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La dottrina militare di Pechino nel Mar Cinese Meridionale

Termine Lorenzo

Se le relazioni intraregionali in Asia orientale rimangono generalmente pacifiche, è vero che alcuni motivi di tensione sembrano aver aumentato negli ultimi anni la propria portata. Il caso più emblematico risulta essere quello del Mar Cinese Meridionale (MCM): una decennale diatriba sulla definizione dei confini marittimi tra gli stati costieri che sta, oggi, deteriorando la stabilità della relazione tra Pechino e Washington, oltre a quella tra la Repubblica Popolare Cinese (RPC) e i suoi vicini.

Nel Mar Cinese Meridionale, infatti, sembrano confliggere gli interessi di numerosi attori: almeno cinque stati rivieraschi (Cina, Malesia, Filippine, Taiwan e Vietnam), a cui vanno aggiunti gli Stati Uniti, ne chiedono la piena fruibilità. Rivendicati dalla RPC per la prima volta nel 1951, le acque e gli arcipelaghi nell’area risultano militarmente e commercialmente preziosi, i loro fondali sono ricchi di idrocarburi particolarmente ambiti dalle grandi compagnie petrolifere cinesi ed internazionali, e costituiscono un bacino dalla grande varietà di pescato.

Per il controllo del Mar Cinese Meridionale, la Marina dell’Esercito Popolare di Liberazione ha già combattuto in due occasioni degne di nota, senza menzionare l’infinito numero di dispute politiche e di provocazioni militari che si sono susseguite negli anni. Il primo caso è quello della battaglia per le isole Paracels, occorsa tra Cina e Vietnam il 19 gennaio 1974 e terminata con una vittoria cinese che stabilì il controllo de facto sull’arcipelago conteso. Il secondo caso è quella della battaglia per le isole Spratly, nel marzo 1988, durante la quale la Marina cinese affondò una nave da trasporto vietnamita intenta a sbarcare truppe su uno degli isolotti contesi. In seguito a questi due episodi, Pechino ha rovesciato i rapporti di forza nell’area, iniziando il graduale cammino che l’ha portata al controllo dei due arcipelaghi.

Nel 2013, però, le Filippine hanno fatto ricorso al Tribunale internazionale del diritto del mare, chiedendo di certificare la validità delle proprie rivendicazioni nel Mar Cinese Meridionale a discapito di quelle cinesi. Nel luglio 2016, la Corte Permanente di Arbitrato (caso 2013-19) si è espressa a favore di Manila respingendo le rivendicazioni di Pechino, che però non ha riconosciuto l’esito dell’arbitrato, pur avendo aderito alla Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, in seno alla quale opera la Corte. Dall’insediamento di Donald Trump, inoltre, si è assistito ad un inasprimento dell’approccio statunitense al dossier del Mar Cinese Meridionale, che ha portato alla conduzione di sette Freedom of Navigation Operations (FONOP), dimostrazioni di forza volte a dissuadere Pechino dal perseverare nella militarizzazione dell’area (Obama in otto anni ne aveva ordinate sei). Il 2018 è stato l’anno più pesante per la pace nel Mar Cinese Meridionale: oltre alle menzionate FONOP, si è assistito ad esercitazioni congiunte di Regno Unito e Giappone, al volo di B-52 americani, al passaggio di una nave da guerra sudcoreana, ad una quasi collisione tra una nave cinese ed una fregata statunitense. Se le tensioni dovessero crescere ulteriormente, un conflitto non sarebbe più inverosimile.

Per capire in che modo la Cina preveda di condurre operazioni per il controllo del Mar Cinese Meridionale, dobbiamo guardare agli sviluppi storici e concettuali della sua dottrina militare e, ça va sans dire, della sua dottrina navale.

