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In libreria – They Don’t Call Us Indian

Redazione

Anindya Raychaudhuri è nato in una famiglia indù originaria dell’attuale Bangladesh che nel 1947 si trasferì in India. Cresciuto tra ricordi familiari della terra perduta e le difficoltà di doversi identificare come rifugiato, oggi si occupa di studi postcoloniali, identità e culture delle diaspora, memoria collettiva e rappresentazione culturale di guerra e conflitti, teoria critica e marxismo, insegnando lingua e letteratura anglofona dell’Asia all’università scozzese di St. Andrews.  La sua tesi di dottorato, nel 2010, approfondì il tema delle questioni di genere e della memoria attraverso le rappresentazioni della guerra civile spagnola. Nel 2016, la BBC e la Sezione arti e discipline umanistiche del Consiglio nazionale delle ricerche inglese (Arts and Humanities Research Council, AHRC) lo inclusero nella lista dei pensatori più influenti della nuova generazione.

Tra i sui lavori più recenti si segnala un capitolo contenuto nel volume collettaneo curato da Eureka Henrich e Julian Simpson, intitolato History, historians and the immigration debate. Going back to where we came from, pubblicato da Palgrave Macmillan.

Il capitolo scritto da Anindya Raychaudhuri si intitola “They don’t call us Indian”: Indian Muslim voices and the 1947 India/Pakistan partition. Si tratta di uno studio etnografico, avviato nel 2011, che interroga la tradizione orale, cioè le voci delle persone, sulle identità nazionali e religiose nel subcontinente indiano, utilizzando una narrazione dissonante rispetto a quella dominante, veicolata anche dal cinema e dalla letteratura, che uno dei membri fondatori del collettivo Subaltern Studies, Partha Chatterjee ha definito ideologia egemonica. La stessa narrazione che ha portato alla rifondazione della tradizione indiana su un’unica base, quella dell’antica civilizzazione indù, facendo della tradizione islamica un corpo estraneo, senza apparentemente dare importanza al fatto che in India vivono oltre 170 milioni di musulmani (!).

Facciamo un passo indietro, di carattere storico, per capire meglio: in un processo di accelerata decolonizzazione dopo due secoli di dominazione inglese, il 15 agosto del 1947, quando l’India guadagnò l’indipendenza, si consumò anche la divisione formale, la cosiddetta partizione, di due stati, l’India e il Pakistan, l’uno a maggioranza indù e sikh, l’altro musulmano. Non fu un processo di separazione indolore, perché fu accompagnato da episodi di ferocia e violenza senza precedenti nella regione: il massacro di un milione o forse due di persone, un numero di donne stimato tra 100 e 150 mila che subirono violenza e furono costrette a convertirsi, un esodo di massa di milioni di persone e poi una guerra per il controllo della regione contesa del Kashmir, originariamente un importante centro per la religione induista, più tardi anche per il buddhismo e poi governato da sovrani musulmani.

La divisione in due stati cambiò per sempre e profondamente la vita quotidiana delle persone nel subcontinente indiano, sia nella dimensione pubblica che in quella privata. In particolare, si crearono due stati di frontiera: la parte ovest della provincia Punjab, a prevalenza musulmana, divenne lo stato del Punjab pakistano, mentre la parte a est, per lo più sikh e indù, divenne lo stato del Punjab indiano. Lo stesso avvenne con lo stato del Bengala: il Bengala occidentale andò all’India, mentre il Bengala orientale divenne una provincia del Pakistan, verso cui si riversarono improvvisamente milioni di musulmani, creando un sovraffollamento e una crisi abitativa che, combinandosi con la povertà endemica e alle carestie, portarono successivamente a rivolte, causando probabilmente alcuni milioni di morti, fughe di rifugiati in India e, infine, alla conquista dell’indipendenza dal Pakistan con il nome di Bangladesh.

L’esperienza dell’esodo forzato di massa ebbe la sua specificità, ma l’eco delle voci ascoltate in questo capitolo e delle loro storie risuona come un monito nell’aria, stimolando rimandi e paralleli con storie altrettanto drammatiche, come quelle vissute da palestinesi, armeni o curdi siriani. Un monito che sollecita, al contempo, una riflessione critica sulle pretese dei nazionalismi montanti nel mondo, in Europa come nel subcontinente indiano dove, ad esempio, l’attuale primo ministro dell’India, Narendra Modi, in nome del contrasto all’immigrazione irregolare, ha approvato nel 2018 una legge volta a privare della cittadinanza oltre 4 milioni di persone residenti nello stato dell’Assam, confinante con il Bangladesh e caratterizzato dalla presenza di una numerosa comunità musulmana. Una situazione critica che si aggiunge alle persecuzioni in Myanmar contro la minoranza islamica dei Rohingya, costretta a fuggire in Bangladesh.

