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Il Brasile riuscirà a riscattare la sua immagine di paria ambientale?

Litre Gabriela

Ogni anno, l’Istituto Rio Branco, rispettata e selettiva scuola brasiliana per la formazione diplomatica, organizza una cerimonia di laurea per i suoi studenti. Tradizionalmente tra gli ospiti c’è il Presidente della Repubblica, oltre a giornalisti, parlamentari e autorità varie.

Uno dei momenti più attesi della cerimonia è il discorso del Ministro degli Esteri, in cui, oltre alle congratulazioni di rigore ai neolaureati, vengono elencate le priorità della politica estera brasiliana. Il 22 ottobre 2020, il discorso all’Istituto Rio Branco è stato tenuto dall’allora ministro Ernesto Araújo. Il rappresentante di Itamaraty (nome con cui è conosciuto il Ministero degli Esteri brasiliano) ha concluso la sua presentazione di quasi quaranta minuti con una frase che fa ancora rizzare i capelli a molti diplomatici di carriera: “Se parlare di libertà nel mondo ci rende un paria internazionale, allora noi faremo in modo di essere quel paria“.  È effettivamente riuscito a trasformare il Brasile in un paria internazionale, e lo ha fatto a tempo di record, di pari passo con il presidente Jair Bolsonaro.

La politica estera volta al termine (il successore di Bolsonaro, Lula da Silva, ha assunto la presidenza il 1° gennaio 2023, dopo una serrata disputa elettorale) si è servita di un cocktail quasi infallibile per distruggere il lavoro che l’attualmente rieletto Lula aveva costruito tra il 2003 e il 2010, soprattutto in termini di protezione delle aree forestali (Fonseca,  Lindoso & Bursztyn, 2022).

La ricetta del governo uscente prevedeva uguali dosi di intolleranza – ogni pensiero divergente, nazionale o internazionale, veniva etichettato come “comunista”, “globalista” o direttamente “corrotto” –, la difesa delle agende conservatrici nei forum multilaterali, soprattutto sui temi ambientali, l’abbandono del dialogo diplomatico con molti paesi del Sud del mondo, l’antagonismo dichiarato nei confronti del governo cinese e, da ultimo ma non meno importante, l’allineamento incontestabile con gli interessi degli Stati Uniti, almeno durante la precedente amministrazione Trump.

Bolsonaro ha smantellato il quadro normativo a protezione dell’ambiente e delle comunità tradizionali (in particolare i gruppi etnici minoritari che vivono in coesistenza armoniosa con la foresta) promuovendo lo sfruttamento economico della foresta tropicale più grande e ricca di biodiversità al mondo, l’Amazzonia. Lo ha fatto tanto a parole che con i fatti: ha indebolito o eliminato direttamente gli organismi di tutela ambientale (spesso escludendo rappresentanti della società civile, come le Ong e le organizzazioni indigene), e nominato amministratori provenienti dall’industria agroalimentare o direttamente dal settore militare, come dimostrano i vari “incarichi di fiducia” dell’ex Ministro dell’Ambiente, Ricardo Salles, elencati sul sito web del Ministero.

La maggior parte del settore agroalimentare, che pratica la coltivazione della soia e l’allevamento del bestiame su larga scala, con un elevato uso di pesticidi come il glifosato (che favorisce la distruzione della vegetazione autoctona non solo in Amazzonia, ma anche della biodiversità del bioma del Cerrado), si oppone alla creazione di territori indigeni e altre aree protette. Gran parte del settore agroalimentare, fortemente rappresentato nel Congresso, promuove anche la legalizzazione del sequestro di terreni per uso industriale. L’impatto è facilmente misurabile: secondo i dati ufficiali, la deforestazione della foresta pluviale amazzonica ha raggiunto il livello più alto degli ultimi quindici anni tra l’agosto 2020 e il luglio 2021.  Secondo Prodes, il sistema di monitoraggio dell’uso del territorio gestito dall’Istituto nazionale per la ricerca spaziale (INPE), la deforestazione in Amazzonia durante il governo Bolsonaro ha raggiunto i 40.000 km². Per dare un’idea, è come se un’area quasi equivalente alle dimensioni della Svizzera fosse stata devastata in meno di quattro anni.

