Africa Opinioni

Land e water grabbing: il volto aggressivo del neocolonialismo in Africa

Schettini Claudia

A partire dalla seconda metà dell’800, dopo il congresso di Berlino del 1878 che vide il cancelliere tedesco Bismarck spartire il territorio africano tra le principali potenze europee, ha inizio il processo conosciuto come “Scramble for Africa”, un periodo di rapida colonizzazione del continente. A distanza di circa un secolo, con la repentina diffusione del processo di globalizzazione, la storia sembra ripetersi con la differenza che, oggi, il modello economico capitalista sembra mostrare un volto ancora più aggressivo attraverso un nuovo sistema di sfruttamento, noto come fenomeno di “land grabbing”.

Il land grabbing è una vera e propria corsa all’accaparramento delle terre da parte di governi e multinazionali straniere che, tramite acquisto, leasing e utilizzo di fondi sovrani, acquisiscono i terreni dalle comunità locali, prendendone il controllo, per la coltivazione di monocolture, combustibili fossili o allevamenti intensivi. Tuttavia, i governi locali, spesso corrotti e basati su sistemi clientelari sono tra i maggiori responsabili di tale fenomeno, spesso utilizzato come strumento politico, in quanto acconsentono alla cessione, in cambio di cifre (irrisorie o meno) dalla destinazione poco chiara, di ampi appezzamenti di terreno allo scopo di ricavarne dei benefici economici e mantenere il controllo territoriale. Spesso, inoltre, gli stessi governi locali, appoggiati dalle multinazionali estere, sostengono che il land grabbing possa favorire lo sviluppo e l’occupazione locale nonché l’implementazione di nuove tecnologie e l’incremento del PIL dei paesi che ospitano gli investimenti.

C’è chi, a tal riguardo, parla di neocolonialismo che vede protagoniste non solo le antiche potenze europee, il Regno Unito in primis, ma anche e, soprattutto, le potenze che attualmente dominano la geopolitica mondiale, i cosiddetti paesi “grabbers”, quali gli Stati Uniti, la Cina, la Russia e l’Arabia Saudita, ma anche altri importanti attori della scena economica mondiale, come India ed Emirati Arabi. Sebbene tra i territori target, detti “grabbed”, rientrino numerosi paesi che vanno dall’America Latina, all’Asia, all’Europa dell’Est, il continente più vessato è senza dubbio l’Africa, sia per la vasta disponibilità di terre apparentemente incolte, sia a causa della debolezza del corpus normativo a tutela dei diritti delle popolazioni locali. Nonostante la carenza di dati ufficiali, le informazioni più recenti raccolte da agenzie delle Nazioni Unite quali la FAO, l’IFAD e il WFP, nonché da numerose organizzazioni non governative che operano in loco, registrano un totale di 15.418.676 ettari di territorio africano gestito attraverso i contratti tipici del land grabbing.

Secondo i dati forniti da Land Matrix, i paesi del continente più colpiti dal fenomeno, tra cui al primo posto spicca l’Etiopia, non a caso considerata “the world champion of land grabbing”, sono l’Uganda, la Repubblica Democratica del Congo, il Mali, il Mozambico e il Sud Sudan.

Con la crisi economico-finanziaria del 2008, accompagnata da una congiuntura negativa sul versante della crisi climatica ed energetica con conseguente incremento dei prezzi dei beni alimentari essenziali, il fenomeno della “rapina” delle terre è cresciuto esponenzialmente, spinto dalla necessità di accaparrarsi una grande quantità di terreno coltivabile per garantire la sicurezza alimentare della propria popolazione, una delle preoccupazioni principali dei paesi grabbers. Con la recessione, gli investitori stranieri hanno infatti puntato sulla terra, un bene considerato sicuro, il cui prezzo basso consente un elevato guadagno soprattutto se correlato alla crescita esponenziale dei prezzi dei generi alimentari. Si è, in tal senso, parlato di “finanziarizzazione dell’agricoltura”, per cui anche il costo delle materie prime è finito con il dipendere dalle fluttuazioni di mercato piuttosto che dal raccolto effettivamente ottenuto. Nello stesso periodo si è presentata, inoltre, la crisi energetica che ha portato sempre più in alto il prezzo del petrolio e le grandi potenze mondiali, avvertendo la necessità di usufruire di fonti energetiche alternative, hanno cominciato ad appropriarsi di nuovi terreni indispensabili per la coltivazione di biocombustibili, come la jatropha. È stata proprio l’Italia, con l’azienda Tampieri insieme alla compagnia senegalese Sénéthanol, ad essere tra i paesi che maggiormente hanno sfruttato la pianta di jatropha, nella fattispecie in Senegal, allo scopo di ottenere abbondanti quantità di combustibile.

