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Il “deserto verde”: l’impatto della monocoltura dell’eucalipto sulle comunità locali brasiliane

Apollo Simone

Conceição da Barra, stato di Espirito Santo: nel 1970, l’azienda Aracruz Florestal sbarca sul territorio di questa tranquilla cittadina costiera e inizia a coltivare alberi di eucalipto. Oggi le piantagioni hanno raggiunto un’estensione enorme, generando numerosi problemi per le comunità locali.

Rio Pardo de Minas, Minas Gerais: nel 1970, il governo statale concede alle aziende Florestaminas e Replasa di avviare la coltura dell’eucalipto e di portarla avanti per vent’anni. Al termine della concessione, viene garantita una proroga e sono messi a dimora nuovi alberi. Oggi circa 250.000 ettari di terre sono ricoperti dai fusti della specie arborea originaria dell’Oceania.

Imbaú, Paraná: in quest’angolo del sud brasiliano, la Klabin – una tra le più grandi aziende brasiliane produttrici ed esportatrici di carta – è presente da anni. Basta utilizzare Google Maps per rendersi conto di quanto gli appezzamenti di terreno dedicati alla silvicoltura siano predominanti rispetto alla vegetazione nativa: nel 2014 i filari di eucalipto e pini coprivano il 40% del territorio municipale.

Quelli appena elencati sono casi tipici di un fenomeno che, in Brasile, gli osservatori hanno denominato “deserto verde”. La silvicoltura praticata su scala intensiva è un affare per l’agrobusiness, ma ha come “effetto collaterale” un impatto negativo sulle condizioni di vita delle popolazioni locali che, se non opportunamente prevenuto, regolato e controllato, può diventare disastroso.

Chiaramente, l’impatto sociale, economico e culturale di questa pratica agricola si somma e si intreccia a quello ambientale, che va dalla desertificazione al deterioramento paesaggistico, dalla perdita pressoché totale di biodiversità vegetale e animale alla contaminazione di suolo, aria e falde acquifere. L’elenco dei danni potrebbe continuare ma è proprio sugli aspetti umani che desidero soffermarmi (fermo restando che la dimensione ambientale è strettamente collegata alla qualità della vita delle comunità locali).

Il tema del “deserto verde” è di grande importanza, viste le dimensioni del fenomeno e la sua distribuzione in molte regioni brasiliane: la silvicoltura intensiva è, infatti, ampiamente diffusa nelle regioni nord-est, sud-est e sud del paese. Inoltre, la questione potrebbe contribuire ad alimentare il dibattito sorto con la recente elezione di Jair Bolsonaro alla presidenza della repubblica. Il neoeletto ha più volte dichiarato che intende fondere il Ministero dell’Agricoltura, dell’Allevamento e degli Approvvigionamenti Alimentari (storicamente più vicino alle istanze provenienti dai grandi produttori agroindustriali brasiliani che a quelle dell’agricoltura familiare e della riforma agraria rappresentate dal Ministero dello Sviluppo Agrario – almeno fino a quando quest’ultimo non è stato declassato e inglobato nel primo nel 2016) e il Ministero dell’Ambiente (principale istituzione del paese preposta alla tutela ambientale). Le pressioni per non arrivare a quella che, di fatto, sarebbe una retrocessione delle politiche ambientali a livello federale probabilmente scongiureranno la fusione. Ciò non toglie, tuttavia, che alla lettura del programma di governo del Partido Social Liberal (PSL) del presidente eletto, in cui le politiche ambientali sono pressoché assenti, e all’analisi delle dichiarazioni di Bolsonaro e della sua cerchia, la tutela dell’incommensurabile patrimonio naturale del paese sudamericano non sembra tra le priorità del futuro governo.

 

Fábio Pozzebom/ABr [CC BY 3.0 br (https://creativecommons.org/licenses/by/3.0/br/deed.en)], via Wikimedia Commons

La silvicoltura intensiva è prerogativa di giganti del settore e aziende multinazionali e, senza un adeguato presidio da parte delle istituzioni federali, il fenomeno può crescere ulteriormente, mettendo a rischio l’ambiente e quella biodiversità per la cui conservazione il Brasile si è impegnato internazionalmente a partire dal Summit della Terra tenutosi nel 1992 proprio a Rio de Janeiro.

