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I rischi del rientro forzato dei rifugiati in un paese “insicuro” come l’Afghanistan

Un’indagine sul campo realizzata da Oxfam

Redazione

L’Afghanistan resta uno dei paesi maggiormente colpiti dalla violenza politica, dagli effetti del conflitto sulla popolazione civile e dalla fuga di masse di profughi dalle terre di origine. Dopo che il 2016 si è dimostrato un anno record per caduti fra la popolazione, i dati relativi ai primi sei mesi del 2017 segnano un incremento del 23 per cento delle vittime femminili e del 9 per cento per quanto riguarda i minori che hanno perso la vita. Fra il primo gennaio e il 3 dicembre 2017, sono stati registrati 372.977 nuovi sfollati interni (Internal Displaced Persons – IDPs), che si sono aggiunti ai circa 1.553.000 già presenti nel paese.
Nonostante gli sforzi, la quota di poveri rimane quella del 2001, con circa il 36 per cento degli abitanti al di sotto della soglia di povertà. Le stime pubblicate dall’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari (UNOCHA) nella revisione semestrale del Piano per la risposta umanitaria (Humanitarian Response Plan) 2017 quantificano in 7,4 milioni il numero di afgani bisognosi di aiuto umanitario.
Tuttavia, nonostante il persistere della crisi e dell’insicurezza per la popolazione, l’Afghanistan sta sperimentando un elevato flusso di rimpatri, che da inizio 2015 ha coinvolto circa 2 milioni di rifugiati all’estero, provenienti soprattutto da Iran e Pakistan e, in misura minore, dall’Europa. Si tratta prevalentemente di rimpatri forzati frutto di cambiamenti nelle politiche dei paesi ospitanti, con un’elevata quota di donne e minori.
Le pressioni che costringono al rientro coinvolgono principalmente rifugiati che non sono stati ufficialmente registrati come tali al loro arrivo o, nel caso della quota proveniente dall’Europa, di espatriati ai quali è stato negato il riconoscimento del diritto di asilo oppure che hanno rinunciato a proseguire nella procedura. I poco meno di 15.000 rimpatriati dal vecchio continente sono una porzione marginale della massa in movimento, equivalente allo 0,6 per cento del totale dei rientri censiti a partire dal 2015, mentre il 58,6 per cento dei 2.316.558 afgani che negli ultimi tre anni hanno varcato la frontiera a ritroso proviene dall’Iran e il 40.8 per cento dal Pakistan. Nel caso di quest’ultimo paese, il numero di espulsioni è anche inferiore ai piani governativi, che nel 2015 consideravano di rimandare in Afghanistan almeno 1,5 milioni di profughi.
Come già accennato, le condizioni delle terre di origine rimangono però assai pericolose. I profughi rientranti si ritrovano spesso in un ambiente caratterizzato da un alto rischio di subire violenze o di essere coinvolti negli scontri armati che continuano a mietere vittime fra i civili. Molti di essi, proprio per il persistere di condizioni di sicurezza proibitive, non hanno possibilità di rientrare in possesso dei propri beni o semplicemente di reinstallarsi nel territorio di origine, alimentando il numero di sfollati interni.
Oxfam ha realizzato sul tema un’analisi approfondita, che ha incluso una ricerca sul campo nelle aree di Herat, Kabul, Kunduz e Nangarhar. I risultati delineano un quadro complesso e ricco di minacce per la stabilità del paese, nonché grossi rischi di involuzione del difficile processo di pacificazione.

Il ritorno in massa di profughi in mancanza di una pianificazione di adeguate misure e di strutture per l’accoglienza e la reintegrazione non contribuisce alla stabilizzazione, ma crea ulteriori tensioni, pressione sulle risorse e un abbassamento dei livelli della qualità della vita della popolazione.