L’Osservatorio sul clima, un’alleanza per il monitoraggio della deforestazione e dei suoi effetti climatici che riunisce più di 70 organizzazioni ambientaliste, ha riferito che il mandato di Jair Bolsonaro si sta concludendo con un aumento del 60% della deforestazione in Amazzonia rispetto ai quattro anni precedenti – cioè durante i governi di Dilma Rousseff (2015-2016) e Michel Temer (2016-2018). Secondo l’Osservatorio, si tratta del più grande aumento percentuale della deforestazione nel corso di un mandato presidenziale dal 1988, anno in cui sono iniziate le misurazioni satellitari.

Altri “risultati” del cocktail di politiche antiambientali dell’amministrazione uscente includono i forti tagli ai finanziamenti per la salvaguardia degli ecosistemi, la smobilitazione dei dipendenti pubblici di carriera e l’interferenza del governo federale negli organismi di supervisione ambientale.  Infatti, il calo del budget destinato alle politiche di tutela dell’ambiente è stato del 71% tra il 2014 – quando i trasferimenti hanno raggiunto il livello più alto della storia (13,3 miliardi di reais), durante il governo dell’appena rieletto Lula da Silva – e il 2021, anno in cui sono stati stanziati solo 3,7 miliardi di reais.

Per quanto riguarda lo smantellamento delle agenzie ambientali in Brasile, un recente rapporto intitolato “Finanziamento della gestione ambientale in Brasile: una valutazione sulla base del bilancio pubblico federale“, pubblicato congiuntamente dall’Istituto socio-ambientale (ISA) e dall’Università federale di Rio de Janeiro (UFRJ), rileva che i tagli di bilancio hanno colpito particolarmente le agenzie chiave per combattere la deforestazione in Amazzonia (Rizzini Freitas, Abreu Carvalho, & Oviedo, 2022).

Tra gli organismi di controllo della deforestazione più danneggiati dai tagli ai finanziamenti c’è l’Istituto brasiliano per l’ambiente e le risorse naturali rinnovabili (Ibama), l’agenzia federale che dipende dal Ministero dell’Ambiente responsabile della supervisione, della concessione delle licenze e di altre funzioni in ambito ambientale. Egualmente colpito è stato l’Istituto Chico Mendes per la conservazione della biodiversità (ICMBio), ente autonomo legato al Ministero dell’Ambiente, responsabile dell’attuazione del Sistema nazionale delle unità di conservazione (che hanno a loro volta subito un significativo aumento della deforestazione). Anche l’esistenza dell’Istituto nazionale per la ricerca spaziale (INPE), un’agenzia federale responsabile del monitoraggio e della diffusione dei dati satellitari sulla deforestazione e gli incendi boschivi che contribuisce al controllo della criminalità ambientale, è stata messa seriamente a rischio.

Il budget dell’Ibama è stato sistematicamente ridotto anno dopo anno, così come la sua realizzazione. Nel 2021, secondo le rilevazioni, è stato speso solo il 57% di quanto impiegato nel 2008. Per quanto riguarda il caso dell’INPE, uno degli episodi più emblematici dell’interferenza del governo federale in questo organismo si è verificato poco dopo l’elezione di Bolsonaro, nel 2019, quando l’allora direttore dell’istituto di ricerca, Ricardo Galvão, fu licenziato per aver divulgato i dati sul drammatico aumento della deforestazione in Amazzonia nel corso dell’anno.

