Myanmar Opinioni

Modelli migratori nel Myanmar di Aung San Suu Kyi

Gaspari Marco

Il Myanmar, un tempo conosciuto come Birmania, è uno dei paesi più arretrati del sud-est asiatico. Rimasto intrappolato per oltre 30 anni in una ferrea dittatura militare, ha intrapreso sin dal 2012 un lungo e faticoso percorso di transizione democratica, non scevro da contraddizioni.

Negli ultimi mesi, infatti, il Myanmar è stato al centro delle critiche internazionali per via della crisi umanitaria che ha obbligato quasi 800 mila rohingya – la minoranza musulmana residente nella regione nord-occidentale del paese – a fuggire dalle persecuzioni dell’esercito birmano, rifugiandosi nel vicino Bangladesh. Quello dei rohingya è un caso da manuale di migrazione forzata, ma descrive solo parzialmente i modelli migratori della Birmania del nuovo corso.

Definita anche come il luogo dove la Cina incontra l’India, per secoli il paese è stato crocevia di migrazioni che ne hanno determinato l’attuale carattere multietnico. Oggi in Myanmar convivono 52 milioni di persone divise in 135 differenti gruppi etnici ufficialmente riconosciuti, ciascuno con la propria lingua, i propri costumi, le proprie tradizioni.

In generale, i flussi migratori del Myanmar moderno post-coloniale possono essere analizzati attraverso due grandi dimensioni. Da un lato il carattere volontario o forzato dello spostamento, dall’altro la destinazione interna o transfrontaliera della migrazione. Da sempre il Myanmar è un paese con una profonda vocazione rurale, situazione cristallizzatasi durante la dittatura. Sino al 2014, anno in cui è stato condotto il nuovo censimento nazionale, il 70% della popolazione viveva in aree rurali. Negli anni era aumentata la distanza tra le città e le campagne, creando un’impermeabilità tra contesti urbani e rurali che neanche i fenomeni migratori interni erano riusciti a scalfire in maniera significativa. Sulla base delle ricerche condotte dal Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione (United Nations Fund for Population Activities, UNFPA), gli schemi migratori interni sino al primo decennio degli anni Duemila erano sostanzialmente a compartimenti stagni: dalle città ci si spostava verso altre aree urbane e, viceversa, dalle campagne si emigrava verso altre zone rurali. Per quanto riguarda le migrazioni internazionali, nel corso degli anni migliaia di birmani erano stati costretti a lasciare il paese per motivi politici, sia a causa delle persecuzioni dell’allora giunta militare, sia per via dei conflitti esistenti in molte zone del paese tra l’esercito regolare e le decine di gruppi armati etnici. A questi ovviamente si univano molte persone che decidevano di spostarsi in ragione della diffusa povertà e di un’economia centralizzata sempre più asfittica che andava incontro a cicliche stagnazioni.

L’inizio della transizione democratica nel 2012 ha però aperto il paese agli investitori internazionali, rilanciando la crescita economica e favorendo un rinnovato processo di industrializzazione. Ciò ha avuto l’effetto di avviare una trasformazione da un’economia prevalentemente agricola a una sempre più basata su industria e servizi. Basti pensare che nel 2010 l’agricoltura rappresentava il 37% del Pil del paese, mentre nel 2015 era scesa al 28%. I processi di industrializzazione, si sa, sono da sempre vettori di migrazioni; di conseguenza si è iniziato a modificare, seppur lentamente, il vecchio schema migratorio interno, incidendo positivamente sull’urbanizzazione del paese. Paradigmatica è la situazione della ex-capitale Yangon, che conta con un’area metropolitana di 7,5 milioni di persone. Dal 2012 è cresciuta quasi del 5% e si stima che la città nei prossimi 15 vedrà un aumento demografico del 40% in ragione dei flussi migratori interni.

Crediti immagine: da EU Civil Protection and Humanitarian Aid Operations. Attribution-NoDerivs 2.0 Generic (CC BY-ND 2.0), attraverso www.flickr.com

Ciò avviene perché il modello di sviluppo industriale del paese è sostanzialmente duale, incentrato nella regione di Yangon e in parte in quella di Mandalay. Si pone quindi il problema di come il paese possa governare in forme sostenibili questo processo di urbanizzazione regolando i flussi interni. Una delle sfide sul versante interno sarà quella di favorire un’urbanizzazione che non sovrappopoli eccessivamente aree già abitate, attuando anche un serio piano di sviluppo rurale con la costruzione di infrastrutture viarie, sociali ed economiche in grado di creare opportunità anche nelle zone di provenienza dei migranti.