La dottrina militare cinese

Per dottrina militare si intende «l’orientamento, discrezionale o vincolante, su quale sia da considerarsi ufficialmente la best practice militare», ovvero il framework che «specifica come un determinato compito militare debba essere portato a termine» e che, in tempo di guerra, chiarisce in gran parte «come le Forze Armate debbano combattere»  (Gray, C. S. 2016. The Strategy Bridge. Oxford: Oxford Univ. Press).

Nel 1985, una sessione allargata della Commissione Militare Centrale, l’organo di vertice per la politica di difesa della Repubblica Popolare Cinese, decideva una transizione storica. Nella propria valutazione dell’ambiente strategico internazionale, la leadership comunista concludeva che nessuna guerra fosse imminente e che, quindi, il principio maoista di “combattere presto, combattere in grande, combattere una guerra nucleare” potesse essere accantonato. Mutata la natura della guerra, anche la dottrina militare della “guerra popolare” andava incontro ad una profonda revisione. La Commissione elaborò, così, la dottrina della “guerra locale per obiettivi politici limitati” a cui ascrivere cinque tipi di operazioni: a) conflitti di confine su piccola scala b) contese marittime o per le isole c) attacchi aerei a sorpresa d) resistenza contro intrusioni nemiche limitate e) contrattacchi punitivi.

Pilastro della strategia cinese rimaneva, però, il concetto maoista di “difesa attiva” (积极防御), il cui embrione può essere fatto risalire agli anni Trenta ed è presente in tutti i documenti strategici dal 1949 ad oggi. In sostanza, la “difesa attiva” prescrive che la Cina adotti una postura strategicamente difensiva, ovvero che non spari il primo colpo di un conflitto, ma che conduca azioni tatticamente offensive per ottenere gli scopi difensivi del conflitto.

Dato che una guerra “esistenziale” non era più all’orizzonte, la priorità diventava approntare uno strumento militare capace di combattere conflitti limitati nelle periferie cinesi, in particolare quelle marittime. In questi teatri, una nuova rilevanza assumevano l’elemento sorpresa (quasi completamente assente nella “guerra popolare” maoista), la mobilità tattica e operativa delle unità, la precisione delle munizioni, l’addestramento e la professionalizzazione del personale.

Nel 1993, il dibattito strategico cinese, a partire dall’osservazione dell’Operazione Desert Storm, elaborava nuove linee guida con cui aggiornare la dottrina militare, spiegate efficacemente dal segretario del Partito Jiang Zemin: l’Esercito Popolare di Liberazione doveva prepararsi a «vincere guerre [locali] che potrebbero avvenire in condizioni di alta tecnologia»  (Jiang, Z. 2006. Jiang Zemin Wenxuan [Jiang Zemin’s Selected Works], Vol. 1. Beijing: Renmin chubanshe). Contemporaneamente, Pechino riconosceva la necessità di condurre operazioni sempre più coordinate, ossia coinvolgendo tutti i servizi (Esercito, Marina, Aeronautica, Forza Missilistica) e, successivamente, ravvisava l’esigenza nella guerra moderna di una «integrazione spaziale del campo di battaglia» e di «combattimenti congiunti integrati» (Dossi, S. 2014. Rotte cinesi. Milano: Università Bocconi Editore) che rendesse terra, mare e aria un unico dominio operativo (simile al concetto di jointness statunitense).

La rilevanza dell’elemento tecnologico è andata aumentando dal 1993, tanto che nel 2004 la dottrina militare veniva aggiornata per affrontare le “condizioni di informatizzazione” e, infine, nel 2015 le “guerre locali” diventavano “informatizzate”. La tecnologia informatica non risulta più, quindi, un fattore abilitante o un moltiplicatore di forza ma è diventata un vero e proprio dominio operativo, in cui è necessario ottenere la superiorità rispetto al proprio avversario.

