Afghanistan Opinioni

Le invisibili sofferenze della popolazione afgana

Ahadolla Hoseiny

In tutto il mondo non si arresta la diffusione del SARS-CoV-2; se l’Europa sembra aver superato la fase più acuta della pandemia, alcune aree del globo continuano ad essere minate dalla crescita continua dei contagi ed in particolare i Paesi in via di sviluppo o quelli già colpiti da guerre.

Uno di questi è l’Afghanistan, il paese della guerra dimenticata, che la comunità internazionale considera – a torto – pacificato; afflitto da una perenne instabilità politico-militare che va avanti da oltre quarant’anni, una guerra che si esprime e colpisce senza preavviso con autobombe, granate e attacchi kamikaze, il paese è risultato ancora più impreparato all’arrivo della pandemia che ne ha ulteriormente peggiorato le condizioni di vita. L’impatto del Covid-19 sta aggravando le condizioni della popolazione che ha già iniziato a soffrire per la carenza di cibo, di forniture sanitarie e per la mancanza di acqua pulita.

L’arrivo del virus non ha modificato più di tanto la quotidianità, che è sempre la stessa: caos, violenza, paura, guerra; anzi, le parti in conflitto non hanno rispettato neanche il cessate il fuoco richiesto dal Segretario generale delle Nazioni Unite, come dimostrano gli attentati e gli attacchi delle ultime settimane

La situazione nel paese risulta essere drammatica soprattutto tra la popolazione che vive tra le montagne, nei molti villaggi isolati e nelle zone confinanti con l’Iran. Proprio dall’Iran, tra febbraio e marzo, sono rientrati più di 159.000 profughi e i primi casi di coronavirus sono stati riscontrati lì, nella provincia di Herat. I rifugiati senza alcuna fonte di reddito hanno messo a dura prova il già fragile sistema sociale e sanitario del paese; l’epidemia ha preso piede in maniera sempre più incontrollabile ed ha aggravato le vulnerabilità esistenti, con pesanti ripercussioni sulle già precarie condizioni di vita dei migranti forzati, compresi i sette milioni di bambini (secondo fonti Unicef) che prima dell’epidemia vivevano in condizioni drammatiche a causa di malnutrizione, malattie infettive e mutilazioni da guerra.

L’emergenza sanitaria è esplosa: in tutto il paese c’è soltanto un ospedale in grado di condurre i test e gli ospedali pubblici versano in condizioni fatiscenti. Secondo i dati della Banca mondiale, il paese può contare solo su 3 medici ogni diecimila abitanti (tasso che scende a 0,6 nel caso delle aree rurali), mentre gli ospedali e le cliniche internazionali sono costosissimi. Le misure di prevenzione del governo non sono sufficienti ad arrestare la pandemia; si sono attivate le ONG presenti sul territorio e l’UNHCR sta agendo con misure di prevenzione, soprattutto nelle aree dei rimpatri e lungo le frontiere, distribuendo dispositivi di protezione.

Secondo le previsioni dell’OMS c’è la possibilità che 16 milioni di persone, praticamente poco meno della metà del paese, possa venire contagiata dal virus. Attualmente il numero dei morti da coronavirus in Afghanistan, come del resto anche in Iran, è molto diverso dai dati ufficiali, come emerge da un’inchiesta del canale BBC in lingua farsi, contestato da entrambi i governi. Ma i dati sono un fatto: a sei mesi dalle prime segnalazioni la pandemia di coronavirus è dilagata in gran parte delle province e ad oggi le stime ufficiali fanno fatica a registrare i numeri esatti sia della diffusione che dei morti.

Secondo le organizzazioni umanitarie presenti nel paese i numeri potrebbero essere tragici. Gli osservatori considerano che già più della metà della popolazione potrebbe essere stata contagiata e che il numero dei morti sia indubbiamente superiore ai dati ufficiali (che all’inizio di agosto indicavano in circa 37.000 i casi di contagio confermato e in poco più di mille i decessi). Le stesse autorità governative cominciano ad ammettere  che il numero dei contagi è sottostimato, vista la difficoltà ad effettuare i test tanto per  la mancanza di tamponi e di laboratori per analizzarli, quanto per la carenza di medici e di personale sanitario; la popolazione è priva dei minimi mezzi di contenimento (mascherine, guanti, disinfettanti personali, acqua, servizi igienici); del resto è anche difficile stabilire il numero ufficiale dei morti, visto che in Afghanistan la registrazione ufficiale dei decessi non avviene regolarmente, anzi è piuttosto rara.

