Mondo Editoriali

Sfide e opportunità per un partenariato euro-africano sulle migrazioni

Mwencha Erastus J.O.

I fenomeni migratori sono saliti in cima all’agenda del dialogo tra Europa e Africa, tanto che al recente Vertice Africa/Europa svoltosi ad Abidjan, in Costa d’Avorio, il tema delle migrazioni ha messo in ombra le altre discussioni, soprattutto a causa del desolante episodio del novembre 2017 dei migranti venduti all’asta come schiavi in Libia. Tanto per fare un passo indietro nella storia, le migrazioni sono antiche quanto la razza umana, e per secoli hanno rappresentato la spinta primaria alla globalizzazione: le persone – e, più tardi, le imprese – si sono spostate liberamente per stabilirsi lontano dal loro luogo di nascita o si sono impegnate attivamente nel commercio in territori posti a grande distanza, come nel caso della famosa Via della seta.

Le persone emigrano per molte ragioni diverse, che possono classificarsi come economiche, sociali, politiche o ambientali. La migrazione politica è provocata dalla necessità di sfuggire alle persecuzioni di regime o alle guerre. Le cause ambientali della migrazione comprendono i disastri naturali come le inondazioni. I fattori economici rappresentano la motivazione principale all’origine della migrazione. Secondo l’Organizzazione internazionale del lavoro (ILO), attualmente circa la metà della popolazione totale dei migranti internazionali vive al di fuori dal proprio paese per scelta e, nella maggior parte dei casi, con il concorso del paese ospitante, in cerca di opportunità di lavoro e di condizioni di vita migliori per le loro famiglie. In alcuni paesi semplicemente non esistono posti di lavoro per gran parte della popolazione. Questi migranti portano con sé competenze o risorse che possono comportare benefici socio-economici.

Storicamente, i documenti mostrano che dal 1815 al 1932 60 milioni di persone lasciarono l’Europa, principalmente verso “aree di insediamento europeo” nelle Americhe, specialmente negli Stati Uniti, Canada, Brasile, Argentina e Uruguay, e in Australia, Nuova Zelanda e dalla Russa in Siberia. Queste popolazioni si sono moltiplicate rapidamente nel nuovo habitat, molto più delle popolazioni africane ed asiatiche. Molti dei migranti fuggivano da persecuzioni religiose o politiche. Queste nuove aree di insediamento europeo hanno dato luogo ad una razza mista che coesiste in una relativa armonia. Di conseguenza, alla vigilia della prima guerra mondiale il 38 % della popolazione globale risultava essere di origine europea.

A metà del diciannovesimo secolo, un classico caso di migrazione forzata dovuta a cause naturali fu quello dell’Irlanda, che dovette affrontare una carestia mai vista prima nella storia del paese. Verso la fine dell’autunno 1845 la produzione di patate, l’alimento base della dieta irlandese, fu praticamente azzerata. In assenza di provvedimenti del governo, molte persone morirono di fame. La carestia uccise centinaia di migliaia di persone e costrinse milioni di irlandesi alla fuga. Tra il 1841 e il 1851, la popolazione diminuì di 1,6 milioni di persone, pari a circa il 17 % del totale, a causa della fame e dell’emigrazione.

Vi sono quindi due categorie di migranti – volontari e forzati, o regolari e irregolari, costituiti principalmente da rifugiati o sfollati. Attualmente le maggiori preoccupazioni riguardano la migrazione irregolare, a causa della sua natura imprevedibile e delle potenziali sfide che pone.

Impatto socio-politico

Sono quattro le aree su cui le migrazioni hanno un impatto: il paese di origine e quello di destinazione, l’individuo o il gruppo di migranti, i punti di transito e, ove applicabile, l’ambiente e le modalità di trasporto. La sottrazione di risorse umane è una conseguenza importante ed immediata che grava sul paese di origine. Le persone che tendono ad emigrare sono istruite o possiedono competenze lavorative. Questa categoria di solito si integra meglio nel paese di destinazione. Dal lato positivo, c’è un ritorno di benefici verso il paese di origine sotto forma di rimesse e di un trasferimento tecnologico e di competenze. Nel caso del paese ricevente, la migrazione può integrare la carenza di manodopera o il divario di competenze, ma ciò potrebbe non controbilanciare adeguatamente i timori per il suo impatto sul mercato del lavoro e sulla demografia. Un enorme afflusso può portare a shock culturali, oltre ai conseguenti costi di adeguamento o di insediamento.