Bolsonaro ha criticato la pubblicazione di dati scientifici periodici e oggettivi (a lui sfavorevoli) e ha accusato il ricercatore Galvão di essere al servizio delle associazioni ambientaliste.  Quasi quattro anni dopo, nell’ottobre di quest’anno, Galvão ha rivelato i retroscena del suo licenziamento. Secondo lo scienziato, il governo ha prima indagato segretamente nella cerchia della sua vita privata, con l’intenzione di trovare qualcosa che giustificasse la sua rimozione. “Non hanno trovato nulla e sono stati costretti a licenziarmi, subendo la vergogna di essere un governo che attacca la scienza“, ha scritto.

Un’altra testimonianza che dimostra la persecuzione diretta o indiretta subita dalle istituzioni per l’ambiente è stata quella di Denis Rivas, presidente dell’Associazione nazionale dei funzionari dell’ambiente (Ascema) e dipendente dell’istituto ambientale ICMBio. Rivas ha riferito che le agenzie ambientali hanno assunto come dipendenti agenti di polizia militare senza esperienza nella gestione ambientale per intimidire i dipendenti di carriera delle agenzie stesse.

È chiaro che questi e altri incidenti hanno profondamente cambiato la percezione globale del Brasile e della sua gestione ambientale, sia a livello nazionale che internazionale. A lungo considerato un leader nella lotta contro il riscaldamento globale e il cambiamento climatico, il paese è oggi visto come un paria ambientale, o peggio, come una minaccia agli sforzi globali per la conservazione della biodiversità e la riduzione delle emissioni di gas serra.

È risaputo che Bolsonaro, ex capitano dell’esercito, disprezza le agende ambientali. Nei suoi 28 anni da deputato federale e durante la campagna presidenziale del 2018, il presidente uscente si è dimostrato molto veemente nell’affermare che le questioni ambientali e indigene costituiscono, a suo avviso, un ostacolo allo sviluppo del Paese (cioè, all’industrializzazione delle aree naturali protette e all’espulsione delle comunità tradizionali che ci vivono da millenni).

C’è un capitolo della sua biografia che è diventato emblematico, e che gli stessi bolsonaristi esibiscono come un aneddoto “divertente”. Nel 2012, quando era ancora deputato federale, Bolsonaro ricevette un multa di diecimila reais (equivalenti a circa duemila dollari all’attuale tasso di cambio) per aver pescato illegalmente sulla costa meridionale di Rio de Janeiro. Non appena Bolsonaro venne eletto presidente, il funzionario che lo aveva multato, ottemperando al suo dovere, fu licenziato. Un’anticipazione semplice, ma estremamente illustrativa, di quanto sarebbe accaduto in seguito.

Il primo atto concreto relativo alla nuova agenda ambientale arrivò poco dopo l’elezione di Bolsonaro, nell’ottobre 2018. Bolsonaro chiese all’allora presidente Michel Temer di annullare lo svolgimento della 25ma Conferenza sul clima delle Nazioni Unite, COP 25, prevista in Brasile. La richiesta fu rapidamente accolta e la sede dell’evento fu spostata a Madrid, in Spagna.

Tuttavia, nonostante i suoi strenui sforzi, Bolsonaro non è riuscito a mantenere alcune delle sue più audaci promesse elettorali, come il ritiro del Brasile dall’accordo di Parigi – un impegno globale sui cambiamenti climatici che fissa gli obiettivi per la riduzione delle emissioni di gas serra – e la fusione dei ministeri dell’Ambiente e dell’Agricoltura (concedendo, ovviamente, il controllo dell’agenda ambientale al settore dell’industria agroalimentare).