Ed è fisiologico, ovviamente, che le aree da cui le persone si spostano maggiormente, siano quelle con gli indicatori socio-economici più bassi come la regione di Magway e la regione del delta di Ayeyawady. In quest’ultima, addirittura, UNFPA ha calcolato che almeno un nucleo familiare su quattro abbia una persona che vive fuori.  Altre aree che sono riuscite ad attrarre i flussi di migrazione interna sono le regioni frontaliere del Kayah, dello Shan e del Kachin. Queste regioni sono situate al confine con Cina e Tailandia e pare abbiano beneficiato di un certo dinamismo economico derivante dalle attività commerciali di frontiera. Non è un caso se con Yangon queste tre erano le uniche che sino al 2015 registravano un saldo in attivo tra migranti in entrata e in uscita. A livello nazionale, nello stesso anno il Ministero dell’immigrazione birmano indicava che erano 9 milioni i migranti interni, pari al 20% della popolazione nazionale.

In un paese con un’età media al di sotto dei 30 anni, non sorprende che la maggior parte delle persone che decidono di migrare siano molto giovani, in età compresa tra i 20 e i 30 anni, secondo i dati dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (International Organization for Migration, IOM). La composizione anagrafica dei migranti interni muta leggermente quando si analizzano separatamente i contesti urbani. In questo caso il flusso migratorio coinvolge in maniera proporzionalmente più rilevante anche fasce tra i 30 e i 40 anni. Da questi dati appare ancora più evidente come sia fondamentale governare il processo di urbanizzazione onde evitare l’abbandono di intere aree del paese da parte della popolazione più produttiva, rischiando di aumentare la sperequazione sociale tra le diverse regioni.

Per quanto riguarda invece la composizione di genere dei migranti, la distribuzione è piuttosto bilanciata, con le donne che tendono a spostarsi in età lievemente più giovane rispetto agli uomini. Un dato interessante riguarda la relazione diretta tra stato coniugale e localizzazione dei punti di arrivo delle migrazioni femminili. UNFPA ha stabilito infatti che le donne sposate tendono a prediligere spostamenti intraregionali, mentre quelle nubili o senza prole sono più disposte ad allontanarsi dalla propria regione di provenienza. Tale rapporto di causa-effetto non è invece osservabile nei migranti uomini. Permangono notevoli differenze nei motivi che spingono uomini e donne a spostarsi. Il 50% degli uomini decide di partire per motivi lavorativi. Nelle donne il dato scende al 23%, con il 50% che invece si sposta per seguire la propria famiglia. Tale condizione è da porre in qualche modo in relazione anche con le forti diseguaglianze di genere in termini salariali. La retribuzione media degli uomini migranti interni è di 90 dollari, mentre quella delle donne è di 60. In tutti i settori vi è una disparità salariale, a eccezione di quello alberghiero.

Ma è la tutela dei lavoratori migranti tout court che dovrebbe interessare le politiche nazionali, come più volte segnalato dall’Organizzazione Internazionale per il Lavoro (International Labour Organization, ILO). Le persone che sono emigrate recentemente tendono a registrare livelli di occupazione superiori rispetto ai coetanei non migranti. Il dato è particolarmente evidente tra i giovani. Secondo gli ultimi dati ufficiali pubblicati nel 2016 da UNFPA, appena il 6,8% dei migranti tra i 20-24 anni risultava disoccupato, mentre per lo stesso gruppo d’età non migrante il dato saliva al 10%. Se da un lato questo suggerisce che chi decide di spostarsi ha migliori opportunità lavorative, ad un’analisi più accurata indica anche come i giovani migranti siano più disposti ad accettare qualsiasi tipo di impiego al di là del livello di condizioni e tutele offerte. In Myanmar l’economia informale contribuisce a quasi il 40% del Pil e sembra attrarre maggiormente i migranti, adoperati come forma di manodopera a basso costo non specializzata.

