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Brasile in piena recessione e vicino ai 100.000 morti da COVID-19

Litre Gabriela

Alla fine dello scorso febbraio, quando il Brasile sembrava risalire lentamente i gradini di una fragile ripresa economica, il Ministero della sanità di questo paese ha annunciato la conferma del primo caso di Covid-19 sul suo territorio. Si trattava di un imprenditore di 61 anni (ora guarito), originario di San Paolo, che era tornato dal nord Italia, una regione che stava cominciando ad affrontare un’esplosione di casi di Sars-Cov-2 (nome ufficiale del virus).

Probabilmente non si saprà mai con certezza chi sia stato realmente il “paziente zero” della pandemia in Brasile. È però innegabile il senso di incredulità che ha attraversato una nazione che nello stesso momento stava vivendo in un clima di festa: era piena estate e stavano arrivando, come ogni anno, migliaia di turisti, nazionali e internazionali, richiamando folle (i famosi “foliões”) in città iconiche come Rio de Janeiro, San Paolo, Salvador, Recife e Fortaleza. Le sue strade, che avevano sempre vibrato di vita, suoni e colori, ben presto sono apparse desolate, addirittura avvolte dallo sconforto per qualcosa di inimmaginabile. E la canzone di Tom Jobim sembrava risuonare più che mai in ogni angolo di questo paese di esuberante bellezza, di gente immancabilmente sorridente e con le braccia aperte come quelle del suo Cristo Redentore: “Tristeza não tem fim… felicidade, sim” (“la tristezza non ha fine…la felicità sì”).

A cinque mesi dall’arrivo del virus, a fine luglio il Brasile piange la morte di oltre 91.000 persone a causa del Covid-19, mentre si aggiungono più di 50.000 nuovi contagi al giorno. La piattaforma di monitoraggio della pandemia della Johns Hopkins University, un riferimento internazionale per la sua grande copertura e la tempestività con cui aggiorna i suoi dati, stima che il coronavirus abbia infettato più di 2,6 milioni dei 211 milioni di abitanti del Brasile. Ci si aspetta che tra il 9 e il 15 agosto il paese raggiunga la triste soglia delle 100.000 vittime (quasi 1/6 del totale dei decessi da Covid-19 nel mondo, secondo l’osservatorio collaborativo Worldometers). La stima, considerata conservativa perché tiene conto di una presunta “stabilità” dei nuovi casi (nonostante sia una soglia scandalosamente alta), proviene dal portale Covid-19 Brasile, un’iniziativa portata avanti da ricercatori dell’Università di Brasilia (UnB) e dell’Università di San Paolo (USP). Per complicare ulteriormente le cose, in Brasile non è garantita la trasparenza dei dati epidemiologici, soprattutto a causa del gran numero di decessi la cui causa è etichettata come “sotto indagine”: secondo il Ministero della sanità, il cui ministro è ad interim da maggio, fino al 25 luglio erano sottoposti a questo tipo di “indagine” 3.691 decessi. Per non parlare della prospettiva di una molto probabile “seconda ondata” di casi.

Le migliaia di morti al giorno hanno messo in ginocchio il gigante latinoamericano, il secondo paese al mondo per numero di casi confermati, dietro solo agli Stati Uniti. Tra l’altro questo triste record non tiene conto dell’enorme sottostima dei casi asintomatici, o delle persone che non hanno mai raggiunto i centri sanitari, dal momento che il Brasile è anche uno degli ultimi paesi al mondo per numero di test Covid-19 effettuati. Secondo gli specialisti, il numero di test in Brasile è di circa 20 volte inferiore a quello necessario. Le autorità sanitarie dicono che ciò è dovuto alla mancanza di forniture (come i reagenti) causata dall’elevata domanda internazionale.

Al ritmo di un’agghiacciante media di 1.000 nuovi decessi al giorno (equivalente alla caduta di tre aerei pieni di passeggeri ogni 24 ore), giovedì 30 luglio la“gripezinha” (“l’influenzetta”, secondo la definizione della pandemia del presidente Jair Bolsonaro, anche egli contagiato dal Covid-19) ha causato la morte di 1.129 persone in un solo giorno. In Brasile la vita è cambiata: metropoli come San Paolo (l’ottava città più grande del mondo, con più di 12 milioni di abitanti) hanno già annunciato che nel 2021 non ci saranno sfilate, né bagni di folla per le strade, né gare di Formula 1 e non si terrà nemmeno la famosa celebrazione di Capodanno. La città perderà almeno 3 miliardi di reais (più di 500 milioni di dollari).  Ma il fatale calo del turismo è chiaramente solo uno dei sintomi di una malattia strutturale più grave, che resisterà a qualsiasi possibile vaccino miracoloso: le storiche disuguaglianze sociali, che negli ultimi anni sono andate aumentando.