Il danno ambientale fa da cornice ai gravi problemi che il “deserto verde” provoca, su scala locale, alle popolazioni residenti nelle aree dove il fenomeno è diffuso. I tre casi citati all’inizio sono esemplari.

L’impatto del “deserto verde” si manifesta innanzitutto con la riduzione dell’estensione delle terre coltivabili a disposizione dei piccoli agricoltori, i quali si trovano così a sperimentare la palude della disoccupazione, della sottoccupazione e del lavoro schiavo (tristemente diffuso nelle campagne brasiliane). La sovranità alimentare risulta inevitabilmente limitata, mentre reddito e mezzi di sussistenza a disposizione del nucleo familiare tendono a ridursi, provocando l’aumento dei livelli di criminalità e violenza (anche di genere) e contribuendo ad alimentare i flussi migratori verso le grandi città e la crescita delle favelas.

In alcuni casi si può arrivare alla semi-militarizzazione del territorio. In Brasile, le uccisioni di attivisti per la difesa dell’ambiente e leader di comunità indigene non sono per niente rare e sono spesso accompagnate da espropri di terreni e violazioni dei diritti umani.

Sulla dimensione culturale delle comunità, poi, l’effetto è spesso disastroso. Ciò è dovuto all’isolamento, alla perdita di conoscenze e pratiche tradizionali legate all’agricoltura e al rapporto con la terra e allo smarrimento del senso di appartenenza al luogo che, di fatto, perde i riferimenti socio-geografici e topografici, trasformandosi – per dirlo con le parole dell’antropologo Marc Augé – in un nonluogo. Quando poi la silvicoltura intensiva si innesta in territori dalla forte presenza indigena o quilombola (i quilombos brasiliani sono antiche comunità di afro-discendenti che fuggivano dalla schiavitù e si riunivano in forma autonoma presso luoghi disabitati. La Costituzione brasiliana del 1988 tutela le numerose comunità che derivano da quelle esperienze, sparse in tutto il paese, mentre successivi interventi legislativi ne identificano caratteristiche e modalità di riconoscimento) o, addirittura, è adiacente o occupa illegalmente territori demarcati o in fase di demarcazione per essere abitati e preservati da popolazioni di questo tipo, l’effetto è potenzialmente catastrofico. Si va, infatti, ad interferire con stile di vita e habitat di comunità le cui culture sono già abbondantemente a rischio e ciò avviene nonostante la Costituzione brasiliana stabilisca che terre indigene e quilombos sono beni dell’Unione e, in quanto tali, inalienabili e indisponibili. Il primo esempio citato in quest’articolo ha generato proprio un conflitto legato alla terra, che vede loro malgrado protagoniste le trentaquattro comunità quilombolas dell’area.

Del resto, secondo i dati messi a disposizione dalla FAO, la domanda di materie prime derivanti dalla silvicoltura è in crescita. Secondo l’EMBRAPA, ente pubblico brasiliano che si occupa di ricerca e sviluppo nel settore agricolo, gli usi del legno di eucalipto vanno dalla trasformazione in carbone (utilizzato a sua volta nelle acciaierie), alla produzione di cellulosa e di semilavorati per l’edilizia. La coltura dell’eucalipto è considerata un’opportunità per chi vuole diversificare la rendita della sua proprietà, integrandola con altri tipi di coltivazioni o attività.

Il problema emerge quando dal piccolo appezzamento, magari non adatto ad altri generi di colture e perciò dedicato alla silvicoltura, si passa alla monocoltura intensiva su larghe estensioni di territorio. Inevitabilmente, questa seconda prassi porta con sé le questioni ambientali e sociali descritte poco fa.