Per questi motivi ciò che preoccupa maggiormente l’Europa sono i rifugiati, a causa del loro impatto sulla sicurezza, sugli aspetti culturali, religiosi e razziali. La recente impennata nel numero di migranti provenienti dalla Siria, dallo Yemen e da altri paesi devastati dalla guerra ne è un esempio e ha effettivamente causato un’onda d’urto in tutta Europa. Per effetto dei conflitti e disordini politici in alcune parti dell’Africa e del Medio Oriente, il numero di persone in cerca di asilo e sicurezza è salito a 1,3 milioni all’anno, con alcuni paesi che ricevono più richieste di altri. La Germania ha ricevuto oltre 700 mila domande d’asilo e la Danimarca, con una popolazione di meno di 7 milioni, ospita oltre 100 mila rifugiati. I rifugiati normalmente ricercano uno status temporaneo fino al momento in cui i fattori di spinta o le condizioni che hanno innescato il loro esodo si attenuano, consentendo loro di far rientro nel paese d’origine. I rifugiati sono di solito ospitati in zone designate e hanno difficoltà ad integrarsi, per scelta o a causa delle circostanze. Il costo di mantenimento di un rifugiato varia tra 1000 e 5000 dollari al mese.

Di fronte ai costi enormi e alla possibile reazione politica, molti stati europei hanno optato per una riduzione dell’aiuto allo sviluppo. Dato l’alto costo del mantenimento dei rifugiati, l’Europa preferirebbe creare centri di raccolta in Africa, ma questa è una strada molto rischiosa. Basti pensare ad un paese come il Kenya, da oltre trent’anni gravato da uno dei più grandi campi profughi del mondo. Oltre ai costi, vi sono sfide legate alla sicurezza e quelle di natura culturale, laddove i rifugiati vengano coinvolti in attività criminali o politiche. Nel recente passato, è noto che alcuni rifugiati hanno combattuto nella guerra civile in Siria aderendo all’ISIS o hanno partecipato ad atti terroristici in altre parti del mondo.

I rischi che tali migrazioni pongono per l’Europa hanno contribuito alla crescita dei partiti politici populisti e ultranazionalisti che si oppongono alle immigrazioni. In questo quadro rientra il dibattito sulla Brexit e il successivo referendum, innescati dai crescenti timori circa la mobilità interna all’Unione europea e dall’esterno verso il continente. Negli Stati Uniti l’ascesa del trumpismo, con la sua politica ispirata al principio “America first“, è stata favorita da una netta posizione anti immigrazione, tesa principalmente a limitare la presenza degli immigrati islamici, neri e ispanici negli Stati Uniti. I recenti commenti di Trump sugli immigrati provenienti da alcune regioni specifiche sono una prova lampante della necessità di un dialogo e di un patto globale sulle migrazioni. Ironicamente i migranti, e in particolare gli schiavi, hanno dato un enorme contributo a paesi come gli Stati Uniti; e tuttavia continuano ad essere emarginati.

Mobilità del lavoro e intelligenza artificiale

Distinguendo questa attuale ondata di globalizzazione dalle precedenti, Thomas Friedman ha detto che oggi la migrazione è “più lontana, più veloce, più economica e più profonda”. La sua dimensione politica sta diventando sempre più pronunciata per effetto delle sue implicazioni demografiche e socio-economiche. La mobilità del lavoro è essenziale per la competitività, l’equilibrio e lo sviluppo sostenibile. Globalmente si stima che il 3 % della popolazione mondiale lavora o vive al di fuori del proprio paese di origine. Questo, in termini economici, è un equilibrio fisiologico e questa percentuale della popolazione mondiale è costantemente in movimento. Le attuali tendenze demografiche evidenziano la necessità di un patto globale sulla mobilità del lavoro. Entro il 2050 si stima che la popolazione mondiale sarà di circa 9,5 miliardi di persone, e di queste la percentuale maggiore sarà residente in Asia e in Africa. In Europa, le dinamiche demografiche vanno in direzione di una popolazione più anziana. In un certo numero di paesi si è registrato un calo della popolazione e questa contrazione è in aumento. L’Europa dovrà quindi naturalmente confrontarsi con una seria carenza di risorse umane, che richiederà una compensazione che mantenga il sistema in equilibrio.

