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Afghanistan: emergenza Covid-19

Redazione

L’Afghanistan è un paese ancora nel mezzo di una lunga e sanguinosa guerra civile, in cui povertà e guerre hanno creato la miscela per una crisi che l’epidemia può far esplodere: nella provincia sud-orientale di Zabol, di poco più di 263 mila abitanti, si sono dovute approntare alcune soluzioni di ripiego, come il ripristino di due piani del principale ospedale, abbandonato dopo che lo scorso settembre un attacco talebano aveva distrutto gran parte dell’edificio e ucciso circa 40 persone. Il reparto pediatrico, l’unica parte dell’edificio ancora in piedi, è stato rinnovato e ora è aperto come centro di isolamento per i pazienti con Covid-19. Il dott. Lal Mohammad Tokhi, capo della direzione della sanità pubblica di Zabu, intervistato sulle pagine del The Observer, spiega che l’ospedale è in attesa di ricevere due ventilatori polmonari da Kabul. Fortunatamente la provincia ha visto sinora solo 10 casi e nessun decesso e sta cercando di imporre misure di contenimento attraverso il distanziamento sociale, ma tale blocco viene ampiamente ignorato dalle persone, così povere che non mangiano se non vanno al lavoro.

Save the Children ha avvertito che il cocktail di malattie pregresse, epidemia e lock-down potrà causare enormi danni collaterali tra i numerosi cittadini vulnerabili e i blocchi imposti agli spostamenti da casa hanno già messo a rischio 7,3 milioni di bambini. I bambini sono tra le vittime più vulnerabili in questa situazione: già prima dell’epidemia, circa 5,26 milioni di bambini avevano bisogno di sostegno umanitario, rendendo l’Afghanistan devastato dalla guerra uno dei luoghi più pericolosi al mondo per essere bambini. Nel peggiore dei casi, la malnutrizione può portare a deperimento e ritardi nella crescita (malnutrizione cronica o all’arresto della crescita), cioè danni permanenti che resteranno per il resto della vita.

Malnutrizione, ferite di guerra e malattie infettive eliminate altrove molto tempo fa erano già problemi molto gravi in Afghanistan prima della diffusione del Covid-19; povertà e conflitti avevano, infatti, sottoposto i sistemi sanitari del paese a sforzi eccessivi portandoli vicino al collasso. A riprova di ciò, l’Afghanistan è uno dei tre soli paesi al mondo, insieme a Nigeria e Pakistan, in cui la poliomielite è ancora endemica. Secondo il Programma alimentare mondiale delle Nazioni Unite (World Food Program, WFP), nel mondo le persone in bisogno alimentare “acuto” passeranno quest’anno da 135 milioni a 265; l’Afghanistan ha più di 11 milioni di abitanti (su un totale di 38 milioni) considerati “gravemente insicuri” dal punto di vista alimentare ed è tra i cinque paesi al mondo – insieme a Yemen, Repubblica Democratica del Congo, Venezuela e Sudan del sud – che più soffriranno deficit di cibo.

La pandemia di Covid-19 fa salire i prezzi degli alimenti di base, come la farina di grano e l’olio da cucina il cui prezzo è aumentato di quasi il 25% ad aprile, ma anche il costo di riso, zucchero e dei legumi sta aumentando, mentre cresce il numero di disoccupati.

Il paese ha cominciato il 2020 con un governo diviso a fronte di crisi politiche, militari ed economiche. Il governo, infatti, è stato paralizzato da una disputa politica lunga un mese su chi avesse vinto le elezioni presidenziali dell’anno scorso: ufficialmente, Ashraf Ghani, presidente dal 2014, è stato rieletto quando i risultati finali delle elezioni presidenziali del 2019 sono stati annunciati dopo un lungo ritardo il 18 febbraio 2020 e ha prestato giuramento come presidente il 9 marzo 2020, anche se il suo avversario Abdullah Abdullah ha respinto i risultati e si è trasferito per istituire un governo parallelo. Questa situazione ha spinto gli Stati Uniti a bloccare un miliardo di dollari di finanziamenti, fondamentali per il funzionamento di un paese con una base imponibile ridotta.

