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Perchè la cinematografia Islami in Indonesia si oppone alla cultura occidentale?

A proposito del paper di Alicia Izharuddin

Redazione

In Indonesia, il termine di film di genere Islami può essere utilizzato per indicare il cinema di opposizione, per temi ed estetica, al modello occidentale. Il genere ha preso nuovo vigore dopo l’11 settembre, in reazione al discorso islamofobico montato in Occidente che, tra l’altro, condanna l’oppressione subita dalle donne nel mondo islamico, etichettato come misogino.
Un esempio che l’autrice dell’analisi in oggetto cita come espressione dell’islamofobia montante in Occidente è il cortometraggio di Theo van Gogh intitolato Sottomissione, trasmesso nel 2004 dalla televisione olandese, che provocò durissime reazioni e accuse di blasfemia nel mondo islamico, fino a portare all’assassinio del regista. La prima scena del cortometraggio, che mostra quattro donne che invocano Allah per avere una spiegazione della violenza maschile che sono costrette a subire, è considerata sintomatica dello stile provocatorio del film.
Come esempi di cinematografia di reazione e opposizione, l’autrice cita anzitutto due film che trattano il tema del ruolo delle donne nella sfera pubblica della religione: Perempuan Berkalung Sorban (Woman in the Turban, 2009, diretto dal trentacinquenne Hanung Bramantyo e adattamento di un’opera della scrittrice femminista Abidah El Khaleiqy) e Ummi Aminah (Mother Aminah, 2011, diretto dal quarantacinquenne Aditya Gumay). Assediate da relazioni familiari che le obbligano a tornare all’ambito domestico, le protagoniste rinunciano a far carriera, continuando tuttavia a rivendicare i diritti delle donne, allo scopo di far valere le proprie scelte in opposizione alla lettura bigotta della scrittura del Profeta. Ne ottengono, alla fine, una riconciliazione tra la vita familiare (di moglie e madre anzitutto) e quella professionale, più precisamente di guida religiosa per la preghiera di una congregazione di sole donne.
Il primo dei due film è stato criticato dall’imam della grande moschea di Giacarta, ma ha ottenuto il pieno sostegno di Meutia Hatta, già ministro della donna e figlia del primo vice presidente indonesiano Muhammad Hatta, per il suo valore di impegno contro interpretazioni e attitudini retrograde sul tema dei diritti delle donne, ancora diffuse nella cultura popolare.
Il secondo film aveva come promo pubblicitario una frase che indicava come il film fosse rivolto anzitutto alle donne che amano la propria madre, riaffermando tale ruolo e definendo la famiglia quale ambito imprescindibile per la realizzazione della donna. Ambito cui si può eventualmente aggiungere quello della realizzazione professionale, giustificando così implicitamente l’esistenza di una sottocultura pensata per le donne cui si addice, appunto, un film appositamente pensato per loro.
Un altro film analizzato dall’autrice perché si iscrive nello stesso filone di contrapposizione all’islamofobia occidentale è In Mata Tertutup (The Blindfold, 2011, diretto dal cinquantenne Garin Nugroho). Si tratta in questo caso di un film a basso costo, basato su fatti realmente accaduti a Giava e girato con attori non professionisti, che affronta il tema delle donne che si oppongono al modello occidentale di emancipazione femminile, rivendicando una via islamica per uscire dall’ambito familiare. Ciò avviene attraverso la militanza jihadista nell’ISIS o in altre organizzazioni paramilitari islamiche che sposano un’ideologia di subordinazione eroica e rivoluzionaria della donna contro l’idea centrale di agency, intesa come capacità di realizzare i propri interessi, del pensiero femminista occidentale. Il modello di comportamento femminile descritto nel film si oppone alle istituzioni tradizionali di famiglia e stato, incentrando al contempo l’idea di agency su di una condotta pia e orientata al perfezionamento spirituale. Infatti, storicamente, l’obiettivo finale di queste organizzazioni eversive era quello di istituire uno stato islamico dell’Indonesia (Negara Islam Indonesia), in un contesto di crisi economica ed elevata disoccupazione che colpiva soprattutto i giovani, favorendone così il reclutamento nelle proprie fila.
È questo un tema che ha un rilievo sociologico non trascurabile, tuttavia non ancora molto approfondito, come dimostrano i pochi studi che si sono concentrati sulla radicalizzazione delle ragazze (quella dei ragazzi, per contro, è stata oggetto di numerosi studi e maggiore attenzione). Tali ricerche hanno evidenziato la natura non passiva, ma di partecipazione entusiastica e attiva delle molte donne salafite che hanno sposato la causa dei gruppi ultraconservatori indonesiani del Dakwah, come Wahdah Islamiyah nella capitale Makassar (Provincia meridionale di Sulawesi).
Quello che in questo film è ribaltato è il punto di vista islamofobo che non permette alcuna concessione a chi – uomo o donna che sia – sposa la causa della militanza armata dell’islamismo radicale, giudicandolo terrorista e misogino. In questo film viene rimossa la disumanità assoluta, per cui i confini ideologici tra la cittadinanza legittima di appartenenza all’Indonesia e la cittadinanza e le ragioni di chi entra nei gruppi jiahidisti si fanno sfumati. Lo jiahidismo perde così il connotato allarmista del male assoluto: una donna che ha intrapreso un percorso che l’ha portata a sposare la causa della guerra armata alla fine si riconcilierà con lo stato e la tradizione della propria casa (con un coro di giovani che canta questo tema nell’epilogo del film).
