Mondo Editoriali

Governance delle aree protette e riduzione della povertà

Ngove Fausto Fidalgo Daniel

È ormai ampiamente riconosciuto che la creazione, lo sviluppo e una efficiente gestione delle aree protette e di conservazione fanno parte di una strategia di conservazione globale che può contribuire alla riduzione della povertà. Sin dai primi anni ’90 i governi di molti paesi, soprattutto nei paesi in via di sviluppo, hanno raddoppiato l’estensione delle aree di protezione della natura. Oggi circa il 15% della superficie terrestre e circa il 7% degli oceani sono protetti.
È probabile che queste percentuali aumentino, fino a raggiungere l’obiettivo del 17% di copertura delle aree protette e del 10% delle aree marine protette entro il 2020, (Aichi Biodiversity Target 11). Ma la grande sfida è rappresentata dalle 238.563 aree protette nel mondo, solo il 21% delle quali presenta modalità di gestione coerenti con gli obiettivi di conservazione della biodiversità.

Figura 1. Distribuzione speciale delle aree protette del mondo

Fonte: UNEP-WCMC IUCN e NGS (2018).

Ci sono due questioni di fondamentale importanza. La prima è che la progettazione di aree protette apparirebbe relativamente facile se si tiene presente quanto indicato da atti di politiche internazionali quali Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, la Convenzione sulla diversità biologica (CDB) e la Convenzione di Ramsar.

Tuttavia, i costi degli interventi di conservazione sono sostenuti dalle comunità locali. Uno studio recente (Jones et al. 2018) ha rilevato che la maggior parte dei parchi nazionali, delle riserve, delle aree di conservazione, si trovano oggi ad affrontare una pressione umana crescente e intensa. Gli autori affermano che solo il 42% delle aree protette su un campione di 8.950 aree studiate è libero di presenze umane e si trova principalmente in aree remote di nazioni sviluppate come la Russia e il Canada.

D’altro canto, le aree protette caratterizzate da rigidi standard di conservazione della biodiversità (categoria I e II della Unione internazionale per la conservazione della natura -IUCN) sono più soggette a livelli significativi di pressione umana, rispetto a quelle che hanno un approccio più equivalente e conciliano gli obiettivi di conservazione con i bisogni di sussistenza delle comunità locali (Categoria III e IV della IUCN), nelle quali viene data maggiore attenzione a una buona governance (Conservation Initiative on Human Rights, 2014)

In molti paesi in via di sviluppo, la creazione di aree protette è l’opzione di sviluppo economico più fattibile e sostenibile ed è diventata una delle principali fonti di entrate.

Una buona gestione delle aree di conservazione va a vantaggio dei gruppi più poveri: impiegando persone locali, fornendo beni e servizi all’industria del turismo, e consentendo la nascita di piccole imprese comunitarie e portando effetti positivi per la riduzione dei livelli di povertà.

Non si tratta di una coincidenza, ma nella maggior parte dei paesi in via di sviluppo ricchi in termini di biodiversità, come i paesi dell’Africa orientale e meridionale (ESA), le risorse finanziarie necessarie per addestrare e equipaggiare adeguatamente i ranger sono scarse. Nel frattempo, la biodiversità locale è messa sotto pressione da una serie di minacce, tra cui la perdita e il degrado degli habitat, il sovra sfruttamento delle risorse naturali, l’inquinamento, i cambiamenti climatici e le specie esotiche invasive. Queste minacce sono spinte da alti livelli di povertà, crescita della popolazione e aumento delle richieste globali di risorse naturali.

Inoltre, la maggior parte delle aree protette dei paesi ESA sono state individuate dalle autorità nel periodo coloniale e hanno avuto uno status di aree di conservazione rigoroso, che quindi esclude le comunità locali. Negli anni ’80 la maggior parte di queste aree strettamente protette hanno iniziato a registrare un declino significativo della biodiversità, e ciò ha richiesto l’introduzione di un approccio di conservazione più inclusivo. L’approccio che comprende l’uso sostenibile e la partecipazione locale è stato negli ultimi anni la soluzione impiegata per la ridurre i conflitti e la diseguaglianza sociale. La persistenza delle aree protette è collegata alla loro capacità di contribuire allo sviluppo sostenibile.

