Mondo Editoriali

Il pregiudizio come minaccia alla sicurezza globale

Una risposta diversa alle tre domande che in molti si pongono rispetto al tema delle migrazioni

Bello Valeria

Esistono tre domande relative alle migrazioni che probabilmente in molti si pongono oggigiorno. Cominciamo dalla prima: perché così tante persone s’interessano negli ultimi anni di “crisi migratoria” o di “crisi dei rifugiati”?

Quasi certamente tutti abbiamo letto da qualche parte, anche da fonti importanti, che l’attuale crisi dei rifugiati è la peggiore avvenuta dai tempi della Seconda Guerra Mondiale. Questo è senza dubbio vero, ma solo se prendiamo in considerazione l’attuale crisi a livello globale e la crescita dei flussi migratori nelle regioni asiatiche e africane, dove l’aumento del numero di coloro che si sono visti costretti a lasciare le proprie case per trovare rifugio altrove è molto significativo. In Europa, invece, il flusso dei migranti e dei rifugiati è in tutto e per tutto simile a quello registrato durante gli anni ’90, con la guerra del Golfo e le guerre nei Balcani. Anche in quegli anni, tuttavia, si parlava di crisi dei rifugiati; così come di crisi migratoria si parlava agli inizi del 2000. Di conseguenza, è lecito chiedersi perché tanto clamore intorno a questa tematica? Perché quest’ossessione pubblica e privata della questione migratoria? Sicuramente c’è un dato che è notevolmente aumentato e che spiega le ansie di molti: le morti nel Mediterraneo dovute ai viaggi organizzati con assoluto disprezzo per il valore della vita da parte di trafficanti e contrabbandieri.

A questo punto, quindi, la seconda domanda è d’obbligo: perché, nonostante le importanti politiche e misure messe in atto per rafforzare i controlli alle frontiere e gli accordi con i Paesi terzi per l’esternalizzazione di questo stesso controllo, i numeri di coloro che intraprendono questi viaggi e delle conseguenti morti nel Mediterraneo non sono diminuiti?

By Ggia [CC BY-SA 4.0 (https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0)], from Wikimedia Commons

La risposta è molto semplice. Queste politiche e misure di rafforzamento dei controlli alle frontiere europee, seppure con un obiettivo lecito ed un’intenzione positiva, ossia quelli di evitare le morti nel Mediterraneo, impedire il proliferare di attività criminali e l’accesso di individui pericolosi attraverso le frontiere dell’Europa, hanno in realtà avuto un effetto paradossale ed assolutamente controproducente. Nel tentativo di garantire vie di accesso sicure, con controlli assidui mirati a evitare il transito della criminalità, ciò che si è ottenuto è di aver reso impossibile, a causa delle difficoltà burocratiche, l’accesso legale all’immigrazione sia di tipo economico, sia di tipo forzoso, come quella dei rifugiati; mentre chi si arricchisce grazie a tali difficoltà burocratiche sono proprio i trafficanti, che non si pongono il problema di come soddisfare le richieste burocratiche, ma solo si prefiggono di eludere il controllo e fornire un accesso non documentato alle persone che cercano in Europa la possibilità di una vita migliore. Nel frattempo, chi fugge per avere una speranza di vita non conosce, né ha a volte il tempo materiale di preoccuparsi di quale sia l’accesso nei termini di legge. Da qui l’inefficacia o addirittura la dannosità delle politiche di rigidità delle frontiere, che invece di limitare il volume dell’immigrazione non documentata, aumentano le opportunità di profitto dei trafficanti e del contrabbando, innalzando il costo e il rischio dei viaggi intrapresi lungo il Mediterraneo o attraverso la frontiera tra il Messico e gli Stati Uniti. Come si vede anche dalle statistiche di Frontex – l’agenzia europea di controllo delle frontiere – con l’aumento della rigidità delle politiche di accesso dei confini, crescono anche i numeri dell’immigrazione non documentata ed il volume di affari dei trafficanti. Questo d’altronde è abbastanza ovvio: se le politiche di frontiera da un lato rendono l’accesso legale impossibile per gli immigrati cosiddetti economici e dall’altro limitano quello per i rifugiati, che spesso si vedono respinti nonostante esistano gravi rischi per la loro incolumità, queste persone non hanno altra opzione che tentare l’entrata non documentata e rivolgersi ai servizi forniti dal contrabbando.