Consapevoli del declino della forza lavoro disponibile a svolgere lavori e compiti ripetitivi, un certo numero di paesi sta investendo considerevolmente in processi automatizzati: intelligenza artificiale e robotica. I progressi nel campo dell’intelligenza artificiale potrebbero essere di beneficio a quei paesi in cui si riscontra un declino della popolazione. Ma solo fino a un certo punto: la robotica viene ora utilizzata per svolgere alcuni lavori manuali del settore manifatturiero, ma presto sarà in grado di eseguire compiti più complessi, come prendersi cura dei pazienti. Ciò avrà enormi implicazioni sul lavoro umano e porterà certamente ad un aumento delle tensioni nel mondo del lavoro.

Sfollati e migranti irregolari

Dei 65 milioni di sfollati a livello mondiale, circa 22 milioni hanno meno di 18 anni e il 30 per cento vive in Africa. Vi sono 10 milioni di apolidi. Esistono varie convenzioni e trattati internazionali volti a proteggere i migranti; tuttavia, solo alcuni paesi hanno aderito a questi trattati o ai principi sanciti nelle convenzioni stesse, che coinvolgono, tra gli altri, le Nazioni Unite, l’Unione europea (UE) e l’Unione africana (UA). I migranti spesso subiscono discriminazioni e si vedono negato l’accesso ai diritti umani fondamentali come l’istruzione, l’assistenza sanitaria e i diritti civili, solo per citarne alcuni. Alcuni migranti, per paura di essere deportati o rimpatriati a forza nei loro paesi di origine, scelgono di rimanere illegalmente, soprattutto nel caso dei migranti non politici e non richiedenti asilo. Ad esempio, solo negli Stati Uniti si stima che ci siano oltre 10 milioni di immigrati illegali. Molti di loro vivono nella paura, sono sfruttati e vengono loro negati i diritti umani fondamentali.

Alcuni migranti sono spinti dalla guerra o dalle persecuzioni subite nel paese natio ad attraversare i confini nazionali. Questi immigrati possono essere considerati rifugiati o richiedenti asilo nei paesi di accoglienza. La Convenzione di Ginevra del 1951 relativa allo status dei rifugiati definisce i criteri per questi migranti e vincola i paesi firmatari a non rimandare i nuovi arrivati verso luoghi in cui possano essere perseguitati. Secondo il testo della Convenzione, un rifugiato è “chi non è in grado o non vuole tornare nel proprio paese di origine a causa di un fondato timore di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un particolare gruppo sociale o opinione politica” (Convenzione del 1951 relativa allo status di rifugiato).

In Africa, alcuni imputano alla UE l’aumento dei casi di schiavitù, che considerano conseguenza del blocco imposto dai paesi europei alla migrazione degli africani verso il loro continente.

La Strategia UE per l’eliminazione della tratta di esseri umani è stata adottata nel 2012, aggiornando il Piano d’azione UE del 2005 per quanto riguarda le buone pratiche e le norme e procedure volte a combattere e prevenire la tratta degli esseri umani. La Strategia contiene un insieme di misure concrete e pratiche da attuarsi nei prossimi cinque anni. Tra queste figurano la prevenzione, la protezione, il sostegno alle vittime e il contrasto ai trafficanti, nonché l’istituzione di unità di polizia nazionali specializzate nella tratta di esseri umani e la creazione in Europa di squadre investigative comuni allo scopo di perseguire i casi di tratta transfrontaliera.