Due altri film sono citati dall’autrice come esempi di discorso che mira a ribaltare l’idea dell’Islam come chiuso e ostile alle donne, attraverso la presentazione del pluralismo religioso all’interno di coppie come pratica comune, naturale e niente affatto contrastata in Indonesia. In entrambi i film, però, l’esperienza del pluralismo religioso porta al medesimo esito della conversione all’Islam delle donne cristiane, a dimostrazione dell’attrazione esercitata dall’Islam sulle donne ed evidenziando un pluralismo in qualche modo asimmetrico. Si tratta di In Ayat-ayat Cinta (Quranic Verses of Love, 2008, diretto dal trentenne Hanung Bramantyo) e Syahadat Cinta (Vow of Love, 2008, diretto dal quarantacinquenne Gunawan Panggaru): nel primo caso la protagonista è una cristiana copta egiziana, nel secondo una giovane cristiana; in entrambi i casi si può interpretare la storia come quelle di due donne alla fine salvate da uomini e dalla fede musulmana di questi, al di là del fatto che le protagoniste apparenti siano donne e che sia esaltato a parole il concetto di pluralismo religioso.
Un altro aspetto molto interessante che il saggio evidenzia è la popolarità di alcune stelle del cinema femminili – come Inneke Koesherawati o Desy Ratnasari, ma anche le giovanissime Oki Setiana Dewi e Zaskia Adya Mecca – che pur lavorando nel campo del cinema mantengono un’immagine appropriata per l’Islam (per esempio, facendosi fotografare quando indossano il jilbab o vanno in pellegrinaggio alla Mecca) e hanno carriere eclettiche, che le portano da essere attrici a diventare poi scrittrici, modelle e cantanti. Si tratta cioè di modelli di donne pie, che indossano il velo, non si mostrano mai nude (neanche la pancia scoperta) e, al contempo, intraprendono carriere di successo e pubbliche, al di fuori della realizzazione in famiglia, in aperta critica alle schematizzazioni islamofobe prevalenti in Occidente. Stelle che, in ogni caso, rivendicano l’importanza e la centralità della famiglia e dei valori tradizionali, anche quando si tratti di donne in realtà divorziate.
L’autrice sottolinea come, per la necessità di proporre un discorso alternativo a quello egemonico occidentale sul ruolo della donna nell’Islam, questo filone impegnato della cinematografia indonesiana finisca con l’imprigionare le donne nel duplice ruolo, testé illustrato, di conciliazione di sfera privata e pubblica, senza però permettere la reale messa in discussione della componente familiare (con la correlata oppressione) in nome di una piena autonomia.
L’analisi insiste ripetutamente sul non risolto tema di fondo dello squilibrio e della possibile tensione tra il riconoscimento, a lungo negato, di uno spazio per la realizzazione professionale femminile e la necessità che le donne non mettano in discussione e in subordine la sfera familiare, comprese le mansioni e i ruoli loro delegati per tradizione in quell’ambito.
Si tratta, in altri termini, di un processo di negoziazione di spazi di libertà ed effettiva agency, nonostante il peso della tradizione e delle consuetudini sociali prevalenti, che non può ambire a riconsiderare ambiti e norme sociali chiave, anzitutto quelle relative al ruolo femminile nella famiglia.
Una critica profonda alle rivendicazioni della cinematografia di opposizione all’islamofobia occidentale viene anche, aggiunge l’autrice, dalla constatazione che le immagini di successo e forza delle donne presenti nei film citati sono sempre basate sul ritratto fatto da registi uomini, che rappresentano il punto di vista e l’interesse maschile, e non l’autentica voce delle donne. Spiega ulteriormente l’autrice del saggio che l’analisi dei processi di presa di potere reale da parte delle donne richiede che la figura femminile sia esaminata nel contesto del discorso maschile, così come degli obiettivi di difesa e rilancio della traduzione islamica, piuttosto che solo nel valore dell’immagine del ruolo della donna restituita allo spettatore. Non può, quindi, passare sotto silenzio il fatto che l’espressione non sia autenticamente femminile, giacché è comunque mediata da una voce maschile che dirige la rappresentazione cinematografica.
Del resto, non bisogna dimenticare – spiega l’autrice – che anche laddove le istituzioni religiose sono a favore dell’istruzione femminile e di una maggiore partecipazione delle donne, la leadership autonoma e diretta delle donne non è tuttavia incoraggiata, come nel caso del movimento di massa dei Muhammadiyah, che ha sì una sezione femminile, però sempre subalterna nei processi decisionali.
Proseguendo in chiave critica l’analisi della cinematografia indonesiana di opposizione, va infine notato come il discorso filmico non metta chiaramente e completamente in discussione la titolarità maschile del potere, dell’autorità e del diritto a disporre sessualmente del corpo femminile.