Il nuovo corso ha in parte modificato anche il paradigma delle migrazioni internazionali. Il cambio più evidente riguarda i fenomeni di migrazione forzata. Con l’avvio del processo di transizione, molti dei vecchi esuli politici hanno deciso di ritornare nel paese. Benché vi siano ancora persone che fuggono da contesti di conflitto e di elevata insicurezza umana, il tema delle migrazioni forzate in Myanmar è associato alla tragedia dei rohingya e al loro esodo obbligato. Al di là di questo, chi decide oggi di lasciare il Myanmar lo fa essenzialmente per motivi economici.

Sebbene ufficialmente siano registrati 2 milioni di birmani residenti all’estero, sia l’IOM che il Ministero dell’immigrazione birmano ritengono che tale numero sia sottostimato e che la cifra reale dovrebbe aggirarsi attorno ai 4,2 milioni. La ragione di tale discrepanza deriva dal fatto che la fonte dei 2 milioni è il censimento del 2014. Tale censimento non poteva tenere conto dei nuclei familiari integralmente emigrati all’estero così come si ritiene probabile che molti degli intervistati siano stati riluttanti a condividere informazioni su familiari emigrati all’estero in maniera irregolare. Ad ogni buon conto, il 70% degli emigrati si sono stabiliti in Tailandia e provengono in maggioranza dalle regioni di frontiera del Mon, del Kayin e dello Shan. È interessante notare che ciò che ha influito nella decisione di emigrare all’estero non è stata tanto la vicinanza alla frontiera intesa come brevità del percorso, ma l’esistenza di reti sociali transfrontaliere e una migliore consapevolezza circa le opportunità di lavoro all’estero. Inoltre, dei 2 milioni ufficialmente residenti all’estero, circa la metà hanno lasciato il paese a partire dal 2010, il che parrebbe indicare come la trasformazione democratica ed economica non sia ancora riuscita ad influire sul processo migratorio internazionale.

In generale, migranti interni ed internazionali sembrano provenire da nuclei familiari differenti, con pochi punti di sovrapposizione. Sembra inoltre che i nuclei familiari che al loro interno hanno almeno un migrante internazionale vantino una situazione economica migliore rispetto agli altri. Ciò indica che chi decide di emigrare all’estero abbia una estrazione socioeconomica superiore rispetto a chi sceglie di rimanere all’interno del paese ovvero che le rimesse dall’estero modifichino la situazione socioeconomica del nucleo di appartenenza. Sulla base degli ultimi dati ufficiali disponibili, risalenti al 2015, il totale delle rimesse degli emigrati birmani ammontava a 118 milioni di dollari, pari allo 0,2 % del Pil del paese. In realtà, uno studio pubblicato dalla Cooperazione allo sviluppo britannica alla fine del 2017 stima che, includendo nel computo anche i birmani emigrati all’estero in maniera irregolare o non ufficiale, il valore totale possa arrivare a 8 miliardi di dollari, equivalente al 13% del Pil. Solo dalla Tailandia si stima che provengano 4,7 miliardi di dollari di rimesse all’anno con un valore medio che oscilla tra i 196 e i 1.300 dollari a persona. Se all’inizio dell’apertura del paese sia era ventilato che questo avrebbe comportato un rientro dei lavoratori birmani residenti all’estero, ciò non è ancora avvenuto e non sembra avverrà almeno nel medio periodo. Infatti, nonostante le indubbie riforme ed il sostanziale miglioramento delle condizioni di vita, il divario salariale tra Myanmar e paesi di destinazione migratoria – come Tailandia e Malaysia – rimane ancora troppo alto.

Sarà fondamentale per il paese regolamentare il sistema di trasferimento delle rimesse che, ad oggi, è quasi integralmente affidato a canali informali. La sfiducia di molti birmani per le banche, i problema di accessibilità, gli elevati costi di transazione e i tassi di cambio sovrapprezzati applicati dagli istituti di credito formali sono solo alcuni dei problema da affrontare. Un altro elemento che riduce il ricorso a canali formali deriva dal fatto che chi non ha un contratto regolare e registrato spesso non dispone di un conto bancario.

Regolamentazione del sistema delle rimesse per chi è emigrato all’estero; governance del nuovo fenomeno di urbanizzazione coniugato a un piano di investimenti per le aree rurali, tutela dei diritti dei lavoratori migranti e lotta contro le diseguaglianze di genere: sono solo alcune delle sfide principali che l’attuale governo e quelli venturi dovranno affrontare in un paese in continuo movimento.