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Afghanistan: per i diritti umani si continua a morire

Ahadolla Hoseiny

In Afghanistan la speranza è donna. Lo si è visto in occasione della lotta (sostenuta anche con la campagna social #Whereismyname) per il riconoscimento dell’identità personale delle donne afghane sui loro documenti, nei quali erano abitualmente definite soltanto come “mogli o figlie” di qualcuno. Purtroppo queste donne coraggiose, nonostante la conquista ottenuta, vedono contemporaneamente materializzarsi il ritorno delle violenze contro di loro. In Afghanistan le donne continuano a morire, per difendere i loro diritti.

In molte aree del paese talebani ed ex signori della guerra (mujahidin), hanno ripreso a intimidire le attiviste, e una nuova preoccupante escalation di attacchi si registra contro chiunque si occupi di difesa dei diritti civili, in particolare contro le attiviste donne.

L’ennesimo duro colpo, per le molte esponenti della società civile impegnate in prima linea nella coraggiosa battaglia per l’emancipazione, è rappresentato dall’uccisione della giovane e combattiva Malalai Maiwand, che aveva partecipato attivamente alla campagna #Whereismyname. L’attentato contro di lei fa parte di una serie di attacchi contro analisti politici e giornalisti che si sono mostrati molto critici verso i talebani – tra i quali il reporter Aliu Dauee, di Radio Azadi (Liberty) – in un momento in cui il movimento degli “studenti coranici” sta per ritornare al potere.  L’omicidio di Malalai ribadisce quanto sia veramente difficile essere donne in Afghanistan, e come ogni conquista venga intaccata dalla dura reazione attualmente in atto.

Il rapporto della Missione di Assistenza delle Nazioni Unite in Afghanistan (Unama) diffuso nel luglio scorso sottolinea la “tendenza crescente” della violenza contro le donne, nella vita pubblica. Molte attiviste, giornaliste, deputate sono state vittime di attentati o oggetto di riprovazione sociale, perché si pongono in contrasto al ruolo di donne, mogli e madri che impone loro la società afghana, ancora legata a pregiudizi e stereotipi contrari a qualsiasi aspirazione femminile. Tutto ciò sta mettendo a dura prova la loro determinazione.

Dicembre è stato un mese drammatico per le donne impegnate nella difesa dei diritti femminili, e dieci attiviste hanno perso la vita in attentati mirati. Le ultime tre erano giornaliste, e molte altre erano state attive nella campagna #Whereismyname, o avevano firmato un appello rivolto ai talebani.

Saba Sahar, la nota regista afghana, lotta ancora tra la vita e la morte dopo essere rimasta ferita in un attentato. Era anche funzionario di polizia, nominata vicecomandante delle forze speciali che si occupano di questioni di genere. L’omicidio di Malalai Maiwand, compiuto a Jalalabad il 10 dicembre, è l’episodio di violenza più recente. Malalai era una nota conduttrice dell’emittente televisiva Enikass Radio Tv, che opera nella provincia di Nanghahar, che è sotto il controllo dei talebani. Ultimamente i militanti dello stato islamico hanno effettuato una serie di efferati attentati in quella zona, e l’emittente era stata già presa di mira nel 2017, quando lo scoppio di una bomba nella redazione aveva ucciso diversi giornalisti. L’attacco all’informazione viene portato mentre sono in corso i negoziati di pace, e dimostra il reale pericolo rappresentato dal ritorno dei talebani al potere. Esiste un rischio autentico che i media paghino a caro prezzo la difesa della libertà di espressione, e che possano soccombere.

Malalai era una giornalista attivista, e da tempo riceveva minacce di morte da parte dei talebani. Nonostante la giovane età (25 anni), era molto conosciuta in Afghanistan ed a livello internazionale, ed anche le Nazioni Unite hanno condannato il suo brutale omicidio. Si era molto impegnata per portare avanti le rivendicazioni sui diritti di donne e bambini – continuando l’opera della madre, una storica attivista, anche lei vittima di un attentato cinque anni fa. A Jalalabad era rappresentante del centro per la protezione delle giornaliste afgane, una Ong che si occupa di giornalismo femminile. Dall’emittente in cui lavorava promuoveva l’emancipazione dai pregiudizi, rivendicava il diritto all’istruzione, al lavoro, al divorzio. Era molto attiva sui social, e aveva più volte accusato i talebani di colpire le donne attiviste. Dopo gli ultimi attentati aveva lanciato l’allarme su come lo spazio di lavoro per le giornaliste si stesse riducendo. Nessun gruppo ha rivendicato la sua uccisione: il governo la attribuisce ai talebani, ma questi ultimi hanno smentito. L’Isis ha dichiarato che gli uomini del Califfato hanno preso di mira la giornalista perché “vicina al governo di Kabul”.