Inoltre, il 29 febbraio, la svolta della firma a Doha di un primo accordo, tra talebani e governo degli Stati Uniti, dopo oltre 18 anni dall’intervento statunitense a seguito degli attentati dell’11 settembre 2001, nel tentativo di porre fine alla lunga guerra, ha spinto il conflitto civile tra le fazioni afghane in una nuova fase incerta. I talebani hanno ridimensionato gli attacchi contro le forze straniere nelle principali città, ma hanno respinto le richieste di cessate il fuoco per dare il tempo di combattere il virus, richieste che provenivano dal governo e dalla comunità internazionale (a cominciare dall’Unione Europea), in linea con l’appello del segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, per un cessate il fuoco globale a causa del Covid-19.

Nonostante la richiesta del presidente dell’Afghanistan di un cessate il fuoco almeno durante il mese sacro del Ramadan, i talebani hanno gradualmente aumentato gli attacchi contro le forze di sicurezza del governo afghano in tutto il paese, sostenendo che il loro patto di non aggressione è solo con gli Stati Uniti. Stati Uniti e talebani hanno, in effetti, concordato a Doha due condizioni di base, ovvero il ritiro delle truppe statunitensi e degli alleati dall’Afghanistan entro 14 mesi, mentre i talebani si impegnano a non permettere che il paese possa ospitare organizzazioni terroristiche decise a pianificare attentati all’estero. L’accordo prevedeva anche un accordo per lo scambio di prigionieri tra talebani e governo afgano, che il governo di Kabul non ha però voluto assumere nella sua interezza, in particolare escludendo la possibilità di ridare la libertà ai talebani responsabili di attacchi mortali e bombardamenti. Il governo ha, comunque, deciso il rilascio il 2 maggio di un gruppo di 98 prigionieri talebani, nel tentativo di spingere il fragile processo di pace in mezzo alla pandemia di Covid-19, particolarmente preoccupante nelle carceri del paese, come riportato dall’agenzia di stampa spagnola Europa Press. Il gruppo talebano aveva precedentemente deciso il rilascio di 52 membri delle forze di sicurezza afghane. Finora, però, il governo afghano ha accettato di rilasciare solo 1.500 prigionieri come gesto di buona volontà per consentire il dialogo con i talebani, ma i miliziani chiedono di consegnare i 5 mila prigionieri così come previsto nell’accordo firmato con gli Stati Uniti.

La missione di assistenza delle Nazioni Unite in Afghanistan (UN Assistance Mission to Afghanistan, UNAMA) ha documentato che 533 civili, tra cui 150 bambini, sono stati uccisi nel primo trimestre del 2020, a riprova di un preoccupante aumento della violenza durante il mese di marzo, in un momento in cui si sperava che il governo afghano e i talebani avrebbero avviato negoziati di pace, nonché cercato modi per disinnescare il conflitto e dare la priorità agli sforzi per proteggere tutti gli afghani dall’impatto della pandemia.

I talebani hanno lanciato una media di 50 attacchi ogni giorno da quando gli Stati Uniti hanno firmato l’accordo a fine febbraio, secondo il Consiglio di sicurezza nazionale afgano. Ciò che è cambiato è che i talebani non stanno pubblicizzando ampiamente i fatti sulle loro pagine dei social media.

In questo contesto, mentre – secondo un’inchiesta di NBC News – il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha come principale obiettivo quello di ritirare tutte le truppe statunitensi dall’Afghanistan quanto prima, il governo afgano ne esce piuttosto indebolito, con una capacità negoziale con i talebani fortemente ridimensionata col venir meno della tutela militare occidentale.

Diversi anni fa, il Mullah Abdul Ghani Baradar, già vice del Mullah Omar – capo politico e guida spirituale dei talebani afghani, emiro dell’Emirato Islamico dell’Afghanistan dal 1996 al 2001 e probabilmente morto di tubercolosi nel 2013 –, divenne di fatto il capo dei talebani, guidando l’insurrezione dal Pakistan. Il Mullah Baradar fu poi catturato dalle autorità pakistane, in un’operazione congiunta con la CIA nel 2010 e fu rimesso in libertà dal governo pakistano a ottobre del 2018 su richiesta – secondo quanto dichiarato dall’inviato speciale degli Stati Uniti nella regione, Zalmay Khalilzad, al giornale indiano The National Herald – del governo degli Stati Uniti, che ne coglievano le capacità di capo tribale abile a negoziare per la pace. Il recente accordo di pace in Qatar tra Stati Uniti e talebani è stato effettivamente siglato dal Mullah Abdul Ghani Baradar e da Zalmay Khalilzad.