Eppure i suoi sforzi contro l’ambiente e a favore della deforestazione hanno prodotto abbondanti risultati: Bolsonaro è riuscito a indebolire gli organismi di controllo ambientale, ha reso difficile imporre multe ai distruttori di foreste, ha ridotto la partecipazione della società civile nei consigli dedicati all’ambiente e ha attaccato pubblicamente il lavoro delle organizzazioni non governative (Ong) nei progetti di conservazione e sviluppo sostenibile.  Bolsonaro è arrivato al punto di suggerire che molte Ong erano responsabili degli incendi dolosi (un modo per “preparare” il terreno per la coltivazione della soia o per i pascoli per il bestiame), il che ha aumentato la tensione con i partner internazionali che finanziano le iniziative di queste Ong e i progetti governativi.

Nel 2019, il governo Bolsonaro decise di abolire unilateralmente due comitati che erano incaricati di gestire il corposo Fondo Amazon, istituito per la raccolta di fondi destinati ai progetti di protezione della foresta e della biodiversità. L’allora ministro dell’Ambiente Salles, affermò, in assenza di prove, che si erano verificate irregolarità nella gestione delle risorse donate dai partner internazionali. La Norvegia, il più grande donatore del Fondo, non prese affatto bene questa illazione e annullò immediatamente i trasferimenti, che tra il 2008 e il 2018 avevano raggiunto 1,2 miliardi di dollari. La Germania, il secondo donatore, sospese a sua volta i trasferimenti. Recentemente, all’inizio di novembre, la Corte Suprema del Brasile ha stabilito che proprio il governo federale era stato responsabile delle negligenze nella gestione del Fondo Amazon e ha fissato un termine di 60 giorni per la sua riattivazione.

Nei quasi tre anni trascorsi tra la cancellazione del Fondo Amazon e la tardiva decisione della Corte Suprema di mettere le carte in tavola (una volta terminate le elezioni presidenziali), l’isolamento internazionale del Brasile è cresciuto in modo esponenziale. Il governo dell’allora cancelliera Angela Merkel espresse preoccupazione per l’aumento dei tassi di deforestazione e il deterioramento dei diritti territoriali delle popolazioni indigene. Sempre nel 2019, gli incendi in Amazzonia furono causa di forti tensioni tra il Brasile e la Francia. In termini inusuali per il linguaggio diplomatico, il governo francese dichiarò in un comunicato che il presidente Bolsonaro aveva deciso di non rispettare i suoi impegni sul clima e di non impegnarsi sulla questione della biodiversità.

Gli ammonimenti dei parlamentari dell’opposizione, del mondo accademico e dei settori economici, secondo i quali le posizioni radicali su gestione ambientale e diplomazia avrebbero portato all’isolamento del Paese, sono stati ignorati dal governo, rafforzando il pregiudizio ideologico dell’amministrazione.  È giusto ricordare che, quando l’ex ministro degli Esteri Araújo disse, nel suo ormai indimenticabile discorso all’Istituto Rio Branco, che “forse è meglio essere quel paria che viene lasciato fuori, al freddo, piuttosto che essere ospite al banchetto del cinismo egoistico dei globalisti“, le sue dichiarazioni non nascevano dal nulla. Dietro le sue riflessioni c’era il principale ideologo del governo Bolsonaro, il sedicente “filosofo” Olavo de Carvalho. De Carvalho era conosciuto come lo “Steve Bannon” di Bolsonaro (alludendo all’ex consigliere di estrema destra di Donald Trump), ed è morto nel gennaio 2022 negli Stati Uniti, dove risiedeva abitualmente.

Per il politologo americano Joseph Nye, professore di relazioni internazionali all’Università di Harvard, il “globalismo” che De Carvalho ha attaccato è semplicemente uno slogan politico usato da altri leader nazionalisti e populisti per condannare le élite coinvolte nelle questioni globali, come il commercio e le istituzioni internazionali. Influenzati da De Carvalho, i ministri Araújo e Salles, così come Bolsonaro, hanno abilmente trasformato la lotta contro il riscaldamento globale (basata su dati scientifici internazionali) in narrazioni cospirative su un presunto confronto “ideologico” tra progressisti (“comunisti”) e anti-globalisti (loro stessi).