Già da marzo il governo ha cercato di contrastare la diffusione del virus imponendo alcune misure di contenimento che però, oltre a non essere in grado di limitare la diffusione, hanno favorito l’aumento della povertà, in quanto la maggioranza della popolazione vive con attività di lavoro giornaliero; una situazione che è andata peggiorando di giorno in giorno a causa della chiusura delle frontiere a partire da marzo. Il blocco degli spostamenti ha influito sulla mancanza di lavoro, su qualsiasi attività economica e i beni di prima necessità sono aumentati notevolmente di prezzo. Già prima della pandemia da Covid-19 il World Food Program in Afghanistan aveva rilevato che undici milioni di abitanti erano considerati gravemente a rischio dal punto di vista alimentare.

Nel paese manca la consapevolezza del rischio legato alla pandemia e il governo fatica a far rispettare il distanziamento fisico: secondo la cultura afgana ogni evento sociale – un funerale, un matrimonio, un evento religioso – vede riunirsi l’intera comunità o il villaggio, con migliaia di persone tutte ravvicinate.

L’arrivo dell’emergenza Covid-19 sembra inoltre aver rallentato o congelato il piano di pace, riportando l’Afghanistan in uno stallo politico e sociale.

I talebani si sono inizialmente dichiarati disponibili a rispettare l’accordo di pace siglato a Doha nel febbraio scorso con gli Stati Uniti, che prevede la riduzione della presenza militare americana, l’impegno dei talebani a non ospitare in Afghanistan organizzazioni terroristiche e il rilascio da parte del governo di cinquemila detenuti talebani e di mille prigionieri delle forze afgane da parte talebana. I talebani hanno inoltre accettato il cessate il fuoco definitivo richiesto dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, al fine di garantire la distribuzione degli aiuti umanitari. Proprio il 31 luglio il presidente Ghani ha annunciato che continua la liberazione dei detenuti talebani. Sebbene sia in vigore un cessate il fuoco informale, non è ancora la pace.

L’aumento della violenza è continuo:  il 25 marzo lo Stato islamico Khorasan afgano si è reso responsabile di attacchi che hanno provocato oltre cinquanta vittime tra le comunità Sikh e Sciite di Kabul; a maggio i ribelli talebani sono tornati all’offensiva in diverse zone dell’Afghanistan: hanno attaccato una base dell’esercito a Gardez, uccidendo anche diversi civili; a Kabul, in un ospedale gestito da Medici senza frontiere, oltre venticinque persone hanno perso la vita, tra cui alcuni neonati, in un attacco al reparto di maternità; cosi anche in un funerale vicino Nangarhar; altre ventitré persone, tra cui alcuni bambini, sono rimaste uccise dall’esplosione di un’autobomba e di proiettili da mortaio che hanno colpito un mercato del bestiame nella provincia di Helmad, roccaforte talebana; altre trentadue persone a giugno sono morte a Kabul  in un attentato suicida.

Lo scorso 24 aprile il presidente Ghani ha proposto nuovamente un cessate il fuoco ai talebani durante il Ramadan, ma il gruppo ha rifiutato.

Il 31 luglio si è verificato uno scontro armato a Spin Boldak, un importante passaggio di frontiera tra l’Afghanistan meridionale e il Belucistan pachistano, terreno di reclutamento dei talebani dove vivono popolazioni pashtun sia afgane che pakistane; qui ogni giorno sostano migliaia di afgani nel tentativo di passare la dogana, sia in entrata che in uscita, ed entrambi i governi in questa situazione di emergenza Covid attuano misure precauzionali di controllo e chiusura dei varchi; di fronte alla calca della gente, un inspiegabile bombardamento da parte dell’artiglieria pachistana ha procurato più di quindici morti e ottanta feriti tra i civili afghani.

L’ONU rileva un ‘’preoccupante aumento’’ della violenza, attribuendone la responsabilità per il 39% ai talebani, il 13% allo Stato islamico ed il resto alle tante fazioni in conflitto presenti sul territorio.

Il Covid-19 ormai è diventato il catalizzatore di una situazione politica, militare e sociale già incandescente e rischia seriamente di compromettere ed allungare i tempi del faticoso processo di pace; sembra che, in aggiunta alla guerra, anche questa emergenza sanitaria ed umanitaria sia finita nel disinteresse dei media e della comunità internazionale.