Un indicatore delle vulnerabilità sociali

Così, nonostante l’esistenza di piani di assistenza primaria gratuita, come le 43.000 unità sanitarie di base del programma Saúde da Família, istituito negli anni 90 grazie al Sistema Único de Saúde (SUS), che copre il 65% della popolazione, i decessi da Covid-19 sono concentrati nelle aree più povere e sono legati all’esistenza di comorbidità spesso sconosciute ai pazienti stessi, o non adeguatamente trattate. Sono frequenti i casi di pazienti, generalmente con scarse risorse economiche, con malattie preesistenti (o “silenziose”) come il diabete, l’obesità e l’ipertensione (le tre malattie croniche più comuni tra tutti i brasiliani, secondo il Ministero della sanità), che vengono a conoscenza del loro problema di salute solo quando sono vengono ricoverati a causa del nuovo coronavirus. Inoltre, la tubercolosi e i problemi cardiaci rappresentano il maggior fattore di rischio per i pazienti brasiliani.

Le disuguaglianze sociali hanno fatto sì che il Covid-19 abbia ucciso tra la popolazione nera in Brasile più che in altri paesi in cui la pandemia ha fatto collassare i sistemi sanitari. In Brasile, quasi 6 vittime della pandemia su 10 sono uomini, e più del 60% sono neri, secondo i dati ufficiali del sistema DataSUS SIVEP-Gripe, mantenuto dal SUS. Spesso confinata in baraccopoli (favelas), gran parte della popolazione nera ha un minor accesso all’assistenza sanitaria, i suoi diritti sono meno rispettati e generalmente ha meno mezzi a disposizione per sopravvivere.

Il coronavirus funge così da marcatore di vulnerabilità sociale, in un paese che il Programma di sviluppo delle Nazioni Unite (UNDP) indica come il settimo al mondo per livello di disuguaglianza, preceduto solo da nazioni del continente africano. E mentre la pandemia allarga ulteriormente il divario tra ricchi e poveri, ha anche spazzato via 7,8 milioni di posti di lavoro (la disoccupazione ha raggiunto il 12,4% a giugno), lasciando almeno della metà dei brasiliani in età lavorativa senza occupazione. A seguito di uno scenario di instabilità politica, di forti disuguaglianze e di fronte a una tragedia sanitaria annunciata, la prestigiosa Fundação Getúlio Vargas (FGV) a giugno ha riferito che il Brasile è entrato in recessione nel primo trimestre del 2020. Le proiezioni indicano che questa sarà la più grande recessione della sua storia, soprattutto se nel paese si verificherà una seconda ondata di infezioni.

La fame e la disperazione crescono mentre calano gli indicatori economici, mettendo a repentaglio il futuro di una generazione di bambini senza scuole (e senza pasti scolastici), spesso vittime di violenza domestica, una generazione di madri e padri che debbono continuare a rischiare la vita per andare al lavoro lasciando i loro figli da soli in casa, una generazione di giovani senza lavoro o senza accesso all’università (la situazione dell’istruzione in Brasile meriterebbe un capitolo a parte), oltre ad anziani e minoranze etniche che muoiono in silenzio, lontano dagli ospedali.

A fronte della valanga di morti, il Brasile dispone di una “benedizione”, che purtroppo deve affrontare a sua volta una serie di sfide crescenti: il suo Sistema Único de Saúde (SUS), o Sistema sanitario unificato, che serve gratuitamente più del 75% della popolazione che dipende esclusivamente dall’assistenza pubblica. Dopo un decennio di chiusure di posti letto, la caotica scena pandemica ha comportato l’apertura di 22.800 posti di ricovero ospedaliero. È la prima volta negli ultimi dieci anni che invece di interrompere o ridurre un servizio si è investito in questo tipo di infrastrutture.  Ma ora il grande quesito è come si potranno mantenere operativi nella fase post-pandemia questi ampliamenti, dal momento che i posti letto sono stati acquisiti temporaneamente.  Molti prevedono inoltre che nei comuni e negli stati ci sarà una carenza dei fondi necessari a mantenere in funzione dopo la crisi sanitaria le nuove attrezzature acquistate durante la pandemia, tra cui respiratori, monitor e scanner per la TAC.

I finanziamenti per il sistema sanitario pubblico in Brasile sono molto inferiori a quelli dei paesi dell’OCSE. È vero che il Brasile spende il 9,2% del PIL (somma di tutta la ricchezza prodotta) per la salute, percentuale leggermente superiore alla media dell’8,8% del PIL dei 37 membri dell’OCSE, la maggior parte dei quali sono paesi ricchi.  Ma nel caso del Brasile, la maggior parte di queste spese sono private. La quota di risorse pubbliche investite in questo settore rappresenta solo il 4% del PIL, mentre la media per i paesi dell’OCSE è pari al 6,6%.

