Centro America Opinioni

America centrale, Triangolo del Nord e Nicaragua. Una regione in fermento

Nelli Feroci Gianandrea

Il triangolo nord dell’America Centrale, regione con una popolazione totale di 30 milioni di abitanti composta da Guatemala, Honduras e El Salvador, ed il vicino Nicaragua, è in fermento. Si tratta di un’area tra le più violente del mondo, con un tasso di omicidi più alto che quello di zone di guerra, anche se è stata registrata una lieve diminuzione negli ultimi due anni. La combinazione di violenza, mancanza di opportunità economiche e forti disegualianze sociali ha fatto sì che migliaia di persone cerchino di emigrare verso gli Stati Uniti, lungo una pericolosa rotta che attraversa il Messico, percorso lungo il quale i migranti sono vittime dei cartelli della malavita. Per sfuggire alle minacce del crimine organizzato messicano, migliaia di migranti centroamericani si muovono in gruppo, formando vere e proprie carovane che ultimamente hanno richiamato l’attenzione dei media internazionali e che Donald Trump usa per legittimare la sua battaglia per la costruzione del muro antimigranti. A violenza e povertà si sommano democrazie estremamente fragili, caratterizzate da istituzioni deboli, corruzione dilagante ed altissimi livelli d’impunità.

Il Nicaragua, con una popolazione di circa 6 milioni di abitanti, fino a poco più di un anno fa era preso come esempio di pace sociale e stabilità rispetto ai suoi vicini del nord. Il paese è oggi piombato in una crisi política durante la quale il presidente Daniel Ortega, leader indiscusso del Fronte Sandinista di Liberazione Nazionale (FSLN), già presidente della Repubblica dal 1985 al 1990 e poi dal 2007 a oggi, sta dimostrando tutto il suo autoritarismo. Centinaia di dissidenti sono stati uccisi nel corso della repressione di una serie di proteste contro il regime, iniziate da studenti universitari nell’aprile del 2018 e che poi si sono estese a gran parte della popolazione. Da allora il paese è piombato in una spirale di repressione crescente che ha portato a centinaia di omicidi, arresti arbitrari e processi sommari. Non si è fatta attendere la condanna della grandissima maggioranza dei paesi latinoamericani ed europei, delle organizzazioni internazionali e degli Stati Uniti. Quest’ultimi hanno aggiunto alla condanna una serie di sanzioni che puntano a debilitare l’entourage di Ortega e di sua moglie Rosario Murrillo, vicepresidente del paese. Il parlamento europeo ha da poco approvato una risoluzione per spingere l’Unione Europea a fare lo stesso. Probabilmente proprio le sanzioni statunitensi e la cresente pressione internazionale, insieme alla situazione critica del Venezuela Madurista – alleato storico di Ortega e fonte d’importanti aiuti economici – e alle forti pressioni della cupola imprenditoriale nicaraguense, avevano spinto il regime sandinista a riaprire a fine febbraio 2019 un dialogo con l’opposizione, che però è stato interrotto a inizio aprile per mancanza di una disposizione a negoziare del regime. Un primo tentativo era già clamorosamente fallito nel maggio del 2018 a causa dell’ intransigenza di Ortega.

Nonostante nell’insieme non superino i 36 milioni di abitanti, i quattro paesi giocano un ruolo importante nelle dinamiche geopolitiche regionali. Durante la guerra fredda la regione è stata un territorio di scontro in cui gli Stati Uniti hanno applicato alla lettera la dottrina di contenimento dell’aumento del numero di paesi aderenti al blocco del comunismo sovietico. Questa è l’area latinoamericana dove le guerre civili, iniziate in quel contesto, si sono protratte più a lungo, fino al inizio degli anni Novanta del XX secolo, lasciando paesi impoveriti, con profonde ferite ancora aperte, molte armi in circolazione e ingiustizie sociali irrisolte. Il risultato è che – a più di vent’anni dalla firma degli accordi di pace in El Salvador, Guatemala e Nicaragua e dalla fine del regime autoritario militare in Honduras – i paesi della regione vivono una transizione verso la democrazia caratterizzata da continue battutte d’arresto e da un’altalenarsi di progressi e ritorni indietro che impedisce il consolidamento democratico definitivo. Dal punto di vista statunitense, anche oggi questi paesi rappresentano una “minaccia alla sicurezza nazionale” in quanto principale fonte della migrazione che entra dalla frontiera con il Messico, e allo stesso tempo zona di transito del narcotraffico.

