Cina Navigando in rete

In libreria – China and the World

Capitolo "China's Global Economic Interactions" di Barry Naughton*

Redazione - Ylenia Dente

All’interno del volume curato da David Shambaugh per Oxford University Press e intitolato China and the World, Barry Naughton spiega la crescita economica cinese degli ultimi trent’anni e si focalizza su due progetti fondamentali: la decisione di internazionalizzare il Renminbi, la valuta cinese anche nota come yuan, e la creazione della Nuova Via della Seta. Due strumenti nati dalla necessità di usare il surplus commerciale che la Cina ha accumulato negli ultimi anni. Ma come è arrivata la Repubblica Popolare Cinese (RPC), paese chiuso per anni, a essere la seconda economia mondiale e il primo partner commerciale per molti altri?

Il miracolo economico cinese è iniziato alla fine degli anni Settanta con la politica di Riforme e Apertura voluto dal leader del tempo, Deng Xiaoping. Da quel momento, per molti anni la Cina ha registrato una crescita annua del PIL a due cifre (10%); gli elementi trainanti di questa crescita furono la grande disponibilità di manodopera, gli investimenti esteri e la decisione di aprire il mercato agli altri paesi. Il basso costo del lavoro e l’alta disponibilità della sua offerta trasformarono la Cina nella fabbrica del mondo, producendo come risultato l’arrivo sul territorio cinese di numerose industrie e un alto tasso di esportazione dei beni prodotti. Inoltre, per assecondare questa domanda estera di lavoro, la politica agevolò gli investimenti diretti esteri e la crescita di numerose aziende. Non a caso l’entrata della Cina nell’Organizzazione Mondiale del Commercio (in inglese WTO) del 2001 fu fortemente caldeggiata da diversi paesi occidentali. E infatti, dai primi anni Duemila si assistette proprio ad un aumento della quantità delle esportazioni verso l’Occidente, che quadruplicarono.

Come l’autore fa notare, questo non deve far credere che la Cina fosse ormai un paese aperto, o che avesse un mercato libero. Il governo, infatti, continuò ad avere un forte controllo sul mercato interno e sulla quantità di denaro che entrava e usciva dal paese. La Cina riuscì a capire come sfruttare a proprio vantaggio l’entrata nelle diverse organizzazioni internazionali come il Fondo Monetario Internazionale o L’Organizzazione Mondiale del Commercio, ottenendone grandi benefici, dedicandosi in parallelo alla creazione di organizzazioni regionali sotto la sua influenza. Un esempio di tutto questo è l’entrata nella WTO, che ha permesso alla Cina di accedere più facilmente ai mercati mondiali, senza doversi impegnarsi in modo simmetrico a liberalizzare completamente la sua economia. Tutt’ora Pechino continua a beneficiare di clausole e agevolazioni di cui godono i paesi in via di sviluppo, pur essendo un global player di prima grandezza e potere economico. L’apertura del mercato le ha permesso di ottenere un surplus commerciale elevato (i dati del 2006 lo misurano al 7% del suo PIL), cioè una eccedenza del valore delle esportazioni rispetto a quello delle importazioni. Considerando la sua storia economica recente, la Cina si è trovata presto ad avere un surplus commerciale molto elevato derivante soprattutto dall’interscambio coi paesi occidentali.

Secondo l’autore, la radice di tutti i successivi passi intrapresi dalla politica cinese sta proprio nell’elevato avanzo commerciale, possibile causa di inflazione, laddove un’eccedenza commerciale può creare occupazione e crescita economica, ma può anche portare a un livello generalizzato dei prezzi (e tassi di interesse) più elevato all’interno del paese, cioè a maggiore inflazione. Un punto di svolta, in tal senso, è rappresentato dal 2008, un anno di grandi cambiamenti, non solo per la Cina, ma per il mercato globale. Ci fu una brusca frenata delle esportazioni cinesi, sia per la crisi economica che dagli Stati Uniti si espanse in tutto il mondo, sia per la diminuzione di quella forza lavoro a basso costo che le aveva permesso di eccellere solo cinque anni prima. In realtà si tratta di un fenomeno che non deve sorprendere: essendo aumentata la ricchezza generale della popolazione e gli stipendi degli operai, numerose imprese estere decisero di rivolgersi ad altri paesi del sud-est asiatico, quali il Vietnam o il Bangladesh, dove potevano trovare prezzi più bassi della manodopera per le loro produzioni in serie. Diminuendo le esportazioni, la situazione preoccupante dell’avanzo strutturale della bilancia commerciale iniziò ad auto-regolarsi (dal 7% si arrivò ad un 3%) e il paese poté concentrarsi sul mercato interno per aumentare i consumi e gli investimenti, soprattutto nel settore tecnologico dove gli interventi da parte del governo sono tutt’ora molto importanti. Ad ogni modo, era necessario risolvere il problema del surplus rimanente.