In un mondo dove la percezione del rischio è il sottofondo, continuo ed irritante, di ogni stato mentale relativo a tematiche di rilievo tanto per la vita privata quanto per quella pubblica – dal lavoro, alla salute, all’educazione di qualità, alla vita stessa, finendo per pervadere l’intera idea di futuro e dei diritti garantiti all’individuo – la migrazione è divenuta allora il bacino in cui si raccoglie tutta la frustrazione umana legata alla età dell’insicurezza. Da un lato, chi difende strenuamente il concetto dei diritti per tutti ritiene, e probabilmente a ragion veduta, che dove non vi è rispetto per la vita umana, non c’è teoricamente, a lungo andare, salvezza per nessuno. Dall’altro, chi è attanagliato dall’ansia di una possibile caduta nella precarietà nell’immediato vorrebbe trincerarsi dietro la protezione di uno stato nazionale forte, dove la presunta appartenenza ad un gruppo che si ritiene portavoce della vera identità di un territorio dovrebbe essere ragione sufficiente per garantire una certa priorità nella ripartizione dei diritti.

Indipendentemente dal partito preso, nessuna delle due posizioni affronta il problema alla radice; piuttosto, queste contrapposizioni reificano nell’immagine vulnerabile del migrante i propri demoni: quello specchio del sé in un futuro incerto più o meno vicino.

Il mondo contemporaneo allora si configura come un luogo di insicurezza dove il singolo ha bisogno di sentirsi parte di un gruppo per aggrapparsi a delle speranze di vita futura. In qualche modo, l’idea di un collettivo di sicurezza è ritornato ad essere l’istinto primordiale sine qua non. La differenza sta in quanto ampio sia il gruppo con cui le persone si identificano: se ampio al punto di includere il concetto di umanità globale o se ristretto al punto tale che bisogna continuamente rinforzare gli argini soggetti alla tensione delle inevitabili forze centrifughe, che non cessano di esistere in un mondo umano che non è fisicamente fatto per restare immobile, tanto meno dinanzi a delle difficoltà di vita. A ben vedere, il senso di appartenenza in sé non comporterebbe nessuna controindicazione per l’essere umano se questa adesione non discriminasse in base a delle categorie prefissate, decidendo chi è degno o no di certi diritti, ma si estendesse ad un senso di comunità ampio ed inclusivo.

Chi ha come demone la perdita dei diritti umani su scala globale e difende il diritto all’asilo e quello alla mobilità di ognuno ha in mente questo concetto di appartenenza ampia. Esistono tentativi inclusivi di stati nazionali basati sull’interculturalità ed entità politiche postnazionali. Tra questi ultimi, l’Unione Europea se ne era fatta portavoce con il motto “Uniti nella diversità”. Eppure, anche questi tentativi non sono scevri dall’aver imposto una logica protezionistica in un qualche momento, perché, comunque, il senso di insicurezza esiste e pervade l’esistenza quotidiana. Di conseguenza, stiamo probabilmente cercando risposta ad una domanda che non ancora è stata chiarita a sufficienza. Dunque, bisognerebbe iniziare ad affrontare il problema alla sua vera radice: l’età dell’insicurezza ha un rimedio?

Fondamentalmente, a livello planetario gli individui hanno paura perché nel presente perdono o si vedono privati dei diritti e, per quanto riguarda il futuro, si vedono minacciati da un cambiamento in direzioni non prevedibili che potrebbero teoricamente comportare ulteriori importanti perdite: per alcuni sono le tecnologie che minacciano le interazioni umane; per altri sono culture differenti che si imporranno sulle consuetudini odierne; per altri ancora, è la minaccia fisica dall’annichilimento umano per via del cambiamento climatico, delle guerre e delle armi nucleari, e, non per ultimo, del terrorismo internazionale. Questi problemi sono comuni a tutti gli esseri viventi, in tutti i luoghi, anche se ovviamente per alcuni in maniera più pervasiva che per altri. Come garantire gli stessi diritti a tutti gli esseri umani? Esistono risposte ovvie a questi problemi, che in linea di principio non avrebbero necessità di grandi elucubrazioni ma di efficacia politica poiché è nella carta de Nazioni Unite, di cui quasi tutti gli stati del mondo sono membri, che troviamo il quadro giuridico internazionale per assicurare la garanzia dei diritti. Per rinforzare questa logica, i nuovi obiettivi dello sviluppo sostenibile puntano ad un ritorno al concetto del rispetto di diritti ed una pianificazione razionale e basata sull’interesse dell’umanità nel lungo periodo.

