America Latina Editoriali

Le popolazioni indigene dell’America latina nella conflittualità globale

Zanotti Livio

Gli ultimi tre lustri hanno portato a compimento la potente e generalizzata rigenerazione dei popoli originari latinoamericani, i cui primi segni di rinnovata vitalità sono apparsi evidenti già sul finire del Novecento. Si tratta all’incirca di 30 milioni d’individui appartenenti a 500 diverse etnie: dagli aztecas, mayas, zapotecas, choles, tsotsil messicani e dell’istmo ai quechuas, aymaras, collas, guaranies, yanomami, ashaninka sparsi lungo la catena andina e attorno ai grandi bacini idrografici tra Brasile, Paraguay, Uruguay e Argentina, ai ranqueles, mapuches, tehuelches del Cono meridionale del sub-continente americano in entrambi i suoi versanti. Solo per nominare le etnie più note alle cronache antiche e odierne, sempre palpitanti di forti passioni individuali e inauditi sforzi collettivi. Storie interdipendenti e separate, rialimentate da una reciprocità culturale non sovrapponibile. Ne restano fuori le poche e relativamente poco consistenti tribù ancora isolate nell’Amazzonia più profonda.

Sommerso nel XVI secolo dalla iconografia cristiano-europea portata dalla Conquista spagnola e portoghese, il loro immaginario primitivo riemerge in piena era digitale come un blend che rinnova la sfida della storia a se stessa, nel suo ineludibile bisogno di trovare una spiegazione dell’accaduto per potersi raccontare. Gli indios erano svaniti come fantasmi nell’immensità di una geografia semisconosciuta o avevano scelto di mimetizzarsi in un asservimento subìto ma solo in parte fatto proprio. Si trattava di sfuggire alle spade di Cortes e alla croce degli evangelizzatori, a caccia dell’oro e delle loro menti. Si capisce che sono cambiati, pur restando gli stessi. Adesso riprendono in mano i destini allora perduti, nella misura in cui glielo consentiranno la propria riconquistata coscienza dei sincretismi che hanno attraversato e le contraddizioni di una realtà complessiva ormai inesorabilmente da condividere con i dominatori d’un tempo, alle cui trasformazioni neppur essi hanno potuto sfuggire.
Dopo 5 secoli di esistenze combattute, dimezzate ed espulse, tacitate dal clamore incessante della civiltà industriale seguita alla modernità, queste comunità sono tornate ad affacciarsi dalle periferie urbane che le hanno assorbite nella loro permanente precarietà, cosi come dagli altopiani, dalle cime più impervie, dalle foreste di una marginalità in cui erano state sospinte e recintate dalla Conquista e dalla successiva colonizzazione iberica ed europea, che quest’anno compie il cinquecentenario. La loro rivendicazione etnica e sociale è divenuta inevitabilmente politica. Ha preso, a questo punto, le forme (ma solo quelle) del nostro Occidente. Prima hanno occupato le piazze delle città, poi sono entrate nei palazzi del potere di molte capitali. Dovunque il recupero del nucleo d’identità originaria passa attraverso una fervida crescita demografica e culturale in gran parte meticcia, che si fa spazio nella istituzionalità contemporanea, nel suo sistema di diritti.

“Noi siamo qui da sempre e ci resteremo per sempre…”, dice senz’ombra d’enfasi Antal dal suo posto di blocco armato nella provincia cilena di Arauco. Esprime un convincimento placido, respirato dalla nascita. Dietro di lui le gelide acque color acciaio del Pacifico, i pennacchi fumosi dei vulcani andini davanti agli occhi nerissimi e luminosi. Ascoltandolo, si capisce che il tempo, il ritmo del suo tempo interiore, lentissimo, impercettibile alle nostre ansie atomiche sincronizzate con l’orologio hitech che sfuma l’istante presente per anticiparsi al successivo, è ancora quello dei suoi avi più lontani. Non conosce il disincanto che ne è conseguito, lo scetticismo che tanto pericolosamente ci porta a bordeggiare il ciglio del nichilismo in cui a volte precipitiamo. Al rovescio, guarda simbolicamente all’indietro per recuperare senso nel passato, come l’orologio (e la politica) del presidente boliviano Evo Morales, cocalero e filosofo empirico, che sulla facciata del palazzo di Governo a La Paz fa andare le lancette all’incontrario (da destra verso sinistra).
Senza proporselo, Antal agita lentamente la carabina automatica calibro22 che impugna con la sinistra (è mancino: al mio arrivo, per stringermi cortese la mano, si è passato l’arma alla destra), mentre spiega le ragioni del suo servizio di guardia. Qualche non raro malintenzionato e puntualmente i carabineros, ogni volta che nei boschi o nelle centrali elettriche della regione si verificano attentati, gli piombano addosso. Lui è lì per dare l’allarme. Non vuol dirmi la sua età, ma è giovanissimo. La tenda di pelli animali alle spalle, una tradizionale ruka mapuche, funziona da garitta (l’autunno qui è d’un freddo invernale). Qualche metro più in là c’è un recinto di galline e pollastri starnazzanti. Le case del suo clan – mattoni, cemento e coperture di lamiera che alloggiano quasi un centinaio di persone – s’intravvedono in una radura oltre gli alberi, accessibile solo per quest’unica strada di terra battuta. Oltre si apre un’ansa del Bio-Bio, il mitico fiume del sud australe raccontato a Charles Darwin dal padre dell’antropologia italiana, il medico e scienziato Paolo Mantegazza, che esplorò gran parte del suo corso.

