Medio Oriente e Nord Africa (MENA) Argomenti

Donne arabe tra diritti e partecipazione politica

A proposito del paper di Fatima Moussawi* and Samira Koujok**

Redazione

Quando si parla di diritti delle donne e partecipazione politica, è quasi naturale pensare a quelle femministe occidentali che hanno lottato con estremo ardore per conquistare il loro posto nel mondo. Nell’immaginario tipicamente occidentale ed eurocentrico, si crede che le donne arabe e musulmane siano da sempre sottomesse, quasi in modo remissivo e che non abbiano mai combattuto per far valere i loro diritti. È innegabile che la disparità di genere sia molto accentuata e che le donne vivano limitazioni alla libertà personale e discriminazioni giuridiche, tuttavia, le loro esperienze e sfide ci raccontano una storia che va oltre il preconcetto della donna oppressa; difatti, se si scava indietro nel tempo, si deve fare i conti con la presenza di molte militanti che hanno lottato per l’emancipazione e per i diritti. Dunque è possibile, oltre che doveroso, parlare di femminismo arabo e islamico, un fenomeno che pur avendo avuto tempistiche e, a volte, caratteristiche diverse da stato a stato, può essere descritto in maniera sostanzialmente omogenea.

Il grande punto di forza delle due autrici Fatima Moussawi e Samira Koujok è stato essere riuscite a dare al lettore una visione completa della donna nella società araba e un quadro esauriente del fenomeno del femminismo, riuscendo a descrivere i punti salienti e le principali differenze del fenomeno, considerando quanto sia vasto e diversificato il mondo arabo.

Certo è che le donne, dal Golfo all’oceano Atlantico, da diversi secoli a questa parte, devono misurarsi con un contesto molto particolare, cioè quello della commistione tra patriarcato sociale e culturale e autorevolezza dell’islam e dei suoi principi che hanno profondamente influenzato il loro status, nonché i loro diritti e il loro coinvolgimento nella politica e nei processi decisionali. Il patriarcato – nel senso classico del termine – e la religione svolgono da sempre un ruolo chiave nella società araba, tanto nella sfera privata, quanto in quella pubblica, anche se, in realtà, non si tratta solo dei principi in senso stretto, piuttosto, di come questi sono stati e ancora oggi sono interpretati e applicati. Infatti, partendo dal presupposto che l’islam è un, se non il, riferimento per le costituzioni dei paesi arabi, gli approcci adottati e l’interpretazione della Shari‘a possono essere anche agli antipodi; ne sono due esempi l’Arabia Saudita, in cui le leggi sullo statuto personale della donna – poligamia, ‘wilaya’, ovvero tutela legale degli uomini sulle parenti donne, disuguaglianza in termini di diritto successorio – sono una versione rigorosa della legge islamica, sfavorendo nettamente la donna, e la Tunisia, dove la costituzione ha, sotto la guida di Bourguiba, seguito un percorso più progressista e in favore della donna, rifiutando la poligamia, il concetto di ‘wilaya’ e proteggendola dalle violenze di genere. E, sebbene nel 2017 qualche passo in avanti sia stato fatto anche in Arabia Saudita, con la concessione del diritto di guidare un’automobile, l’interpretazione della Shari‘a resta sempre e comunque molto rigorosa.

In aggiunta a ciò, un altro ampio dibattito che infuoca gli studiosi e i ricercatori occidentali e orientalisti riguarda la presunta incompatibilità tra principi religiosi e status e ruolo della donna nella società arabo-musulmana. Se un filone di studiosi afferma che il genere femminile appare indebolito da un islam misogino e ingiusto (e dal potere dominante degli uomini), un altro sostiene il contrario, facendo leva soprattutto sull’interpretazione originaria dei versetti del Corano e sulla Sunna che favorivano l’uguaglianza di genere. Infatti, come è stato dimostrato da alcuni studi, si registra una significativa presenza femminile fin dagli albori dell’islam, quando le donne erano profondamente attive sia nella sfera familiare, che politico-sociale. Alla morte del profeta e dei suoi diretti successori, quei fondamenti religiosi che prevedevano uguaglianza di genere e protezione dei diritti delle donne, sono andati via via soccombendo a causa di fraintendimenti e cattive interpretazioni delle élite maschili, cui spettava il compito dell’esegesi coranica. Il grande problema dell’emarginazione femminile e della disparità di genere deriverebbe, quindi, dalla profonda interferenza che si era creata tra religione e società, la quale aveva ereditato dei pensieri e delle pratiche atti a screditare il ruolo della donna e la sua partecipazione politica.