Oliver Stuenkel, professore di relazioni internazionali presso la Fondazione Getúlio Vargas (FGV), spiega che l’amministrazione Bolsonaro si è appropriata del discorso dell’estrema destra globale, riuscendo a trasformare il dibattito sulla conservazione dell’ambiente in una guerra culturale. Afferma che “la destra populista ha rimosso la dimensione scientifica dal dibattito e ha accusato le cosiddette ‘élite globaliste’ di creare una minaccia immaginaria volta a minare lo Stato nazionale, favorendo le piattaforme internazionali, che accusa di avere poca legittimità democratica“.

Spettava a Olavo de Carvalho fornire la copertura ideologica affinché il discorso di Bolsonaro non si riducesse a semplice rabbia contro l’apparato statale in difesa dell’ambiente, ma andasse oltre, fomentando l’odio contro le università e la scienza in generale. La scomparsa di molte associazioni della società civile e la cancellazione dei finanziamenti scientifici (che ha lasciato migliaia di studenti senza borse di ricerca e le università senza soldi per pagare gli stipendi del personale addetto alle pulizie o il riscaldamento in inverno) non sono stati gli unici effetti collaterali della politica ambientale brasiliana. Non sorprende che, in alcuni paesi europei dove molti scienziati brasiliani si erano esiliati di propria iniziativa, la vittoria di Luiz Inácio Lula da Silva alle elezioni del 2022 sia stata festeggiata con entusiasmo.

Consapevole che il modo migliore per ottenere rilevanza internazionale e recuperare l’immagine del Brasile passa attraverso una politica ambientale connessa allo sforzo globale per preservare l’ambiente, il presidente eletto Lula ha scelto la COP 27 come scenario per il suo grande ritorno.

Lula è arrivato a Sharm-el-Sheik, in Egitto, sede dell’incontro, insieme a Marina Silva. Il riavvicinamento di Marina e Lula ha diversi significati.

Il primo è politico ed è legato al contesto nazionale brasiliano, Marina Silva è stata ministro dell’Ambiente dal 2003 al 2008, per parte dei due mandati di Lula, quando lanciò un programma di protezione ambientale che ha ridotto la deforestazione del 67%. Lasciò il governo per disaccordi con altri ministri, che volevano allentare le regole ambientali.

Marina Silva, il cui percorso di vita può essere equiparato a quello di Lula, essendo passata anche lei dalla povertà estrema alla leadership nazionale, si era candidata alla presidenza nel 2010 con il Partito Verde contro Dilma Rousseff, scelta da Lula per succedergli. Durante la campagna elettorale Marina subì pesanti attacchi da parte del Partito dei lavoratori di Lula (PT) e perse le elezioni, aumentando il suo risentimento e la distanza da Lula. Nel 2016, ormai al suo secondo mandato, Dilma Rousseff subì una procedura per impeachment. Il sostegno di Marina Silva a quella procedura fu pesantemente criticato dalla sinistra.

Il nuovo riavvicinamento di Marina Silva a Lula si è verificato di recente, quando diversi leader che avevano preso le distanze dal Partito dei lavoratori hanno scelto di unirsi all’ampio fronte messo insieme da Lula per sconfiggere Bolsonaro; ex nemici, come i leader dei partiti socialdemocratici e di sinistra, hanno deciso di sostenere Lula contro il rischio di un nuovo mandato Bolsonaro. Alla COP 27, Marina Silva, che è in corsa per ottenere di nuovo il portafoglio per l’Ambiente, ha detto che Lula è cambiato e che in questa nuova gestione l’impegno per l’ambiente sarà maggiore di prima, con obiettivo deforestazione zero.

Nel gennaio 2023, già in rappresentanza del governo brasiliano come Ministra dell’Ambiente nell’edizione più recente del Foro Economico Mondiale a Davos, in Svizzera, Marina Silva ha portato il messaggio per cui “il Brasile ha impegni ambiziosi e vuole essere un Paese ricco economicamente, giusto socialmente, democratico politicamente, diverso culturalmente e rispettoso dell’ambiente”.