L’internazionalizzazione della moneta

Come risposta alla crisi economica mondiale del 2008 e per iniziare a far circolare l’eccesso di valuta, la Cina propose di internazionalizzare lo yuan. Il direttore della Banca Popolare Cinese, nel marzo del 2009, dichiarò che era necessario aumentare la dotazione dei Diritti Speciali di Prelievo propri del Fondo Monetario Internazionale, i quali non erano stati sufficienti a limitare la crisi essendo legati ad una moneta nazionale, il dollaro, e alla sua economia in quel momento in crisi. I diritti speciali di prelievo, in effetti, sono uno speciale strumento adottato allo scopo di aumentare la liquidità internazionale e favorire così l’espansione del commercio internazionale. Non si tratta di prestiti, ma di registrazioni nei conti che ciascun paese membro tiene col Fondo monetario internazionale e costituiscono pertanto unità di conto e riserve di cui può disporre ciascun paese membro. Sebbene il loro scopo fosse quello di finanziare operazioni di sostegno a paesi in difficoltà, tuttavia non riuscirono ad evitare la grande crisi del 2008.

Il tempismo della proposta cinese non poteva essere migliore. Lo stesso FMI riconobbe la necessità di ampliare il numero di valute nazionali che costituivano il paniere sulla cui base ricavare il valore dei DSP, e lo yuan cinese (Renminbi) era un valido candidato. Per essere considerata internazionale, una valuta deve poter essere libera di circolare oltre i confini nazionali in cui viene emessa, utilizzabile come mezzo di pagamento per import/export e in generale venire impiegata nelle transazioni del mercato globale tra paesi con diversi sistemi monetari, preferendola in quanto più forte e moneta di riserva. Il governo cinese attuò così una politica di incoraggiamento ad utilizzare lo Yuan nei mercati esteri, permettendo che esso venisse accumulato nelle riserve delle banche dei diversi paesi e quindi fuori dal controllo del governo cinese. Un cambiamento significativo per un paese che fino a quel momento era riuscito a mantenere un controllo diretto sulla sua economia. L’ufficializzazione di questa trasformazione è avvenuta solo nel 2016, con l’inclusione del renminbi cinese nel paniere di valute.

La Nuova Via della Seta

Nel 2013 il Presidente cinese Xi Jinping parlò per la prima volta del suo progetto della Nuova Via della Seta che associa la Via terrestre, i diversi corridoi e la Via della Seta Marittima del XXI secolo. Sebbene il nome riprenda l’antica via del commercio che per secoli ha unito Oriente e Occidente, questo nuovo progetto non è limitato ai confini geografici della sua antenata. In realtà, è molto più vasto e include anche paesi geograficamente lontani. Ed è questa la sua particolarità. Con il termine Nuova Via della Seta non ci riferisce solo a delle vie fisiche che possono essere percorse, ma si vuole indicare un insieme di rapporti bilaterali, a volte anche segreti, che la Cina ha stipulato con ottantadue Stati, proseguendo e sviluppando quella politica di aiuti e rapporti con paesi in via di sviluppo e ampliando le relazioni con i paesi europei. Il cuore di questa politica, inoltre, è quello di creare nuove infrastrutture che permettano di collegare più agevolmente la Cina con tutti i paesi con cui commercia attraverso nuove linee ferroviarie, nuove strade, nuovi porti, una nuova fibra ottica. In questo modo, la Repubblica Popolare Cinese può accrescere la sua influenza sullo scacchiere internazionale, impiegare le numerose imprese cinesi di costruzioni e l’elevata disponibilità di denaro in questi progetti dalla durata pluriennale; i paesi confinanti o firmatari invece beneficiano di queste infrastrutture, si modernizzano, ottengono prestiti e in generale si avvicinano al colosso asiatico.

Insieme alla Nuova Via della Seta, il Presidente Xi Jinping ha istituito una serie di fondi da utilizzare esclusivamente per lo sviluppo della Via stessa con il surplus commerciale. Il più importante è sicuramente la Banca di Investimenti e Infrastrutture Asiatica (nota con l’acronimo inglese di AIIB), istituzione fondata a fine 2014, che ha visto un investimento iniziale cinese di 40 milioni di dollari. L’autore ci tiene a sottolineare che sebbene sia evidente il loro legame, formalmente sono due progetti molto diversi e separati, portati avanti con modalità differenti. Questa istituzione finanziaria internazionale, infatti, controllata in larga parte dalla Cina, è molto più trasparente e diretta; vuole essere l’esempio e la dimostrazione che la RPC può guidare un’istituzione mondiale. Nel 2018 poteva già contare su novantatré membri, la maggior parte dei paesi con cui la Cina commercia ad esclusione, naturalmente, di Stati Uniti e Giappone. È divenuta in poco tempo una delle istituzioni finanziarie internazionali più importanti della Cina e un aiuto prezioso per molti paesi in via di sviluppo che da essa ottengono prestiti agevolati.