Il Processo di Khartoum fa parte del Piano d’azione UE-Africa sulla migrazione e la mobilità 2014-2017. Gli Stati partecipanti si adoperano per: (1) creare un quadro che favorisca la politica e il dialogo; (2) condividere conoscenze ed esperienze al fine di rafforzare la cooperazione col supporto delle organizzazioni internazionali come IOM, UNHCR e UNODC (United Nations Office on Drugs and Crime); e (3) individuare opportunità di finanziamento e facilitare la mobilitazione delle risorse per sostenere progetti concreti. Al vertice di La Valletta sulla migrazione, tenutosi l’11 e il 12 novembre 2015, al Processo di Khartoum è stata demandata la vigilanza sull’attuazione delle iniziative e delle azioni nell’ambito del piano d’azione di La Valletta per il periodo 2016-2018:

  • Sviluppare la cooperazione tra i paesi di origine, quelli di transito e di destinazione, per combattere la migrazione irregolare e le reti criminali, in particolare attraverso iniziative riguardanti l’assistenza tecnica, la formazione e lo scambio di informazioni e di buone pratiche
  • Su richiesta, cooperare con i paesi della regione per rafforzare le loro capacità di gestione della migrazione.
  • Assistere i paesi nell’attuazione di misure di prevenzione, come le campagne di informazione volte a sensibilizzare sui rischi della migrazione irregolare (tratta di esseri umani, contrabbando).
  • Rafforzare il coordinamento tra tutti i servizi coinvolti, al fine di contrastare la tratta di esseri umani e il traffico di migranti.
  • Identificazione e incriminazione delle reti criminali
  • Istituire un apposito quadro giuridico, o rafforzare quelli esistenti in materia di lotta alla tratta, e promuovere la ratifica e l’attuazione di due protocolli aggiuntivi alla Convenzione delle Nazioni Unite contro il crimine organizzato transnazionale: il Protocollo contro il traffico di migranti via terra, aria e mare e il Protocollo per prevenire, reprimere e punire la tratta di persone, in particolare donne e bambini.
  • Sostenere le vittime della tratta di esseri umani e tutelare i diritti umani dei migranti oggetto di traffico.
  • Promuovere lo sviluppo sostenibile nei paesi di transito e di origine, al fine di affrontare le cause della migrazione irregolare.
  • Su richiesta, assistere i paesi nella creazione e nella gestione di centri di accoglienza, nell’assicurare l’accesso alle procedure di asilo e sostegno psicologico ai migranti.
  • Sviluppare un quadro regionale per facilitare il ritorno dei migranti – compreso il ritorno volontario – e il loro reinserimento nel paese di origine.

Al recente vertice UE/UA sono stati adottati quasi tutti gli elementi del Processo di Khartoum. Inoltre i leader hanno concordato di appoggiare la mobilità di studenti, personale e accademici in tutto il continente africano, e deciso di migliorare i programmi di scambio tra Africa ed Europa.

Il vertice ha anche discusso e trovato un accordo su come affrontare congiuntamente le cause profonde della migrazione irregolare e su come:

  • Salvare e proteggere vite di migranti e rifugiati, in particolare in Libia;
  • Accelerare i rimpatri volontari assistiti nei paesi di origine;
  • Accelerare l’integrazione di coloro che necessitano di protezione internazionale.

Il Processo di Khartoum deve ancora essere implementato, in particolare per quanto riguarda i fattori di spinta alla migrazione; e lo stesso vale per la Dichiarazione di Abidjan del novembre 2017.

Sfide ambientali e migrazione forzata

L’impatto del cambiamento climatico e le sue implicazioni sulla migrazione non sono valutabili immediatamente. Sempre più persone ne saranno colpite, dal momento che i mutamenti ambientali indotti dall’uomo come la desertificazione, la deforestazione o l’erosione dei terreni aumentano di frequenza ed intensità. Le cause più comuni di insicurezza alimentare in Africa e in altri paesi del Terzo mondo sono la siccità e altri eventi meteorologici estremi legati ai cambiamenti climatici, e i conflitti militari. Conflitti legati al clima si sono registrati nella regione del lago Ciad e in Africa orientale, dove migliaia di persone hanno perso case, raccolti e bestiame a causa della siccità e/o delle inondazioni. Tra il 2008 e il 2014, a livello globale 184,6 milioni di persone sono state costrette a lasciare le loro case a causa di inondazioni, terremoti e tempeste tropicali. La grande maggioranza dei disastri è dovuta al riscaldamento globale. L’attuazione dell’accordo di Parigi sui cambiamenti climatici è perciò importante anche al fine di contenere l’aumento del numero di sfollati.