Ciò che infastidisce e preoccupa il governo afghano è che il Mullah Baradar abbia continuato ininterrottamente a ripetere che l’obiettivo prioritario deve essere quello di creare uno stato islamico; per questa ragione, la decisione statunitense di riconoscerlo interlocutore politico per una soluzione pacifica al coinvolgimento militare nel paese ha creato molti malumori nel governo afgano.

Mohammad Arif Haidari, direttore della Roushd General Network of Afghanistan, organizzazione non governativa a carattere umanitario, considera la situazione già drammatica, con forti sperequazioni nell’accesso alle cure contro il Covid-19 e con un governo senza risorse per affrontare il diffondersi del virus, che si somma a instabilità politica, fragilità istituzionale, dipendenza dai donatori internazionali, vulnerabilità della popolazione che vive nelle città, nelle aree di conflitto, in zone rurali e negli accampamenti informali degli sfollati interni.

Nella provincia di Helmand, una delle aree più colpite dal conflitto in Afghanistan, il capoluogo Lashkar-gah è stata teatro di continui scontri armati tra truppe governative e gruppi di opposizione, scontri che hanno colpito diverse strutture sanitarie, alcune delle quali sono state costrette a chiudere per motivi di sicurezza e ora, in termini di equipaggiamento, non c’è un laboratorio per testare persone sospette, nessun kit di test, nessun luogo per isolare i pazienti.

Nella provincia settentrionale di Kunduz, un ospedale in cui un quinto del personale è stato messo in quarantena con sospette infezioni rimane aperto per ricevere feriti di guerra causati dalle battaglie che imperversano nelle vicinanze perché non c’è nessun altro posto dove curarli. I talebani hanno permesso ai funzionari sanitari del sud di recarsi nelle aree rurali, comprese quelle sotto il proprio controllo, per fornire informazioni e controlli sul Covid-19, ma le informazioni che raggiungono i remoti villaggi dell’Afghanistan potrebbero essere troppo poche e tardive per fermare la diffusione del virus. Si teme che un focolaio di infezioni sia arrivato direttamente dall’Iran, da persone che cercavano di fuggire dall’epidemia di quel paese.

Come segnala l’UNHCR, nonostante i rischi persistenti e l’insicurezza, gli afghani continuano a tornare sia dall’Iran che dal Pakistan. Decine di migliaia di cittadini afghani sono passati dal Pakistan all’Afghanistan dopo la riapertura temporanea del confine nella prima metà di aprile. Dall’Iran, mentre il numero di cittadini afghani che rientrano ha raggiunto il picco con circa 60 mila a marzo, circa 1.500 persone sono tornate ogni giorno ad aprile. L’aumento drammatico degli afghani che tornano a casa significa che centinaia di migliaia di persone vivono in siti di sfollati e aumentano i livelli di povertà. Il Pakistan e l’Iran, che ospitano circa il 90% dei 2,7 milioni di rifugiati afghani nel mondo, stanno affrontando un enorme sforzo per i loro sistemi sanitari ed economie, mentre le misure di blocco e una forte flessione delle attività economiche hanno lasciato molti rifugiati afghani nell’incapacità di soddisfare anche i bisogni più elementari. Per i rifugiati afgani in Iran e Pakistan, l’impatto del Covid-19 va ben oltre la salute, perché il lavoro giornaliero è improvvisamente cessato e i rifugiati senza reddito sono costretti ad adottare strategie per sopravvivere, come quella di tornare in Afghanistan.

In questa difficilissima situazione, le misure di lock-down adottate dal governo del presidente Ashraf Ghani sono state prolungate al 24 maggio in tutto il paese. Intanto, almeno quaranta membri dello staff del palazzo presidenziale a Kabul sono risultati positivi al Covid-19 e il presidente Ashraf Ghani partecipa solo agli eventi in videoconferenza.

Non è tempo di rimpianti, ma è naturale pensare che se i milioni di dollari spesi per il materiale bellico di ogni tipo e il personale dedicato alle operazioni militari fossero stati utilizzate per acquistare dispositivi sanitari e per salvare vite umane dal Covid-19, le condizioni di vita della stragrande maggioranza della popolazione sarebbero meno drammatiche. Il fatto, tuttavia, che le cifre ufficiali dei decessi per il Covid-19 siano ancora basse e che, invece, le morti causate dalla guerra civile non diminuiscano rende meno percettibile l’insensatezza delle spese militari nel paese.