Ancora una volta, in Afghanistan schierarsi a difesa dei diritti umani equivale a una condanna a morte. Lo sostiene Amnesty International, che nel suo ultimo rapporto “Defenceless Defenders” (difensori indifesi) denuncia gli attacchi sempre più violenti ai danni degli attivisti per i diritti umani e dei giornalisti, ad opera di talebani e dello stato islamico, ma anche per responsabilità del governo, colpevole di non svolgere indagini o avviare procedimenti nei confronti di chi compie  reati contro le donne e di non procedere all’applicazione della legge sull’eliminazione della violenza sulle donne del 2009 (EVAW), per la cui attuazione la comunità internazionale si era tanto adoperata.

Dopo questi avvenimenti, il futuro dei media afghani e della libertà di espressione sono appesi ad un filo. In questi ultimi anni l’informazione ha compiuti enormi progressi, rispetto ai tempi del regime talebano, e dal 2001 in poi i media afghani hanno conosciuto una rinascita. Quando le milizie talebane entrarono a Kabul nel 1996, una delle loro prime azioni fu quella di chiudere gli edifici dell’informazione e proibire al popolo la televisione. Anche se a quell’epoca ero un bambino, ricordo bene che improvvisamente la televisione fu oscurata, fu proibita la musica e perfino vietato il gioco degli aquiloni, un’usanza molto antica in Afghanistan. Attualmente, i media indipendenti rappresentano uno dei pochi successi del governo post-talebano, grazie ai finanziamenti esterni. In Afghanistan ci sono 150 emittenti radio e tv indipendenti. Si teme che il ritiro delle truppe straniere avrà ripercussioni sull’ambiente dell’informazione, e la BBC Media Action è preoccupata che questo clima porti alla diminuzione delle donazioni estere alle organizzazioni non governative che sostengono i media indipendenti, e che molte testate chiuderanno o cadranno in mano a gruppi estremisti.

Fino a un anno fa era impensabile che il limitato, ma importante progresso compiuto nella tutela dei diritti delle donne e dell’istruzione potesse interrompersi o addirittura invertire la rotta. Come le attiviste afghane temevano, il processo di pace e riconciliazione in corso dal febbraio 2020 tra talebani e governo non ha messo fine alle violenze, e gli attacchi si sono invece intensificati. I dati delle agenzie di sicurezza governative rilevano che dal 30 novembre scorso i talebani o le milizie dell’Isis hanno compiuto diversi attentati quotidiani, rivolti principalmente verso gli ambienti dell’informazione e della cultura. Il riemergere dei nemici dell’istruzione rischia di riportare indietro il Paese, ed il futuro si tinge di nero. Vengono di nuovo incendiate le scuole, principalmente quelle femminili. In pochi mesi ne sono state distrutte 300, e il 2 novembre un assalto all’università di Kabul ha provocato la morte di 22 persone tra studenti e professori. Inoltre, in ottobre sono stati uccisi 24 giovani studenti di un centro d’istruzione a Kabul. È drammatico constatare come le scuole e i luoghi di cultura siano stati di nuovo presi di mira. E non soltanto da parte dei talebani: stanno aumentando sempre di più gli attacchi delle milizie dell’Isis, ormai ben salde in alcune zone del sud del Paese, dove è sempre più attivo lo stato islamico del Khorasan, intento ad occupare nuovi territori per la restaurazione del Califfato, nel silenzio generale della comunità internazionale.

Nel 2020 si è aperto a Doha il negoziato di pace tra talebani e Stati Uniti sul ritiro delle truppe straniere. Attualmente sta continuando tra i talebani e il governo di Kabul, ma i talebani uccidono sempre più spesso. La spettrale normalità afghana registra circa 80 morti al giorno, secondo l’emittente televisiva britannica che trasmette in persiano, la BBC farsi. Tra i civili il numero di vittime più alto è quello che riguarda donne, bambini e studenti. Le ultime previsioni del Global Humanitarian Overview indicano che nei prossimi mesi le persone bisognose di assistenza umanitaria saranno circa 9 milioni, di cui il 56% minori.

Come testimonia l’uccisione di Malalai Maiwand, con il ritorno dei talebani la questione femminile potrebbe esplodere. Che ne sarà della voce delle donne, se quello spazio che si sono conquistate si trova di nuovo sotto attacco? I tentativi attuali di dialogo con i talebani hanno già sacrificato i diritti delle donne, e la componente femminile in questi negoziati è stata marginalizzata. Il Parlamento è composto per il 27% da donne, ma a Doha la loro presenza è ridotta al minimo: ne sono state ammesse inizialmente tre ed oggi, dopo le proteste delle attiviste per essere incluse nel prosieguo delle trattative, sono arrivate a 5 su un totale di 21 delegati. Il testo dell’accordo di pace tra talebani e Stati Uniti è stato criticato dalla società civile afghana poiché non prevede il rispetto dei diritti umani, che evidentemente non costituisce una priorità per le parti impegnate nella trattativa. Non esiste alcuna garanzia sulla legittimazione e la conservazione dei diritti fondamentali delle donne, che i talebani non riconoscono. Di fatto, in nome del realismo politico le donne rischiano di pagare il prezzo più alto.

Speriamo che gli aquiloni continuino a volare, nel cielo di Kabul.

 

Foto Credits: Jon Ardner – Kite festival #4: Attribution-NonCommercial 2.0 Generic (CC BY-NC 2.0) attraverso Flickr