente migliorata (il 25% delle ragazze è alfabetizzato), nei territori del sud controllati dai talebani o nelle province interne non è affatto così.

A distanza di oltre vent’anni anni da quel 1996 in cui il Paese piombò nel medioevo, la condizione delle donne in Afghanistan rimane tragica e gli abusi contro i loro diritti, secondo Human Rights Watch, sono tra i più gravi a livello mondiale.

I talebani hanno ormai ripreso il controllo del 60% dei distretti. In quelle zone, la popolazione è costretta a vivere di nuovo come negli anni Novanta, ed anche aree che fino a poco tempo fa erano ritenute sicure, soprattutto il nord e l’ovest del Paese, sono diventate teatro di bombardamenti e di scontri con le forze di sicurezza governative e della Nato.
Ad Achin, nella provincia di Nanghahaar, dove gli americani hanno colpito con la “madre di tutte le bombe”, si sono insediati gli uomini di Daesh. Sono quasi tutti stranieri, che non rispettano alcuna legge e trattano con ferocia la popolazione locale. Depredano, arruolano a forza i minori, violentano e rapiscono le donne.
Nei distretti governativi, peraltro, spadroneggiano i signori della guerra e della droga e vi sono diverse fazioni fondamentaliste, divise per etnie, che sono perennemente in conflitto tra loro e già prima dell’avvento dei talebani davano vita a feroci conflitti.

La missione internazionale in Afghanistan, iniziata nel 2001 per combattere il terrorismo ed al-Quaeda, includeva tra i propri obiettivi anche il ripristino e la difesa dei diritti delle donne.
Alcuni passi importanti sono stati fatti a livello legislativo. Nel 2002 è stata istituita la Commissione Afgana Indipendente per i diritti umani, nel 2004 il governo afghano ha ratificato la Convenzione delle Nazioni Unite sulle donne e nel 2009 è stata emanata la legge sulla Elimination of violence against women, che criminalizza principalmente i matrimoni forzati e qualunque altro atto di violenza domestica. È stato inoltre instituito il Ministero degli Affari Femminili.
Grazie alla Costituzione del 2004, oggi il 28% dell’Assemblea Nazionale del Parlamento è composto da donne, tre milioni di bambine vanno a scuola e circa il 20% delle donne sono inserite nel mondo del lavoro.
Ma questi progressi rimangono fragili, e negli ultimi tempi si sta assistendo a un’involuzione. L’instabilità del Paese e i costanti pericoli stanno riportando le donne a chiudersi in casa. Hanno paura di andare a scuola o al lavoro, e secondo Human Rights Watch sono tornate le violenze, come i rapimenti di ragazze durante le incursioni armate, e le donne hanno ripreso a indossare il burqa per difendere la propria incolumità.
I dati più recenti forniti da Human Rights Watch per il 2020 sono preoccupanti: l’85% delle donne è privo di istruzione. Avvengono tuttora attacchi contro le scuole, come accaduto recentemente nella provincia di Logar. La metà delle ragazze è costretta a sposarsi in maniera forzata e prima dei sedici anni, e ogni due ore una donna muore di parto. In media le donne afghane hanno sei figli, le bambine tra i 10 ed i 14 anni di età subiscono violenze fisiche e sessuali, e il 90% dei casi di suicidio riguardano le donne.

Nel 2011 uno studio condotto dalla Thomson Reuters Foundation aveva definito l’Afghanistan “il paese più pericoloso in cui nascere donna”. Oggi, nonostante la situazione sia migliorata, l’Afghanistan resta ancora un paese dove essere donna costituisce un rischio. Un segnale di speranza arriva però da tante donne afghane che vogliono correre questo rischio.
Molte di loro, in questi ultimi anni, si sono schierate in prima linea, si sono organizzate e sono diventate consapevoli dei loro diritti. Spesso la loro attività si svolge in semiclandestinità, quando non possono lavorare alla luce del sole. Promuovono programmi di alfabetizzazione e preparazione professionale per l’inserimento al mondo del lavoro, soprattutto nel campo sanitario. Alcune di loro nel 2017 sono state ricevute dal Parlamento Europeo, che le ha sostenute e ha garantito la revisione del programma di finanziamento dell’Unione Europea per l’Afghanistan, subordinandolo al rispetto dei diritti umani.

Queste donne ora sono inquiete per l’accordo di Doha fra il governo e i rappresentanti dei talebani: hanno il timore che le possa riportare di nuovo indietro, e che i molti progressi compiuti negli ultimi anni vengano annullati.
Quattrocento di loro, prima dell’incontro di Doha con cui gli Stati Uniti hanno avviato quell’accordo, hanno scritto ai talebani: “Temiamo il prezzo della pace […] tra noi ci sono ragazze ventenni che non sanno come fosse vivere sotto il vostro regime, ma anche donne anziane che invece ricordano bene cosa significhi sottostare alle vostre regole […] come abbiamo ripetutamente proposto, siamo pronte ad avere  con voi una vera discussione sui bisogni e sulle sfide del nostro Paese […] non permetteremo che il nostro posto e il nostro contributo nella ricostruzione del Paese vengano cancellati”.
I talebani hanno smentito la possibilità di un ritorno al passato. In un’intervista ad Al Jazeera farsi il portavoce della delegazione dei talebani a Doha, Suhail Shaheen, ha sostenuto: “Siamo favorevoli a che le donne lavorino e studino come previsto dalle leggi della sharia, basta che portino l’hijab … hanno anche il diritto di ricevere eredità e di scegliere i loro mariti”.
Può essere una coincidenza, ma due di quelle donne hanno di recente subito attentati. Saba Sahar, regista afghana e vicecapo delle unità speciali che si occupano dei problemi di genere, è stata ferita in un agguato a colpi di arma da fuoco a Kabul, e insieme a lei sono rimaste ferite le sue guardie del corpo. Fawzaia Koofi, ex parlamentare e membro del team incaricato di negoziare con i talebani, è stata ferita da uomini armati, sempre nella capitale.

Foto Credits: in evidenza International Women’s Day 2017 – Afghanistan: UN Women/Mariam Alimi, Attribution-NonCommercial-NoDerivs 2.0 Generic (CC BY-NC-ND 2.0), attraverso Flickr