Volendo tracciare un percorso più recente dei movimenti femministi, si deve subito sottolineare che è dagli anni del colonialismo che le donne emergono attivamente contro l’occupazione straniera, prendendo parte a movimenti anticoloniali precostituiti prima, e come entità indipendenti solo successivamente (tra le pioniere del femminismo, Houda Shaarawi, Dorya Shafik e Labiba Hashem). L’attivismo femminista raggiunge l’apice durante il ventesimo secolo, in particolar modo tra gli anni ’20/’30 e ’60/’70, quando le donne cominciano a rivendicare la concessione dei diritti politici (voto, candidatura alle elezioni) e sociali (condizioni di matrimonio e di divorzio non discriminatorie, diritti successori, protezione da ogni tipo di violenza), in concomitanza anche all’exploit dei movimenti femministi internazionali. Con l’indipendenza e per volere dei nuovi governi, nasce il ‘Femminismo di Stato’ che promuoveva i diritti delle donne e le loro iniziative, a patto che i movimenti e le ideologie fossero allineati alle politiche governative. È in questo periodo che si denotano i primi tentativi di coinvolgimento e di inclusione politica femminile, incoraggiati anche dalla firma di trattati internazionali in favore della parità di genere e delle donne (come la CEDAW – Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione della donna – che, nel mondo arabo, è stato integralmente recepito solo dalla Tunisia).

In risposta al femminismo di stato e a quell’approccio filo-occidentale decisamente più laico che gridava all’incompatibilità tra islam e diritti delle donne, negli anni ’80 nasce la corrente del ‘femminismo islamico’, che faceva leva proprio sull’interpretazione coranica delle origini (quando la donna era a tutti gli effetti un membro attivo della società), scevra di distorsioni maschiliste e patriarcali, al fine di riappropriarsi di quei valori culturali e confessionali arabo-musulmani e di far valere la figura della donna e la sua dignità al pari di quella maschile, proprio come il Profeta aveva predicato.

Nell’ultimo secolo, i movimenti femministi arabi sono stati profondamente influenzati dalle alterazioni politiche e dai tumulti che hanno scosso il Medio Oriente e il Nord Africa, lasciando un significativo impatto sulla rappresentanza politica e sociale delle donne, che, tra alti e bassi, hanno giocato un ruolo fondamentale soprattutto durante le rivolte del 2011, dallo Yemen al Marocco. Se nei trent’anni precedenti, nonostante gli sforzi per emergere, la figura femminile era sostanzialmente rimasta relegata a un ruolo subordinato al governo o ai partiti islamisti (come i Fratelli Musulmani che scoraggiavano le attività politiche delle donne e ridicolizzavano la parità di genere), è proprio con le rivolte che queste sono state coinvolte, alla stregua degli uomini, segnando forse per la prima volta una reale trasformazione del loro ruolo politico. Ripercorrendo a grandi linee la fase successiva alle rivolte nei diversi paesi arabi, la situazione appare piuttosto omogenea, caratterizzata da numerosi esempi di crescita politica, sociale ed economica (come la concessione di seggi rosa in Parlamento, l’abolizione della poligamia, la possibilità anche per la donna di presentare istanza di divorzio unilaterale, il diritto sulla custodia dei figli non più prerogativa esclusivamente maschile, il riconoscimento dei reati di violenza domestica e stupro, fino ad arrivare alla dichiarazione della parità di genere nella costituzione marocchina), alternati a fasi di regressione (e preoccupazione), dovute soprattutto a impedimenti culturali, religiosi, sociali e politici, promossi da politiche più radicali dei partiti islamisti al potere, come è accaduto in Egitto durante la presidenza di Morsi e in Tunisia col partito Ennahda.