Questa latitudine è la più turbolenta del Cono Sud, tanto dalla parte cilena quanto da quella argentina. Al Conicet, il Consiglio delle ricerche di Buenos Aires, gli etnologi spiegano che i mapuches sono abitanti millenari della Patagonia, che hanno in buona misura dominato fino al 1800. E sebbene i più le rispettino, pochi di loro riconoscono le frontiere politiche che con i processi d’Indipendenza l’hanno divisa tra i due stati. Quindi quelli meno integrati, alcuni dei quali si sono reincorporati alla vita rurale dopo esperienze urbane anche prolungate, passano da un paese all’altro indifferentemente, attraverso percorsi a loro ben conosciuti e da qualche tempo hanno anche intensificato i matrimoni tra le famiglie degli opposti versanti. Mirano a stringere ulteriormente i vincoli di sangue e quindi la compattezza e la fermezza dei clan nell’esigere con l’identità anche pieni diritti di proprietà sulle terre ancestrali, nel frattempo vendute in molti casi dallo stato a privati e multinazionali.
All’orizzonte si pongono un progetto di autonomia la più ampia possibile. Ed è nella definizione di questo “possibile” (concetto ibridato dal secolare scontro-incontro con la cultura coloniale) che un po’ ovunque i popoli originari stentano a ricostituire una loro assoluta unità d’azione. “Siamo in molti contro l’uso della violenza” dice Miriam, tornata a fare la ginecologa tra i suoi, dopo essersi laureata a Buenos Aires e specializzata a Denver, in Colorado. Con peculiarità storiche e geografiche proprie, il conflitto mapuche resta nondimeno indicativo d’un fenomeno ben più ampio: quello delle identità locali che la globalizzazione, indebolendo gli stati nazionali, ha ravvivato ovunque (a parte quelle inventate strumentalmente e prive di autentiche radici), aggiungendo le loro effervescenze a quelle mai soddisfatte delle nazioni rimaste senza stato, in conseguenza delle spartizioni territoriali determinate dalle potenze egemoniche negli ultimi due secoli. Le politiche di dominazione alternate a quelle di assimilazione in America Latina non hanno ancora concluso i processi d’integrazione nazionale. E quelli che coinvolgono i popoli originari hanno ripreso vigore.
Il loro procedere è dialettico. Assorbono elementi di mediazione che la natura radicale della spinta identitaria tende a spostare in avanti per riavviare il seguente ciclo di trattativa. In Cile, il Presidente Piñera, destra liberista, non nega “il debito storico del paese verso gli indios”. E ha conservato e tenta sia pur timidamente di attivare il Ministero dei popoli indigeni creato dal precedente capo di stato, la socialista Bachelet. In Colombia, lo storico accordo di pace tra lo stato e la cinquantennale guerriglia delle Farc (Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia) ha uno dei suoi punti-cardine nel “risarcimento dei popoli indigeni”, innocenti vittime di soprusi da entrambe le parti. Oggi, il primo impegno dell’ex presidente Juan Manuel Santos che l’ha raggiunto dopo anni di tormentate trattative, è quello di convincere e indurre il successore, l’ultra-conservatore Iván Duque, a rispettarlo concretamente. Pace, sviluppo e sostenibilità ambientale passano attraverso la cruna del riconoscimento dei diritti degli indios latinoamericani anche per i documenti di lavoro del XIX Congresso Mondiale di Sociologia (Toronto. 2018) e del precedente, a Yokohama (2014).

Sono questi gli esiti di un quindicennio controverso (2003-‘18): segnato per la prima metà ed oltre da un’eccezionale crescita socioeconomica dell’intero continente latino-americano, poi frenata e respinta all’indietro dalla crisi che dal 2008 perdura acuta ancor oggi nell’intero Occidente. Tale è il contesto materiale. Dal Chiapas allo stretto di Magellano, però, memoria, coscienza, volontà collettive e individuali degli indios costituiscono ormai un patrimonio culturale consolidato. Dotato d’una energia dinamica propria, potenziata ulteriormente da sviluppo e diffusione delle neuroscienze, medicina, biologia, psicologia clinica, che hanno ampliato e riorganizzato il recupero e l’attualizzazione del loro immaginario storico. Cinque secoli di sconfitte, le immani lacerazioni, i lutti, le umiliazioni della colonizzazione non hanno potuto cancellarlo del tutto. Neanche il nostro sguardo eurocentrico è più assoluto. Tuttavia non ci siamo ancora assuefatti all’idea che visti dall’America, gli occidentali non siamo noi bensì gli indios.

 

Foto Credits:
– Secretaria Especial da Cultura do Ministério da Cidadania, Attribution-NoDerivs 2.0 Generic (CC BY-ND 2.0), attraverso www.flickr.com
– Senado Federal, Waldemir Barreto/Agência Senado, Attribution-NoDerivs 2.0 Generic (CC BY-ND 2.0), attraverso www.flickr.com
– Ministerio Bienes Nacionales [CC BY 2.0 (https://creativecommons.org/licenses/by/2.0)]