Migrazione dalle aree di conflitto

Questo è un argomento molto complesso e per sua natura molto delicato, come dimostra l’esodo in massa dalla Siria, dalla Libia, dallo Yemen e, nel recente passato, dall’Iraq. Quello che in ciascuno di questi paesi è iniziato come un conflitto tra il regime e una parte della popolazione è poi degenerato in una vera e propria guerra civile, che ha risucchiato forze esterne per poi trasformarsi in un problema globale. L’enorme numero di rifugiati disperati e i modi in cui sono stati ricevuti e trattati hanno colpito la comunità internazionale. A questi profughi sono stati negati i diritti di transito, perché alcuni stati non erano disposti a consentire loro di entrare nel proprio territorio. Coloro che sono riusciti a farlo non solo si sono ritrovati a vivere una vita penosa, ma sono stati considerati una spina nel fianco dai paesi ospitanti. Solo dalla Siria sono fuggite oltre 11 milioni di persone e molte di esse hanno perso la vita.

Nel caso della Libia, l’insurrezione interna con il supporto decisivo delle forze della NATO ha portato alla caduta di Gheddafi che ha avuto come conseguenza il collasso dello stato. Il paese da tempo è in mano a milizie e signori della guerra, ciascuno dei quali controlla una parte di territorio. La Libia è diventata un punto di transito ideale e rifugio di bande criminali e terroristiche come Isis e Al Qaeda. Questa crisi non avrebbe raggiunto tali proporzioni se la comunità internazionale avesse considerato le implicazioni della caduta di Muhammad Gheddafi nei modi in cui è avvenuta. 

Conclusioni e prospettive 

In conclusione, esistono due distinte categorie di migranti, quelli forzati e quelli volontari; questi ultimi costituiscono globalmente il nucleo dei lavoratori o delle persone che risiedono al di fuori del proprio paese d’origine, mentre i primi comprendono principalmente i rifugiati o gli sfollati. Gli strumenti per la gestione di queste due categorie devono essere adattati a situazioni e cause specifiche. I migranti forzati sono in gran parte conseguenza di fattori economici, politici, naturali o legati al clima. Gli attuali strumenti sono maggiormente orientati a gestire e controllare il flusso di migranti in Europa, invece di affrontare le cause alla radice. L’Europa ha teso a canalizzare la maggior parte delle sue risorse verso gli stati di transito e verso le vittime della migrazione illegale, con esiti quantomeno dubbi; pertanto cresce la consapevolezza che sia necessario destinare maggiori risorse ai paesi di origine, al fine di mitigare le cause di fondo della migrazione.

Per compiere un progresso reale, e per dare impulso all’azione, l’Europa dovrebbe prendere in considerazione i costi socio-economici delle migrazioni. Dovrebbe anche tenere conto delle risorse spese sia nei paesi di origine e sia in quelli di transito, nonché di quelle effettivamente impiegate per i campi di accoglienza e per l’integrazione dei migranti nei luoghi di destinazione. Le ricerche tese a determinare se si possa arginare il fenomeno aumentando le risorse a favore degli stati africani suggeriscono che si stipuli un accordo a vantaggio di entrambe le parti, al fine di garantire che gli stanziamenti vengano utilizzati solo per gli scopi previsti. Alcune aree specifiche nelle quali tali risorse potrebbero apportare dei benefici comprendono lo sviluppo delle competenze, la trasformazione delle economie africane per offrire opportunità di lavoro grazie alla creazione di valore aggiunto e industrializzazione, e il rafforzamento della governance socio-economica. Tutto ciò andrebbe fatto tenendo conto del contesto e riconoscendo che la crisi migratoria può essere gestita solo attraverso l’assunzione di responsabilità reciproche e condivise.