Come periodicamente rilanciato dalle organizzazioni ambientaliste e dalle organizzazioni che difendono i diritti umani, l’alternativa passa per la riduzione dei consumi (anche attraverso politiche pubbliche più avanzate, per esempio, sulla riduzione degli imballaggi di carta), per la limitazione del peso della monocultura e per la regolamentazione rigorosa di un settore saldamente al centro del portfolio di multinazionali dell’agrobusiness.

Occorre contenere la produzione di eucalipto in aree di scarso pregio paesaggistico e altamente degradate combattendo, al contrario, il taglio di vegetazione nativa e utilizzando metodi produttivi più sostenibili per l’ambiente. In tal senso, sono interessanti le linee guida e le proposte operative che arrivano dalla New Generation Plantations (NGP), iniziativa coordinata da WWF International e alla quale hanno aderito governi locali, imprese del settore, agenzie governative e fondazioni di varie parti del mondo. Partendo dal presupposto che la domanda di legno e dei suoi derivati è crescente, la NGP è promotrice di una silvicoltura che sia una risorsa e non una minaccia per il territorio e le persone che lo vivono. Una piantagione di alberi dovrebbe mantenere l’integrità dell’ecosistema, proteggere e rafforzare alti livelli conservazione, essere intrapresa con processi che garantiscano il reale coinvolgimento di tutti gli attori interessati e, infine, contribuire all’occupazione e allo sviluppo economico. Uno dei modelli proposti, adottato anche in terreni un tempo coperti da foresta atlantica brasiliana, è quello del mosaico forestale. Senza approfondire troppo gli aspetti tecnici, questo consiste nel valorizzare terreni incolti e degradati – per esempio, aree deforestate a causa dell’eccessivo sfruttamento ai fini dell’allevamento bovino – destinando una percentuale della superficie alla silvicoltura e un’altra al riforestamento con specie autoctone.

Tuttavia, a pochi casi virtuosi fanno da contraltare condotte che non rispettano i principi appena menzionati e che vedono protagoniste proprio alcune delle aziende che fanno parte della piattaforma NGP. Emblematico è il caso che si è recentemente registrato in Maranhão, stato del nord-est del paese, nella microregione del Baixo Parnaiba, dove ad un colosso del settore della silvicoltura, presente dal 2008 dopo aver siglato un accordo con il governo statale, è stato proibito dalla giustizia federale di avviare nuove piantagioni oltre a quelle già esistenti. A meno di dieci anni dall’avvio delle coltivazioni, che alla comunità locale erano state presentante come una nuova opportunità di sviluppo, il risultato è che per far spazio all’eucalipto sono stati distrutti 15.000 ettari di cerrado (vegetazione ricca di biodiversità tipica delle zone interne brasiliane), l’agricoltura familiare è in sofferenza per gravi problemi idrici dovuti alla presenza delle piantagioni e, a completamento del quadro, i tanto annunciati posti di lavoro si sono tradotti in terziarizzazione sfrenata e alta meccanizzazione delle attività.

Per evitare che l’eucalipto crei il “deserto verde”, contribuendo ad impoverire le economie locali e abbattendo la biodiversità, tanto la società civile quanto le istituzioni pubbliche dovrebbero porsi alcune domande. L’area destinata alle piantagioni di eucalipto è di grandi o piccole dimensioni rispetto al territorio di un singolo municipio? Come sono reperiti i terreni da parte delle imprese? Questi sono disabitati o meno? Al loro interno esistono espressioni culturali o beni ambientali che andrebbero salvaguardati? L’avvio della monocoltura potrebbe compromettere saperi tradizionali e attività economiche preesistenti? Qual è il valore di tali attività? Esistono scelte produttive più sostenibili?

Sarebbe opportuno fare un ragionamento condiviso, insieme a tutti gli attori interessati, su quale sia la strategia di sviluppo migliore per chi vive nel territorio su cui insistono le coltivazioni di eucalipto esistenti o previste. Esse non sono un problema in sé, ma lo diventano quando interferiscono irrimediabilmente con la qualità della vita delle comunità e con l’ambiente, a causa di dimensioni sproporzionate e di una eccessiva pressione sul territorio, divenendo così un agente modificatore degli equilibri che lo regolano.