Guatemala, Honduras e Nicaragua sono tra i pochi paesi in America latina e caraibica che non hanno ancora ceduto alla corte diplomatica della Cina e restano alleati di Taiwan, il piccolo Stato insulare che formalmente non è riconosciuto dai paesi membri dell’Unione Europea né da Cina, Russia e Stati Uniti, anche se con questi ultimi Taiwan ha dal 1979 un forte relazione informale, incentrata soprattutto sulla cooperazione militare in chiave anti cinese. Si tratta di una scelta che, nel caso di Guatemala e Honduras, sembra più legata alle pressioni degli Stati Uniti, preoccupati per l’espansione cinese nel continente americano, piuttosto che ad un’oggettiva valutazione dei vantaggi economici che un riconoscimento diplomatico della Cina potrebbe portare ad entrambi i paesi. I governi di Guatemala e Honduras, in cambio di un importante appoggio politico internazionale, sono schierati in maniera acritica a fianco degli Stati Uniti. Si pensi solo che sono stati tra i primi, e pochi, paesi a spostare le rispettive ambasciate in Isarele a Gerusalemme, seguendo l’esempio dell’attuale amministrazione statunitense. In agosto del 2018 El Salvador, governato dal Fronte Farabundo Martì di Liberazione Nazionale (FMLN) – partito nato dalla fusione di varie forze guerrigliere di sinistra negli anni ’80 – ha improvvisamente rotto le relazioni diplomatiche con Taiwan e le ha aperte con la Cina (Repubblica Popolare Cinese), attirando forti critiche statunitensi. Diverso il discorso per il Nicaragua sandinista, storicamente critico nei confronti delle ingerenze statunitensi nella regione, ma legato a Taiwan da una vecchia alleanza basata su generosi contributi per lo sviluppo e allo stesso tempo capace di mantenere buone relazioni economiche con la Cina. Qualche anno fa è stato firmato un contratto miliardario con una società privata cinese per un audace, ed altrettanto improbabile, progetto per aprire un canale tra Oceano Pacifico e Atlantico su territorio nicaraguense come alternativa al canale di Panama.

Altra questione che sta a cuore agli Stati Uniti è l’appoggio regionale al Venezuela. Anche in questo caso l’influenza statunitense, e sopratutto chi ad essa si oppone, si fanno sentire. Mentre Guatemala e Honduras sono schierati contro Maduro, il Nicaragua e il El Salvador sono tra i pochi paesi in America latina e caraibica che ancora appoggiano il traballante regime di Caracas. La posizione di quest’ultimi si spiega per l’affinità ideologica del FMLN salvadoregno e FSLN nicaraguense con il “socialismo del XXI secolo” professato da Hugo Chavez ed ereditato da Nicolas Maduro ma anche, e sopratutto, per il generoso appoggio economico che il Venezuela ha dato a entrambi i paesi attraverso donazioni monetarie e Petrocaribe, il programma di vendita di petrolio a prezzi scontati ai paesi alleati. Paesi che nella battaglia di voti in seno alle Nazioni Unite e all’Organizzazione degli Stati Americani si sono sempre opposti alle molte risoluzioni contro il regime Chavista-Madurista per violazioni dei diritti umani e della Carta democratica interamericana.

Guatemala, El Salvador, Honduras e Nicaragua, paesi piccoli e vulnerabili, ma con un peso specifico geopolitico importante, sono allo stesso tempo un laboratorio di nuove tendenze sociopolitiche ed economiche regionali. Nell’agosto del 2018 Guatemala, El Salvador, Honduras hanno aperto le proprie frontiere al libero tranisto di persone e merci, dando un importante impulso allo sviluppo dell’intergrazione economica tra le loro piccole ma dinamiche economie e di fatto creando una “Schengen centroamericana”, esperimento unico in tutta la regione. Più del 50% della popolazione della regione è composta da giovani sotto i 24 anni d’età che, nonostante violenza dilagante, povertà e governi corrotti e repressivi, sta dando vita a una vera e propria rivoluzione culturale e politica caratterizzata dal desiderio di rottura con dinamiche politiche ancora legate a strutture emerse dalle divisioni della guerra fredda. In Nicaragua i movimenti giovanili si sono affiancati al movimento indigeno-contadino che da anni protesta contro il regime sandinista per le espropriazioni di terre legate al fantomatico progetto del canale interoceanico e alla ben più concreta espansione dell’ allevamento bovino nelle regioni autonome indigene della costa atlantica.