Ulteriormente nella maggior parte delle aree protette del mondo ci sono persone che risiedono al loro interno o fanno affidamento sulle risorse naturali per la propria sussistenza.

In generale i vari approcci adottati per il coinvolgimento delle comunità hanno prodotto risultati contrastanti. In pratica, l’equa distribuzione dei benefici finanziari e sociali può rischiare andare più a vantaggio di piccole élite che dei poveri o dell’intera comunità locale. Problemi di trasparenza e responsabilità richiedono che tutte le comunità, incluse le donne, siano realmente coinvolte nel processo decisionale.

È inoltre fondamentale che vi sia chiarezza sulla proprietà della terra e delle risorse naturali, a tutela della biodiversità e di una equa condivisione dei benefici derivanti dall’uso sostenibile delle risorse.

Il secondo problema con le aree protette riguarda gli obiettivi della Convenzione sulla diversità biologica, che sembrano semplici, oggettivi, facilmente comparabili tra le varie località e poco costosi da misurare. Ma in realtà spesso i governi ignorano gli avvertimenti della convenzione per proteggere le aree “di particolare importanza per la biodiversità” e si concentrano invece quasi esclusivamente sulla massimizzazione della superficie (Barnes et al., 2018).

La strategia di molti paesi è quella di individuare le aree protette in regioni remote, in cui i costi e i disagi per gli esseri umani sono minimi. L’Australia, ad esempio, ha collocato ampie aree protette nella vasta regione centrale desertica, piuttosto che nelle aree costiere dove andrebbero invece protette le specie in via di estinzione. Allo stesso modo, il Brasile ha designato nuove aree marine protette, ma non nelle aree vicino alle coste, dove c’è una maggiore presenza di varie specie di fauna selvatica minacciata dall’intensa attività umana.

Molti paesi ESA hanno una grande percentuale della loro superficie dedicata a qualche forma di conservazione. Paesi come la Tanzania, il Botswana, l’Eritrea e lo Zambia hanno già raggiunto più del 30% di copertura delle aree protette. Al Congresso mondiale dei parchi nel 2003, il governo del Madagascar si è impegnato a triplicare la copertura dell’area protetta fino al 10% della superficie del paese (Niskanen, 2011).

Uno studio realizzato da Ward e altri., (2018), nel Parco Mangaba in Madagascar, sui cambiamenti nella governance delle aree protette e l’accesso ai servizi ecosistemici da parte delle comunità locali, ha rilevato che nonostante le comunità locali siano state coinvolte nella governance del parco, la riduzione dell’accesso ai servizi ecosistemici sta provocando un costo in termini di opportunità nel breve periodo e pertanto è necessario prendere e effettuare interventi per la sussistenza.

È anche importante tenere conto della diversità dei valori culturali e sociali propri delle attività di sostentamento, invece di considerarli come problemi di conservazione o sostenibilità. È anche importante rafforzare le istituzioni a livello comunitario e garantire la partecipazione di tutte le persone coinvolte, al fine di evitare disuguaglianze.

D’altro canto, è importante valutare attentamente se le nuove aree protette create nell’ambito di Durban Vision, sia in Madagascar che in altre parti del mondo, possano essere definite come co-gestite là dove ci sono regole e regolamenti che le comunità coinvolte devono seguire. Inoltre, è necessario verificare se i cambiamenti nelle condizioni di vita orientate dalle politiche tengano conto delle implicazioni culturali. Ciò esige una visione olistica di ciò che è implicito nei mezzi di sussistenza e significa sapere individuare dove intervenire per migliorare la situazione di coloro che ne sostengono i costi (Ward et al., 2018a).

Foto Credits: Elpaz.sol [CC BY-SA 4.0 (https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0)]

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