Allo stesso modo sono stati creati diversi altri progetti che utilizzano il surplus commerciale per crediti a condizioni agevolate da destinare a tutti i paesi in difficoltà, come il Fondo per lo Sviluppo Cina-Africa o quello per il Venezuela. Lo scopo di questi fondi è quello di promuovere gli investimenti diretti cinesi nei territori di maggior bisogno, ottenendo in cambio materie prime come il petrolio. Quella che si viene a creare è una situazione favorevole per entrambe le parti. Anche paesi ormai sviluppati beneficiano dei fondi attraverso investimenti diretti in settori specifici (tecnologia, materie prime, gas e petrolio). È evidente che maggiori sono gli interessi della Cina verso il singolo paese, maggiori saranno gli investimenti, arrivando anche ad un 10% o un 20% del PIL dello stesso.

La Cina oggi

Sebbene la Cina di oggi mantenga un tasso di crescita del 6% annuo, la crescita a due cifre ormai si è arrestata, il che era del resto una dinamica fisiologica attesa. Naughton, nelle sue riflessioni, ritiene che le politiche attuate in questi anni non abbiano portato sempre i risultati sperati, primo tra tutti l’internazionalizzazione della moneta, arrivata in ritardo rispetto alle aspettative della pianificazione cinese. L’auspicata apertura e liberalizzazione del mercato cinese non sono mai state realizzate, a volte per difficoltà oggettive, altre perché le élite non riuscivano a cedere il controllo al mercato. Ma questo non è in sé da considerare un male, in ragione di quello che è successo anche in anni recenti nella stessa regione asiatica, dove i paesi che hanno ceduto al primato della liberalizzazione commerciale e finanziaria si sono poi dimostrati meno in grado di fronteggiare le crisi economico-finanziarie. In ogni caso, questo comportamento non ha aiutato a distendere le relazioni con paesi quali gli Stati Uniti, che continuano a non fidarsi della Cina e la considerano ormai il principale avversario economico, in grado anche di competere con successo nei settori ad alto contenuto tecnologico dell’informazione e comunicazione.

La maggior parte del surplus commerciale viene utilizzato per il mercato interno e, politicamente, per prestiti ad altri paesi, sebbene numerose siano state le perdite. È, ad esempio, da ricordare come non solo già in partenza fossero prestiti quasi senza guadagno per la Cina, visto il basso tasso di interesse richiesto in aggiunta alla restituzione delle quote di ammortamento del capitale, ma in alcune situazioni questi fondi non sono neanche stati utilizzati per modernizzare il paese: proverbiale è il caso del Venezuela, citato dall’autore, dove sembrerebbe che i soldi siano spariti senza lasciare traccia. Si potrebbe dire che la Cina ne abbia guadagnato cioè più a livello politico che a livello economico.

Quello che si può evincere dai settanta anni di storia economica cinese è il tentativo del paese di adattarsi al mondo, di inserirsi e in un certo senso di orientare il percorso, diventando un leader di prima grandezza in grado di competere su tutti i fronti con gli Stati Uniti. La sfida è quanto mai aperta; a ricordarcelo è quello che il Presidente uscente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha fatto durante il suo mandato in termini di guerra commerciale con Pechino, peraltro ricevendo una condanna nel 2020 da parte del panel di esperti del WTO in relazione ai dazi commerciali aggiuntivi introdotti dagli Stati Uniti nel 2018 nei confronti della Cina e giudicati contrari alle regole internazionali sul commercio. Dello stesso tenore sono del resto le pesanti accuse rivolte dall’amministrazione Trump al governo cinese (e all’Organizzazione mondiale della sanità, OMS) in relazione alla pandemia di Covid-19, come pure il deciso impegno statunitense per contrastare i colossi dei social media cinesi (Tik Tok) e la partita sulle reti di nuova generazione, la banda larga con tecnologia 5G. È il volto attuale di una nuova guerra fredda politica, commerciale e tecnologica che definisce il contesto geopolitico odierno e su cui si dovrà misurare la nuova amministrazione statunitense. Intanto, per farsi un’idea di quel che è successo in Cina, un lettura da consigliare è sicuramente il capitolo di Barry Naughton e, più in generale, il volume China and the World curato da David Shambaugh.

Foto Credits: One Belt, One Road – Tart: Attribution-ShareAlike 3.0 Unported (CC BY-SA 3.0) via Wikipedia