Già tra il 2013 ed il 2015, giovani e studenti universitari senza affiliazione politica e coordinati attraverso i social media erano stati protagonisti di un vero e proprio terremoto politico che aveva scosso le fondamenta dello status quo della regione. In Guatemala, nel 2015, proteste spontanee contro uno scandalo di corruzione riuscirono a portare addirittura alle dimissioni del presidente e della vicepresidente della repubblica, poi processati e condannati. Nel caso guatemalteco, mentre nella fase iniziale le mobilitazioni furono convocate da giovani urbani al di fuori di qualsiasi movimento organizzato, i movimenti sociali più classici – come le organizzazioni contadine e le associazioni studentesche universitarie – iniziarono a partecipare alle proteste, dando vita poco a poco a spazi più formali per la deliberazione e il coordinamento, come la Piattaforma nazionale per la riforma dello stato, che presentò una proposta di riforma alla legge elettorale, o l’Assemblea sociale e popolare, che riunisce organizzazioni che includono studenti, popoli indigeni, contadini, donne e accademici e il cui scopo è articolare un dibattito sul futuro del paese.

Lo stesso anno in Honduras il “Movimiento de las Antorchas” (Movimento delle torce), promosso da giovani senza affliazione politica, ispirati dai coetanei guatemaltechi e in riposta ad uno scandalo di corruzione nella gestione della sanità pubblica, riportava manifestazioni di massa nelle strade per la prima volta dopo il breve colpo di stato militare del 2009. In Nicaragua, nel 2013, un movimento giovanile simile a quelli guatemalteco e honduregno organizzava giornate di protesta contro gli aumenti dei contributi per la previdenza sociale, dando vita ad un movimento più ampio che rispecchiava la crescente insoddisfazione nei confronti del governo sandinista. Fatti storici in paesi caratterizzati, sebbene in contesti politici diversi, da violenza, chiusura e censura nei confronti del dissenso sociale. Ciò nonostante, dopo i movimenti del 2013-2015, i tre paesi sembravano essere ricaduti nello status quo. Nel 2015 in Guatemala Jimmy Morales, un comico televisivo senza storia politica, è stato eletto presidente grazie ad una campagna anti-establishment e all’immagine di uomo nuovo. In realtà Morales, del fronte di orientamento conservatore e nazionalista, rappresenta gli interessi delle élite più conservatrici e retrograde del paese e dell’esercito. Nel 2014, Ortega in Nicaragua, dopo aver represso le proteste del 2013, ha modificato la costituzione per permettere la rielezione continua del presidente della repubblica, cercando di garantirsi di fatto una presidenza a vita. Qualcosa di simile è successo in Honduras, dove nel 2015 il presidente Juan Orlando Hernandez ha modificato la costituzione per poter essere rieletto nel 2017, in una tornata elettorale che ha vinto, ma la cui legittimità e correttezza sono state fortemente messe in dubbio da organizzazioni internazionali e dall’opposizione.