Di conseguenza, la pandemia ha riaperto la discussione sulla necessità di aumentare il bilancio del sistema sanitario pubblico in Brasile, pur migliorando le modalità di spesa delle risorse per assicurane una migliore utilizzazione, in un paese con un alto (e spesso inutile) tasso di parti cesarei, ben al di sopra della media dell’OCSE, di prescrizioni di antibiotici spesso inutili, di interventi chirurgici senza garanzia di un tasso di successo adeguato, e di ricoveri ospedalieri che potrebbero essere evitati con una migliore assistenza primaria. Sarebbe inoltre necessario migliorare il sistema di informazione integrato del SUS, che, pur essendo uno dei più completi in America Latina, potrebbe fare un miglior uso dei dati (come ospedalizzazioni, uso dei medicinali e decessi) per rilevare precocemente le epidemie, tracciarne la diffusione e analizzare la qualità delle cure fornite ai pazienti. Infine, andrebbero messi in discussione anche i meccanismi di governance del SUS, che è un ente tripartito tra i diversi livelli di governo (quello federale, le 27 unità federative e i 5.570 comuni), che comporta una disarticolazione e una duplicazione di funzioni.

Seconda ondata? 

La marcata crisi economica e la mancanza di una strategia chiara e tempestiva da parte del governo hanno portato gli stati e i comuni ad allentare alcune norme di prevenzione che non sono mai state del tutto chiare. Molti brasiliani, spinti dall’urgente necessità di lavorare per nutrire le loro famiglie, oppure scoraggiati dalla mancanza di chiarezza sulla situazione sanitaria, escono di casa e circolano ogni giorno di più. Le scuole (statali e private), che sono state chiuse per tre mesi e mezzo, sono disorientate dai litigi tra alcuni governatori, che sostengono di volerle riaprire alla fine della pausa invernale (in agosto), e genitori e organizzazioni che, terrorizzati, chiedono alla Giustizia misure di protezione che sanciscano l’obbligo di insegnamento in classi virtuali.

Il Brasile (così come molti altri paesi della regione, come l’Argentina) ha potuto imparare dalle esperienze di Cina ed Europa, iniziando così l’isolamento sociale con un certo anticipo. Tuttavia, la sua strategia sanitaria è stata molto irregolare e, in alcune località, praticamente inesistente. Sebbene il paese abbia avuto un periodo più lungo rispetto all’Europa per costruire ospedali da campo, per aumentare il numero di posti letto nelle unità di terapia intensiva e per ritardare il contagio, non ha approfittato appieno di questa opportunità, a differenza di molti dei suoi vicini. Mentre alcuni paesi, come l’Uruguay, hanno riaperto le frontiere e i cittadini possono recarsi in Europa senza restrizioni, e in altri, come l’Argentina, il bilancio dei decessi ogni 100.000 abitanti è nettamente inferiore a quello del Brasile, i messaggi contraddittori delle autorità brasiliane (e le dimissioni di due ministri della sanità in poche settimane) hanno portato in molte località all’abbandono delle cautele.

Anche se tra il 22 giugno e il 22 luglio 2020 la situazione nelle grandi città sembrava stabilizzarsi, l’incidenza del virus sta peggiorando nei piccoli comuni dell’Amazzonia (nel nord del Brasile) e nel nord-est, proprio i più poveri del paese. Gli scarsi risultati sanitari negli stati in cui si è cominciata a osservare un’apparente diminuzione, come Maranhão (delle dimensioni dell’Italia), Rio de Janeiro (delle dimensioni della Danimarca) e Ceará, (delle dimensioni della Grecia), mostrano un’inversione di tendenza, compreso un aumento della media mobile dei decessi. Secondo la prestigiosa Fundação Oswaldo Cruz (Fiocruz), questa tendenza potrebbe trasformarsi nel peggiore degli incubi: una seconda ondata. Allo stesso tempo, i contagi crescono in regioni che erano rimaste relativamente “immuni” all’inizio della crisi: in parte del sud-est, nel sud e nel centro-ovest, come in Mato Grosso e Rio Grande do Sul.

Le grandi curve che cercano di descrivere lo scenario brasiliano sono fuorvianti, perché la recente apparenza di stabilità nasconde gli estremi dell’impatto eterogeneo della pandemia nelle diverse regioni del paese. La stima delle tendenze del Covid-19 in queste terre è forse una delle più grandi sfide epidemiologiche: secondo l’Osservatorio Covid-19, è impossibile eseguire una microanalisi osservando la curva nazionale, poiché il Brasile è una combinazione di molte dinamiche, ognuna in una fase diversa della pandemia. Ciò che si sa per certo è che la luce alla fine del tunnel sembra essere ogni giorno più lontana.

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Foto Credits: Prefeitura de OlindaAttribution-NoDerivs 2.0 Generic (CC BY-ND 2.0), attraverso www.flickr.com