Un caso a parte, per le caratteristiche e gli aspetti legati alla particolare natura del suo sistema politico, è il Libano, dove alla forma di patriarcato sociale e culturale si somma anche un patriarcato religioso. Infatti, a differenza degli altri stati arabi, in Libano dalla fine del mandato francese, è stato stabilito il cosiddetto ‘Patto Nazionale’, un sistema di governo consociativo basato sulla condivisione del potere tra le molteplici confessioni cristiana, musulmana sunnita e sciita (più altre minoranze). Il primo ostacolo per le donne e la loro partecipazione alla vita politica è data dal fatto che la scelta dei candidati e la nomina dei funzionari avvengono secondo quote confessionali prestabilite e non secondo capacità personali, in aggiunta a numerose leggi sullo statuto personale che favoriscono gli uomini negli aspetti giuridici e sociali, lasciando alle donne solo un ruolo marginale (dagli anni ’60, le donne iniziano ad ottenere dei seggi in parlamento in sostituzione dei parenti di sesso maschile uccisi, in arresto o perché particolarmente celebri). Negli ultimi anni, sulla scia delle rivolte arabe, anche in Libano l’attivismo delle donne è stato in grado di produrre dei risultati positivi a livello legislativo, con la promulgazione di leggi contro la violenza domestica e lo stupro, ma secondo gli studiosi, fino a quando nel paese dei cedri i patriarchi religiosi (cristiani e musulmani) continueranno a esercitare il potere, sarà difficile superare lo scoglio della disparità di genere.

Stessa sorte, ma per motivi diversi, sembra toccare alle donne yemenite, considerate da sempre molto attive sul piano politico, sebbene negli ultimi decenni i cambiamenti occorsi non siano stati loro favorevoli, tanto che oggi si registra una profonda contrazione nella rappresentanza politica femminile. Durante le rivolte più recenti, gli osservatori politici hanno descritto l’attivismo delle donne yemenite come straordinario e dinamico e ne è una prova l’assegnazione del premio Nobel per la pace 2011 a Tawakkol Karman, attivista yemenita premiata ‘per la battaglia non violenta a favore della sicurezza delle donne e del loro diritto alla piena partecipazione nell’opera di costruzione della pace’.

È innegabile che, negli ultimi anni, qualche passo avanti sia stato fatto in tema di diritti e partecipazione politica femminile, però è altrettanto vero che le speranze che hanno accompagnato le rivolte arabe non sono state soddisfatte appieno (spesso le proposte di concessione di quote rosa in Parlamento sono rimaste sulla carta). Nonostante una contrazione nella partecipazione femminile, il femminismo nel mondo arabo è ancora tenacemente finalizzato a decostruire le radicate interpretazioni maschiliste e a rileggere i versetti con sguardo di genere, essendo forse questo il primo problema da estirpare.

Un appunto che potrebbe essere fatto allo studio di Fatima Moussawi and Samira Koujok, riguarda forse la troppa generalizzazione con cui si è parlato dell’islam politico e, in particolare, dei Fratelli Musulmani (egiziani), i quali appaiono come un’organizzazione contraria a priori alla partecipazione femminile alla politica e alla vita sociale dell’epoca e alla parità di genere. Se si consulta lo statuto della Fratellanza e si analizzano le idee riformiste di al-Banna (il fondatore dell’Organizzazione dei Fratelli Musulmani), si può notare come le donne fossero invitate a partecipare attivamente, proprio come accadeva alle origini dell’islam. Ci fu, all’epoca, un grande seguito femminile, tanto che una sostenitrice di al-Banna, Zaynab al-Ghazali, fondò la ‘Società delle Sorelle Musulmane’, anche se non si fuse mai con la sezione maschile. Questa figura, nonostante la sua profonda contraddittorietà, è ancora oggi considerata una eredità fondamentale per tutta la nuova generazione di attiviste islamiche, donne colte e militanti, che chiedono un ruolo sociale e politico più attivo.

Una ulteriore riflessione sulla contrazione della partecipazione femminile nel corso degli ultimi anni, riporta a quanto era accaduto dopo la morte del Profeta: corsi e ricorsi storici che dovrebbero far riflettere non tanto sul ruolo dell’islam e dei i suoi principi, quanto su come questi siano stati in passato e siano ancora oggi interpretati in maniera distorta.