Le capacità delle strutture governative di affrontare la situazione appaiono insufficienti e, come evidenzia la ricerca, sono due i fattori decisivi per il contenimento delle conseguenze del nuovo elemento di crisi:

1) la capacità di assorbimento a livello locale, che dipende in primo luogo dal livello di sostegno che le strutture familiari allargate sono in grado di mettere in campo, eventualmente in sinergia con un incremento dell’impegno istituzionale e

2) l’adattabilità dei profughi rientranti e le risorse personali a loro disposizione per intraprendere il difficile percorso di reintegro sociale sia nelle loro terre di origine sia in altri territori, nei casi in cui le aree da cui erano fuggiti fossero ancora precluse.
Sulla base di queste considerazioni, l’analisi traccia quattro diversi scenari, caratterizzati da gravità crescente e diverso grado di probabilità.
Il primo, con probabilità limitata, definibile come “ampliamento della capacità di assorbimento” (Absorption Stretch), si riferisce allo status quo, con il persistere di flussi di ritorno che, tuttavia, restano assorbibili per l’effetto congiunto del supporto internazionale e della mobilitazione delle reti sociali e familiari nel paese. L’assorbimento dei nuovi arrivati sarebbe favorito dalla tendenza al decremento dei flussi di ritorno mostrata dai dati relativi ai primi mesi del 2018.
Il secondo scenario, ritenuto maggiormente probabile e denominato “disuguaglianza crescente” (Rising Inequality), prevede un innalzamento di disuguaglianza, vulnerabilità e tensione e la progressiva manifestazione dei limiti delle capacità del supporto internazionale, delle comunità di accoglienza delle masse in movimento e delle reti di sostegno interne. L’accrescersi del numero di rifugiati rientranti che non trovano opportunità di sostegno e integrazione aumenterebbe la frattura fra coloro che sono supportati nella comunità ospitante e la crescente quota di popolazione marginalizzata, con possibilità di aumento della tensione sociale.

By Master Sgt. Tracy DeMarco (https://www.dvidshub.net/image/239654) [Public domain], via Wikimedia Commons

Un terzo scenario, valutato come altrettanto probabile, è indicato come “tensioni aumentate” (Heightened Tensions) e aggiunge al quadro precedente l’impatto di un possibile peggioramento delle prospettive economiche. Accanto all’aumento della quota di popolazione marginalizzata per effetto dei flussi di ritorno, la tensione sociale verrebbe in questo caso acuita dall’incapacità del sistema economico di creare occupazione, con conseguente abbassamento dei livelli di vita per ampie fasce sociali e crescita delle difficoltà di accesso ai servizi minimi di welfare. La competizione per i pochi mezzi di sussistenza vedrebbe contrapporsi i gruppi sociali più deboli, fra cui i profughi rientrati, con possibilità d’innesco di spirali di violenza, conflitti locali, aumento dell’insicurezza e, dall’altra parte, anche delle opportunità di reclutamento e allargamento dello spazio d’azione per i gruppi antigovernativi.
Infine, un quarto scenario, a cui si attribuisce un livello inferiore di probabilità, viene denominato “tempesta perfetta” (Perfect Storm”) e configura una tragedia umanitaria collegata al rientro in massa dei profughi. Nonostante l’impegno umanitario della comunità internazionale e lo sforzo interno, la numerosità dei flussi di ritorno farebbe collassare il sistema di sostegno e di contenimento dei disagi nel biennio 2018-19. Il deflagrare delle conseguenti tensioni sociali in un moltiplicarsi di conflitti locali genererebbe un incremento degli sfollati interni, innescando un circolo vizioso che finirebbe per alimentare la proliferazione di campi improvvisati, soprattutto a ridosso delle aree di confine e dei maggiori centri urbani.
Il rapporto si conclude con una serie dettagliata di raccomandazioni politiche indirizzate sia alle istituzioni e strutture governative afgane, sia agli attori internazionali, miranti a spingere perché venga considerata la gravità del nuovo elemento di instabilità rappresentato dal rientro delle masse di espatriati e vengano prese misure coordinate con un approccio non emergenziale, ma sistemico e orientato a integrare il nuovo problema all’interno del complesso quadro della stabilizzazione e dello sviluppo socio-economico del paese.