Nonostante questi passi indietro, un elettorato prinicipalmente giovane e molto giovane, il diffuso malcontento sociale nei confronti di violenza, corruzione e povertà e la diffusione dei social media sembrano portare verso un cambiamento irreversibile, sebbene accidentato, anche grazie a un altro elemento che rende unico il caso di questa area geografica: le Corti internazionali per la lotta contro la corruzione e l’impunità che iniziano ad operare con l’instaurazione della Corte internazionale contro l’impunità in Guatemala (CICIG) nel 2006. Sono istituzioni internazionali che appoggiano, con indagini investigative e l’istruzione di impianti accusatori, i sistemi di giustizia nazionali con personale internazionale. L’idea di base è che, laddove i livelli di corruzione e impunità nel paese siano talmente alti, il sistema di giustizia nazionale non può funzionare efficaciemente e in forma autonoma e che, pertanto, personale giuridico e investigativo internazionale e neutrale può facilitare lo svolgimento della giustizia. Di fatto la CICIG, dando appoggio alla giustizia nazionale, e in particolare all’ufficio del procuratore generale, dal 2006 ad oggi ha permesso lo svolgimento d’indagini e processi che hanno portato a centinaia di arresti per corruzione tra le più alte sfere politiche, una sorta di “mani pulite” locale, che ha coinvolto anche gli ex presidenti del Guatemala Otto Perez Molina (2012-2015), costretto alle dimissioni dalle proteste del 2015, e Álvaro Colom (2008-2012).
Il successo della CICIG è stato tale che questo modello istituzionale è stato incluso nei programmi di campagna elettorale di vari candidati presidenziali nella regione e ha portato all’istaurazione nel 2016 della simile Missione contro la corruzione e l’impunità in Honduras (MACCIH). Ma il successo della CICIG e della MACCIH ha anche portato ad una reazione durissima di gran parte delle élite politico-economiche dei due paesi. In Guatemala il presidente Jimmy Morales, con l’appoggio di un’alleanza trasversale di deputati, ha revocato il mandato alla CICIG ed espulso il suo personale internazionale nonostante il parere contrario della Corte costituzionale guatemalteca, dando vita ad una grave crisi istituzionale ancora irrisolta e che di fatto sta impedendo il lavoro della CICIG. In Honduras il congresso, anche qui unito in un patto trasversale anti MACCIH, sta cercando di approvare leggi per tentare di ridimensionarne l’operato. In entrambi i paesi le contromisure biparatisan della classe dirigente per difendersi dalle indagini sulla corruzione diffusa, hanno portato la società civile e partiti minoritari d’opposizione a coniare la definizione “pactos de corruptos” e “pacto de impunidad”, alleanze tra rivali politici che puntano a perpetuare l’impunità.

Altro esempio emblematico della resistenza al cambiamento delle classi governanti sono i tentativi di garantire l’impunità dei responsabili delle violazioni di diritti umani durante le guerre civili terminate neanche trent’anni fa. In Guatemala il congresso sta esaminando una proposta di legge che mira a concedere l’amnistia agli autori di crimini di lesa umanità commessi durante la guerra civile. Se approvata, la legge porterebbe alla liberazione di più di 30 condannati (per lo più ex ufficiali militari), invaliderebbe i processi in corso e bloccherebbe eventuali processi futuri per crimini legati alla guerra civile del 1960-1996. Il disegno di legge ha suscitato l’indignazione dei gruppi della società civile guatemalteca e delle organizzazioni che rappresentano le popolazioni indigene, che costituiscono il 40% della popolazione, ma oltre l’80% delle vittime degli abusi durante la guerra. Qualcosa di simile sta succedendo in El Salvador, dove la proposta di legge di “riconciliazione nazionale”, che deve ancora essere formalmente dibattuta dal congresso, fermerebbe tutti i processi in corso per violazioni dei diritti umani commesse durante la guerra civile del 1980-1992 e proibirebbe qualsiasi processo futuro. La proposta ha suscitato ampia condanna da parte della chiesa cattolica, dei gruppi per i diritti umani, della società civile e delle organizzazioni delle vittime nel paese.

Un alternarsi di progressi e battute d’arresto, dunque. Tuttavia il cambiamento va avanti e sembra irreversibile. Il 2019 si apre con una serie di novità interessanti: il 3 febbraio 2019 in El Salvador si è svolta la sesta elezione presidenziale dalla firma degli accordi di pace di Chapultepec del 1992 che portarono alla fine di una delle più sanguinose guerre civili dell’America centrale del XX secolo. L’equilibrio bipartisan che aveva caratterizzato la politica dalla fine della guerra civile è stato rotto dalla candidatura presidenziale di Nayib Bukele, un ex sindaco della capitale San Salvador, che ha prevalso con una vittoria schiacciante sui suoi rivali, l’attuale partito di governo FMLN e il partito di destra Alleanza repubblicana nazionalista (ARENA). Dalla fine del conflitto armato la scena politica di El Salvador era stata caratterizzata da un duopolio politico che rifletteva le divisioni della guerra civile. Il potere era stato monopolizzato da ARENA, che ha governato per venti anni consecutivi, con quattro presidenti tra il 1989 a il 2008, e dal FMLN che ha invece governato per i dieci anni successivi, con due presidenti dal 2008 ad oggi. Entrambi sono stati indeboliti da scandali e corruzione e nessuno dei due partiti è stato in grado di arginare la violenza delle maras, bande criminali che hanno reso il paese uno dei più volenti del mondo. Bukele, che si è presentato come candidato anti-establishment e anticorruzione, aveva fatto il suo debutto politico nel 2012 come sindaco del FMLN di un piccolo municipio nell’area metropolitana di San Salvador e in seguito aveva vinto le elezioni per il comune di San Salvador. Bukele, uomo d’affari di successo e abile pubblicitario con due esperienze d’amministrazione locale positive alle spalle, ma senza una struttura di partito e poca presenza sul territorio, ha vinto grazie ad una campagna polarizzante del tipo “o con me o contro di me”, incentrata sulla rottura con i partiti tradizionali e sulla lotta alla corruzione, abilmente diffusa attraverso i social media.