Contro una lettura di comodo della storia, utile a tutti, secondo cui la partizione determinò un esodo di migranti musulmani che lasciarono l’India per trasferirsi in Pakistan e di indù e sikh che fecero il viaggio in direzione opposta, l’autore prova a dar voce alle testimonianze di chi non emigrò, cioè ai musulmani indiani che decisero di restare in India, cercando di capire se e come questi ridefinirono le proprie identità, in un contesto che andava imponendo un riallineamento di identità nazionali e religiose che avrebbe dovuto indurre i musulmani in India ad emigrare in Pakistan.

L’autore insegue le ombre di una storia lontana nel tempo e nello spazio per noi, ma che è profondamente europea, con migliaia di rifugiati poi riversatisi nel Regno Unito; è una storia che evidentemente interroga l’autore sul piano personale circa le proprie origini e l’identità sua e della famiglia. Sono le ombre di una storia lontana dalla narrazione ufficiale, che rischiano di scomparire nel silenzio, perché la generazione che visse direttamente quell’esperienza tra qualche anno non ci sarà più; eppure è una storia molto vicina a noi, perché vicino a noi vivono persone le cui storie sono state segnate da quegli eventi drammatici.

Rievocare storie occultate è un fattore di liberazione per chi le visse, perché il trauma causato dalle atrocità tremende e dalla privazione della propria terra d’origine, del luogo natio, della patria, senza poterne parlare rimane un trauma irrisolto, diventa cioè un carico disfunzionale che rende le persone più fragili, diminuendone la resilienza. Inoltre, la perdita della terra d’origine è sempre molto più che una semplice nostalgia retrospettiva e conservatrice di terre lontane, come ci ha insegnato quello straordinario affresco epico e realistico al contempo sull’intreccio di vicende private con gli avvenimenti della storia che è il film Heimat, del regista tedesco Edgar Reitz.

Rievocarle è un elemento di giustizia e un presidio in nome dell’intelligenza per tutti, smontando i miti identitari e le letture accomodanti della storia in un presente carico di incertezze e tensioni, in cui il richiamo continuo e di tutti alla complessità e al senso critico tradisce la mancanza sostanziale di vero senso critico, perché ripetendolo come un mantra fino a constatarne l’ovvietà si arriva alla sua più sconcertante banalizzazione.

Se gli orrori dell’Olocausto hanno permesso una lettura dell’abisso umano comoda nella sua semplicità manichea, distinguendo tra vittime (gli ebrei) e carnefici (i nazisti), mettendo da parte vittime che la politica o la morale giudicavano ambiguamente (popolazioni rom e omosessuali), la storia della partizione nel subcontinente indiano è intessuta di una continua trama di vergogna e onore al contempo, mettendo in discussione le identità nazionali su base religiosa. Vergogna per le atrocità commesse dai propri familiari; onore e rispetto per le decisioni prese, in un contesto tanto difficile, di fuggire o di restare nel luogo natio per avere un futuro migliore, ma anche per alcuni comportamenti solidali e di buon vicinato che si registrarono a fianco delle violenze perpetrate.

Le parole di H., Yasmin, Muqtada, Habibur e Afroz sono testimonianze preziose, che come Sajjad Ali Ashraf, il protagonista di Burnt Shadows, il quinto romanzo della scrittrice britannica d’origine pakistana Kamila Shamsie del 2009 (tradotto e pubblicato in Italia da Ponte alle Grazie col titolo Ombre bruciate), o come la voce narrante della protagonista del romanzo intitolato Agunpakhi dello scrittore del Bangladesh Hasan Azizul Huq, evidenziano il bisogno per tutti di una relazione intima, quasi fisica, con spazi come la moschea, la propria casa, il suolo patrio, che sono portatori sempre di un’identità multipla – sia l’India che l’Islam – nonostante la retorica prevalente vorrebbe imporre un’identità monodimensionale, facendo coincidere identità nazionale e religiosa.

A ben guardare, è un saggio che può interessare tutti perché è un’occasione affascinante per riflettere su come, individualmente e collettivamente, ricordiamo il passato, lo rielaboriamo e ricreiamo trasformandolo in storie, ma anche sul fatto che considerando unicamente vittime coloro che hanno subito traumi drammatici – come potrebbero essere i richiedenti asilo che sbarcano oggi sulle coste europee – rischiamo di non riconoscere loro uno spazio di protagonismo attivo e di trasformazione (agency) che invece li caratterizza e con cui riescono a (ri)creare storie, il mondo in cui vivono e le rispettive identità personali e collettive. Qualcosa che, del resto, in Italia è ben noto, grazie ai lavori pioneristici di Alessandro Portelli – che molta influenza ha sul capitolo di Anindya Raychaudhuri – sull’importanza della storia orale e della memoria, come avvenimento e non semplice specchio di quel che è accaduto, in particolare per i gruppi subalterni, le cui voci sono ignorate e dimenticate dalla storia ufficiale. Perché, come ha detto Portelli, “le fonti orali non ci dicono semplicemente quello che le persone hanno fatto, ma anche quello che volevano fare, quello che credevano di fare e quello che oggi pensano di aver fatto”.