Egitto Opinioni

La povertà è stata la vera causa della rivoluzione in Egitto?

Giampaolo Mattia

Il 25 gennaio 2011 può essere considerato il crocevia della storia contemporanea dell’Egitto. Centinaia di migliaia di persone, senza distinzione di classe sociale e appartenenza politica, occuparono le piazze di tutto il paese per protestare contro il regime di Mubarak.
Sotto lo slogan di ‘aish, Horria wa ‘Adala ijtima‘iyya (Pane, libertà e giustizia sociale) i manifestanti denunciavano le politiche, la corruzione e le disuguaglianze del pluridecennale “sistema” (Nizam) di Mubarak.
All’inizio delle proteste – e in parte anche al giorno d’oggi – molti osservatori hanno considerato la cosiddetta “Primavera egiziana” un evento del tutto spontaneo, poco organizzato e di breve durata. Questo giudizio è stato di fatto smentito sia dalla ricostruzione storica dell’opposizione al regime di Mubarak, sia dai risvolti che ha avuto negli ultimi anni il governo Al-Sisi, che sta mostrando tutta la sua debolezza per mezzo della brutale repressione sui suoi oppositori, evidenziando al contempo l’incapacità di avviare un processo di riforma degli assetti economici e sociali.
La rivolta del 25 gennaio (Thawrat 25 yana’ir o Thawrat yanair) getta le sue basi nei primi anni Duemila, durante le manifestazioni a sostegno del popolo palestinese nella seconda Intifada (tumulto, rivolta). In quelle dimostrazioni di piazza (alle quali, per ovvi motivi politici regionali, il regime egiziano non poteva opporsi) si levarono le prime voci critiche verso il sistema Mubarak. Un sistema che escludeva gran parte della società dagli ambienti decisionali della politica e dell’economia, reprimendo, grazie al sostegno dei potenti apparati della Sicurezza Nazionale (’Amn al-Dawla), ogni segnale di resistenza dal basso.

By (Mona sosh) [CC BY 2.0 (https://creativecommons.org/licenses/by/2.0)], via Wikimedia Commons

Se le proteste del primo decennio degli anni Duemila hanno avuto, tranne qualche eccezione, poco successo in termini di partecipazione popolare (le molte manifestazioni di quel periodo contavano più poliziotti che manifestanti), l’aumento della repressione, l’uso sistematico della tortura, la disoccupazione giovanile sopra il 40 per cento e l’aumento della povertà hanno portato in piazza migliaia di egiziani.
Non ci sorprende, dunque, che lo slogan rivoluzionario fosse “pane, libertà e giustizia sociale”, tre fattori del tutto mancanti ad un regime, come quello di Mubarak, considerato dall’occidente uno dei più stabili dello scacchiere mediorientale.
Una stabilità fondata esclusivamente sull’uso brutale degli apparati di sicurezza e sulla repressione di ogni forma di opposizione, senza che il governo mettesse in campo politiche alternative per contrastare i decennali problemi elencati in precedenza.
Nonostante gli stretti controlli del regime, i numerosi gruppi di opposizione – movimenti sociali e gruppi informali di cittadini – si sono organizzati con metodi alternativi, come i social network, i blog e un’attività sempre più fitta all’interno di spazi sociali nelle grandi città.
Le denunce di torture e le sparizioni forzate, insieme alle testimonianze dirette sulle condizioni sociali di gran parte degli egiziani, hanno influito in modo determinante sulla presa di coscienza da parte della popolazione.
Naturalmente non bisogna considerare il ruolo della rete come motore della rivolta del 25 gennaio, perché si rischierebbe di trascurare tutta l’attività di opposizione svolta durante gli ultimi anni del governo Mubarak.
Per molti, l’effetto controrivoluzionario che si è abbattuto sul paese, culminato con il colpo di stato del generale al-Sisi, ha sancito la fine del processo rivoluzionario egiziano. Tuttavia molti dati non confermano quest’analisi. Infatti, se da un lato la presa del potere da parte del nuovo presidente – eletto nelle ultime elezioni con una maggioranza schiacciante – rappresenta una nuova fase autoritaria nel paese, dall’altro conferma che gli egiziani ancora non hanno avuto ciò che sette anni fa chiedevano in piazza.
È in questa ottica che bisogna osservare le dinamiche sociali egiziane e la rivoluzione che, per quanto non abbia portato il cambiamento sociale sperato, ha cambiato definitivamente l’approccio degli egiziani alla politica e alla società.
L’uso maggiore della repressione da parte del governo – si contano più di 120 mila sparizioni forzate tra il 2016 e il 2018 – e la messa al bando del movimento della Fratellanza musulmana – uno dei maggiori movimenti di opposizione in Egitto – hanno di fatto creato una polarizzazione violenta nel paese, dimostrando ancor di più di quanto sia debole il nuovo raìs a livello interno.
Nonostante il poco spazio politico, numerosi sono gli scioperi che colpiscono il paese, soprattutto nella zona industriale di Mahalla al-Kubra e nel Delta (zona settentrionale del paese), dove il movimento dei lavoratori porta avanti, sin dal 2008, una lunga battaglia contro i bassi salari e la mancanza di tutele sul posto di lavoro.
È proprio sugli operai delle industrie e sugli attivisti dei diritti umani che oggi la repressione del regime si fa sentire, chiudendo a quel processo di democratizzazione che si era aperto nel 2011 e facendo tornare l’Egitto a quella “democrazia mascherata” fatta solo di tornate elettorali che si contraddistinguono per l’ingente tasso di brogli e repressione.