Il suo mandato presidenziale inizierà il 1° giugno 2019 e durerà cinque anni, senza possibilità di rielezione immediata. Bukele non ha mai preso parte ai dibattiti presidenziali pre-elettorali, ha rilasciato solo raramente interviste alla stampa e non ha un chiaro programma di governo, a parte la promessa di istituire una commissione internazionale contro l’impunità in El Salvador, sul modello della CICIG e l’opposizione nei confronti della proposta di legge di “riconciliazione nazionale”, che potrebbe comunque essere approvata dal congresso prima della formazione del nuovo governo. La sua vittoria conferma che anche in America Centrale i social media stanno diventando il fattore chiave per mobilitare l’opinione pubblica, vincere le elezioni e rompere strutture politiche consolidate. Ciò è particolarmente vero per El Salvador, dove fino ad oggi le province del paese erano caratterizzate da una forte identificazione con ARENA e FMLN, basata su una geografia politica risultata dalla presenza sul territorio delle fazioni della guerra civile e rimasta quasi inalterata per 30 anni. Nayib Bukele, senza struttura di partito e con una presenza territoriale debole, è riuscito a vincere in tutti e 14 i dipartimenti del paese attraverso una campagna elettorale virtuale. La fine del periodo di governo del FMLN ha anche importanti implicazioni geopolitiche, poiché i regimi autoritari del Venezuela e del Nicaragua perdono uno dei pochi sostenitori rimasti in America Latina. Non è ancora chiaro come si svilupperà la politica estera di Bukele, ma è improbabile che la nuova amministrazione salvadoregna appoggi senza critiche i governi di Nicolas Maduro e Daniel Ortega. Allo stesso tempo il futuro presidente salvadoregno, che a 37 anni è già stato definito il “presidente millenial” e sarà il piu giovane di tutta l’America Latina, ha già elogiato la dottrina della neutralità e non ingerenza negli affari esteri promossa dal nuovo presidente messicano Andrés Manuel López Obrador e quasi certamente non si allineerà acriticamente con gli Stati Uniti.

Nel frattempo, nel vicino Guatemala, in cui si voterà per il nuovo presidente a giugno 2019, l’ex procuratrice generale e strenua sostenitrice della CICIG, il magistrato Thelma Aldana, si è lanciata nella competizione elettorale come candidata del partito “Movimiento Semilla” (Movimento seme), che intende raggruppare e rappresentare i protagonisti delle proteste del 2015 e le organizzazioni sociali emerse da quella esperienza. In Honduras, dopo le contestate elezioni del 2017 e lunghi negoziati tra partiti politici, sono state approvate una serie di riforme costituzionali volte a rafforzare le istituzioni elettorali e garantire che le elezioni presidenziali del 2021 si svolgano in forma più trasparente e pacifica, mentre i giovani più attivi politicamente guardano con interesse al fenomeno Bukele in El Salvador. Le riforme elettorali honduregne molto probabilmente sanciranno anche la fine del sistema bipartitico Partito liberale-Partito nazionale, che ha governato Tegucigalpa per decenni, permettendo di correre ad armi pari al partito di sinistra Libertà e rifondazione (LIBRE), fondato dall’ex presidente Mel Zelaya, deposto nel 2009 dal colpo di stato militare, e al conduttore televisivo Salvador Nasralla, che si presenta come paladino della lotta conto la corruzione e che ha perso per un soffio le elezioni del 2017. In Nicaragua l’incertezza sul futuro del regime di Maduro in Venezuela, alleato chiave per Ortega, le sanzioni statunitensi e un’economia nazionale la cui crescita del prodotto interno lordo è passata da +6% nel 2017 a – 5% nel 2018 a causa del conflitto politico interno, stanno mettendo il regime nicaraguense sempre più in difficoltà.