Crediti immagine da U.S. Indo-Pacific Command, foto di MC2 Joe Bishop, attraverso http://www.pacom.mil/Media/Image-Gallery/igphoto/2001264508/

Elementi della dottrina navale cinese

La dottrina navale cinese ha riflesso e riflette, ovviamente, gli sviluppi della dottrina militare generale e della strategia militare della Repubblica Popolare Cinese. È, quindi, elemento pienamente integrato all’interno della dottrina generale che tratteggia quale forma assumerà la prossima guerra e come essa debba essere combattuta dalle Forze Armate cinesi.

Al 1985, come si è visto, si può far risalire l’inizio della “marittimizzazione” dell’Esercito Popolare di Liberazione, che ha portato la Marina cinese a godere di un trattamento preferenziale rispetto alle Forze di Terra e a diventare un servizio centrale delle Forze Armate cinesi. Per la Marina, allora, diventava prioritario difendere i “mari vicini” delimitati dalla prima catena di isole che circonda la massa continentale cinese e corre lungo la costa giapponese, le isole Ryūkyū, Taiwan, l’arcipelago delle Filippine e le isole Spratly. Ecco che il Mar Cinese Meridionale diventava un teatro operativo primario, il campo di battaglia principale in cui si sarebbero svolte le manovre di difesa, contrattacco e attacco.

Dalla metà degli anni Duemila, però, è stata introdotta una novità. Accanto alle operazioni nei mari vicini, nei documenti strategici cinesi si è iniziato a contemplare operazioni nei “mari lontani”. Pur senza soffermarsi su questo nuovo teatro, è cruciale capire quali implicazioni ha l’estensione del raggio d’azione per la presenza di Pechino nel Mar Cinese Meridionale. Ampliando la propria frontiera strategica marittima, la RPC ha, necessariamente, aggiornato la funzione riservata al MCM, passato da “periferia” a “cuore” della frontiera cinese.

Nel MCM, la Marina cinese dovrà consolidare il dominio di Pechino e fugare ogni rischio di contesa per l’area. Per farlo, nei decenni la Cina ha costruito una fitta rete di infrastrutture e ha sviluppato capacità sufficienti ad impedire ad un eventuale rivale un’agevole manovra nell’area in caso di conflitto, per rendere improbabile un successo militare e aumentare i costi operativi del nemico. A queste aree di interdizione navale, la letteratura statunitense si riferisce come Anti-access/Area-denial areas. In questo contesto, la Marina cinese sarebbe incaricata di condurre un vasto spettro di operazioni tra cui: a) operazioni offensive anti nave; b) operazioni offensive contro isole e scogliere; c) operazioni di blocco navale; d) operazioni contro costa; e) operazioni contro incursioni aeree.

La crescente rilevanza del potere navale è stata confermata anche dal nuovo libro bianco Strategia Militare Cinese (中国的军事战略) del 2015 secondo cui la «tradizionale mentalità [della Cina] per cui il dominio terrestre conta più di quello marittimo deve essere abbandonata» perché, data la direzione dello sviluppo economico cinese degli ultimi decenni, Pechino deve imparare ora a «governare i mari e gli oceani e proteggere i propri diritti e interessi marittimi». I mari menzionati non sarebbero più le coste e i bacini più vicini, ma si dovrà spostare l’attenzione sulla «protezione dei mari aperti», per la cui navigazione la Marina dovrà aggiornare la propria postura.

Il dibattito sulle effettive capacità cinesi sia nei mari vicini che in quelli lontani è aperto e attualissimo. Semplificando, sono ravvisabili due posizioni: da una parte, quella di chi crede che attraverso passi graduali Pechino abbia sviluppato negli anni reali capacità di contrastare operazioni e campagne nemiche nei mari vicini, anche in caso di conflitto con gli Stati Uniti; dall’altra parte, quella di chi crede che il command of the commons degli USA, ovvero il dominio incontrastato americano sugli spazi comuni (mare, cielo e spazio), non sia sfidato neanche nei mari vicini alla Cina. In questo caso si è cercato di presentare brevemente gli sviluppi concettuali occorsi in Cina dal 1985 ad oggi, lasciando ad altre sedi la valutazione delle capacità cinesi.