Se il primo significato del ricongiungimento tra Lula e Marina è politico, il secondo è un chiaro ammiccamento diplomatico. Dando potere a Marina Silva, Lula vuole inviare al mondo un messaggio sul suo impegno sulle questioni climatiche e ambientali.  Parlando alla stampa durante l’evento, Lula ha confermato questo sforzo affermando: “Sono qui per dirvi che il Brasile è ritornato nel mondo. Il Brasile sta uscendo dal bozzolo in cui è stato costretto negli ultimi quattro anni. Il Brasile non è nato per essere un paese isolato”.

Lula ha anche richiesto che il Brasile possa ospitare la prossima COP e ha sostenuto la creazione di una struttura di governance globale per affrontare i cambiamenti climatici. Secondo Lula, non ci sarà sicurezza climatica nel mondo se non si protegge l’Amazzonia. Ha anche criticato lo smantellamento nel settore ambientale promosso dall’amministrazione Bolsonaro e ha promesso che alla questione climatica sarà assicurato il più alto profilo nella struttura del suo governo.

Al di là delle dichiarazioni, la verità è che a Lula spetta un colossale sforzo di ricostruzione ambientale in un contesto politico polarizzato e conflittuale.

Forse questo esempio lo illustra meglio di tutti: durante la sua amministrazione, Bolsonaro, militare di formazione, ha combattuto aspramente contro la trasparenza dell’informazione pubblica, non solo secretando per cento anni gli atti del suo governo o producendo bilanci “segreti” da utilizzare a proprio piacimento. La ricerca scientifica e giornalistica, così come la gestione socio-ambientale, hanno sofferto enormemente della censura dell’informazione: piattaforme nazionali di big data, ricche di informazioni sui cambiamenti climatici in Brasile o sullo stato delle unità di conservazione delle foreste, che erano storicamente disponibili sui siti web del Ministero dell’Ambiente, sono scomparse da un giorno all’altro, sotto lo sguardo attonito di scienziati, giornalisti e studenti.

Invece di scoraggiarsi, molti sono tornati direttamente sul terreno per verificare ciò che gli organismi di controllo ambientale, le piattaforme dati del Ministero dell’Ambiente e i satelliti di monitoraggio sull’uso del territorio a malapena erano ormai in grado di rilevare. Due di loro, l’ambientalista e difensore dei diritti indigeni Bruno Pereira e il giornalista britannico Dom Phillips, persero la vita nella loro impresa. Furono uccisi dai bracconieri mentre erano in barca sul fiume Javari, nello stato occidentale di Amazonas, una delle aree più remote della regione (The New York Times, 2022). Pereira intendeva continuare a proteggere la foresta e gli indigeni che la abitano. Phillips voleva mostrare come le comunità indigene cercavano di difendersi dai bracconieri e dai pescatori, che spesso agivano impunemente, incoraggiati del governo. Bolsonaro dichiarò semplicemente che le vittime erano state “imprudenti” e diede la colpa a loro, dicendo che Phillips non era “ben visto” nella regione di Javari. I suoi resti furono ritrovati semisepolti nell’umida oscurità della foresta amazzonica. Mentre il Brasile si sta ancora riprendendo dallo shock della loro morte, le pagine del sito web del Ministero dell’Ambiente continuano a mostrare, come negli ultimi quattro anni, questo avviso: “Le informazioni che stai cercando sono in corso di aggiornamento, riprova più tardi“. Sono in molti a sperare di poter tornare al lavoro liberamente e senza paura dal 1° gennaio 2023.

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Foto Credits: © Christian Braga / Greenpeace, Attribution-NonCommercial-NoDerivs 2.0 Generic (CC BY-NC-ND 2.0) attraverso Flickr