Tra passi avanti e passi indietro il cambiamento procede lentamente e nei prossimi tre anni uno scenario nuovo potrebbe emergere nella regione centroamericana. Mentre in El Salvador sta per iniziare “l’esperimento Bukele”, dove, sebbene il presidente eletto rappresenti un nuovo fenomeno politico, dovrà negoziare con le forze politiche classiche del FMLN e ARENA per poter governare il paese, per un cambiamento negli altri paesi della regione si dovrà aspettare per vedere se i movimenti sociali che hanno caratterizzato le proteste degli ultimi anni saranno in grado di organizzarsi politicamente per opporsi sul piano elettorale alle élite politiche. In Guatemala il fenomeno è in corso, ma le forze politiche emerse dall’opposizione della società civile organizzata si stanno già pericolosamente dividendo e di fatto debilitando reciprocamente nella corsa per la presidenza. In Nicaragua non è chiaro come movimento studentesco, imprenditori e movimenti contandini e indigeni, che oggi sono i protagonisti dell’opposizione sociale nei confronti di Daniel Ortega, potranno dare vita a un blocco politico unitario in grado di presentarsi compatto alle prossime elezioni politiche. Esiste il rischio che i differenti gruppi sociali, oggi uniti nel tentativo di forzare le dimissioni anticipate di Ortega e rafforzare le istituzioni elettorali in vista delle prossime elezioni presidenziali, si divideranno in piccoli gruppi politici, con il rischio di presentarsi indeboliti contro il Sandinismo, che ad oggi continua ad essere il partito politico più organizzato nel paese. Il Nicaragua è oggi il paese dove la crisi della democrazia è più profonda e la priorità immediata è la liberazione dei prigionieri politici e il ripristino di garanzie minime per permettere indagini sulla repressione violenta e le morti degli ultimi mesi, così come lo svolgimento di elezioni credibili. In Honduras oggi, sebbene le riforme costituzionali volte a ristruttuare profondamente l’organizzazione dei processi elettorali rappresentino un grande progresso politico, si stanno negoziando le leggi che ne determineranno l’impatto reale e i partiti politici classici faranno di tutto per provare a limitare le possibilità di vittoria di forze politiche emergenti. Va detto anche che dopo le proteste del 2015 la società civile honduregna non è stata capace di organizzarsi così come è successo in Guatemala e continua ad essere atomizzata e legata ai principali partiti politici e sembrerebbe incapace di dar vita a un movimento politico indipendente. Resta da vedere se nei due anni che mancano da qui alle prossime elezioni generali emergerà una figura come Bukele in El Salvador, capace di unire la maggioranza della popolazione, soprattutto giovane, senza affiliazione politica e connessa attraverso i social media.

La lotta contro la corruzione e l’impunità resterà al centro dell’agenda politica, sia per i tentativi delle forze sociopolitiche emergenti di garantire lo svolgimento della giustizia, sia per gli sforzi delle élite politico-economiche di contrastare quei tentativi e mantenere lo status quo. In questa contrapposizione sarà importante il ruolo della comunità internazionale e in particolare degli Stati Uniti, che hanno da poco approvato una legge che stabilisce che funzionari pubblici o individui guatemaltechi possono essere soggetti a sanzioni finanziarie e/o a restrizioni alla libertà di spostamento per aver commesso, o anche solo agevolato, crimini legati alla corruzione come, per esempio, per aver disobbedito alle decisioni della Corte costituzionale del Guatemala, o per aver interferito con il lavoro di istituzioni o enti che ricevono fondi dagli Stati Uniti, inclusa la CICIG, mandando così un messaggio chiaro al così detto “pacto de corruptos”. Mentre l’influenza venezuelana nella regione va svanendo con l’indebolimento del regime madurista, resta da vedere se e quando altri paesi decideranno di riconoscere diplomaticamente la Cina e, in tal caso, se questa “minaccia” possa essere usata sul tavolo negoziale con gli Stati Uniti per chiedere una politica internazionale di lotta alla corruzione e all’impunità più flessibile, anche nel caso dei crimini di lesa umanità commessi durante le guerre civili.