Tuttavia, questo interesse dell’umanità deve coniugarsi in termini globali. Questo perché se si pensa di poter garantire il rispetto dei diritti in una parte del mondo senza che ciò abbia un riflesso in altre aree del pianeta, ci si ritrova nel medio o lungo periodo di nuovo allo stato attuale della crisi. Un esempio ne è la guerra in Siria o quella in Iraq, l’instabilità di alcune regioni africane e l’aumento dei flussi migratori odierni in Europa e il revival di alcuni movimenti populisti, razzisti e xenofobi. Eppure, la crisi dei rifugiati di questi ultimi anni altro non è che un’eco della crisi dei rifugiati degli anni ’90, quando ci furono la prima guerra del Golfo e le guerre nei Balcani. È per questo motivo che non si può parlare oggi di una crisi dei rifugiati o di una “crisi migratoria”, ma bisognerebbe invece parlare di una crisi ricorrente poiché, in realtà, ci troviamo dinanzi ad una crisi di lungo periodo che si riacutizza in alcuni anni per effetto di guerre e dell’aumento della precarietà in alcune zone del mondo che sono anche dovuti a scelte prese e perpetuate in altre aree del mondo.

Questa interconnessione delle problematiche di sicurezza non è sconosciuta, tanto è vero che da lì nasce anche il tentativo di esternalizzazione della protezione della sicurezza messa in atto dall’Unione europea nei paesi limitrofi, con sussidi offerti a stati terzi affinché il controllo venga operato nei paesi di transito. Eppure questa risposta, poiché poggia sull’idea pregiudiziale che bisogna proteggersi dall’altro, finisce nel lungo periodo col rinforzare una logica protezionista che in teoria era la base di partenza del tentativo opposto di risposta alla crisi.

In altre parole, viviamo un paradosso. Il tentativo di superare l’età dell’insicurezza ci rende schiavi dell’idea di sicurezza e sembra obbligarci ad operare in base alla logica del pregiudizio. Tuttavia, il pregiudizio ci fa ripiombare nella logica dell’insicurezza, poiché nel momento in cui priviamo gli altri della possibilità di godere della sicurezza ottenuta all’interno del club protetto, questo si trasforma in mancanza di eguaglianza di diritti che, prima o poi, ritornerà a minacciare l’esistenza dei diritti per tutti, poiché creerà una vulnerabilità che minaccia il concetto stesso di umanità. In altre parole, il pregiudizio si presenterà sempre come una minaccia alla sicurezza globale.

Non si può trovare, dunque, la risposta della sicurezza globale, dell’uomo in quanto tale, in un discorso pregiudizievole dei diritti. Non solo per ragioni idealistiche – l’uguaglianza dei diritti di tutti gli esseri umani – ma anche nella logica materiale della protezione nazionale, poiché il pregiudizio prima o poi finisce col minacciare anche i connazionali stessi attraverso le vie più disparate, poiché la creazione e l’esistenza di vulnerabilità in alcune zone del pianeta agiscono come un cancro sociopolitico che prima o poi si riverserà su altre aree. Questo è forse l’esempio più lampante del fatto che la protezione basata sull’accesso selettivo ai diritti non solo mette a rischio la sicurezza umana dei migranti, ma anche quella nazionale e quella internazionale. In questo senso, non c’è nessun motivo per cui la sicurezza umana debba essere in contrasto con i concetti di sicurezza nazionale ed internazionale. Al contrario, l’unica via da intraprendere, se davvero si è interessati a garantire la sicurezza nazionale e internazionale, è passare attraverso un concetto di sicurezza globale in cui tutti i singoli individui possano contare sul rispetto dei diritti umani e dell’uguaglianza. Perché il mondo è rotondo e, per quanti sforzi si facciano per negarlo, a tutti gli esseri umani sono state date gambe per percorrerlo, braccia per lavorarlo, una mente per organizzarlo ed un cuore per amarlo.