Perché, nonostante i chiari risvolti negativi, si assiste ad un costante incremento del fenomeno? E quali sono le conseguenze in termini politici, economici e sociali del land grabbing?

Il primo grande problema è che questi investimenti sono regolamentati attraverso contratti di leasing stipulati tra il governo locale e la multinazionale o il governo straniero, marginalizzando la popolazione locale rispetto a qualunque tipo di decisioni. Si tratta quindi di contratti poco trasparenti, caratterizzati da una forte asimmetria informativa, generalmente di breve durata e molto vaghi nella definizione delle clausole relative ai benefici, quali promesse di lavoro, investimenti in infrastrutture o introiti pubblici che questa cessione di terreno dovrebbe comportare. In effetti, in molti paesi la terra, sebbene utilizzata tradizionalmente dai contadini locali, è controllata dallo Stato che esercita diritti su di essa e, nel momento in cui viene trasferita alle imprese straniere, si verifica un restringimento dello stesso diritto di uso o possesso dei contadini, che spesso è scarsamente tutelato o non è affatto riconosciuto dai contratti in questione e dalla legge.

Tuttavia, l’ostacolo maggiore è rappresentato dal sistema legale africano, le cui caratteristiche indeboliscono gli stessi diritti di proprietà. Mancano, infatti, certificazioni attestanti la proprietà dei terreni; il consenso legale dei contadini locali per il trasferimento della terra non è obbligatorio; le compensazioni derivanti dall’esproprio dei terreni non sono sufficienti e, addirittura, è completamente assente un potenziale risarcimento nel caso in cui l’espropriazione della terra impedisca l’accesso ad  altre risorse naturali,  l’acqua in primis. Non venendo, inoltre, definite le quote di spartizione tra mercato locale ed estero dei prodotti ottenuti dal terreno coltivato, sono gli stessi paesi africani ad avere carenza di beni alimentari di prima necessità e a doverli, di conseguenza, importare o richiedere aiuti alimentari. Ad esempio, nell’isola di Kalangala in Uganda, a partire dal 2012, la compagnia Oil Palm Uganda Limited ha acquisito ben 7500 ettari per la coltivazione dell’olio di palma, privando molti agricoltori locali del proprio raccolto e offrendo loro compensi che non li risarcivano minimamente del valore della terra acquisita.

Considerato il quadro appena descritto, è chiaro che il fenomeno del land grabbing comporta numerose conseguenze di carattere politico, economico, sociale e ambientale che impattano profondamente sulle popolazioni africane.

Innanzitutto, dal punto di vista economico, lo sfruttamento intensivo delle terre volto alla creazione di vaste piantagioni favorisce l’impoverimento del sottosuolo e, di conseguenza, la riduzione delle risorse minerarie. Questa penuria, a sua volta, si traduce in un impoverimento generale dei paesi africani dove la terra costituisce, da sempre, la principale fonte di reddito nonché di occupazione delle popolazioni locali. A ciò si aggiunge il fatto che i proventi dello sfruttamento del suolo sono introitati per la maggior parte dalle società straniere, non garantendo quindi una adeguata forma di compensazione per la popolazione. Le conseguenze più gravi si verificano, tuttavia, dal punto di vista politico e sociale in quanto l’accaparramento delle terre, oltre ad aver sollevato molteplici questioni relative agli squilibri di potere tra le compagnie/governi stranieri, i governi locali e le popolazioni indigene, ha comportato una significativa erosione dei diritti umani, favorita da mancate consultazioni, contratti carenti, compensazioni irrisorie e condizioni di lavoro di bassissima qualità. Innanzitutto il land grabbing comporta una violazione del diritto alla proprietà e all’abitazione, dal momento in cui la cessione di territori, spesso contigui a zone densamente popolate e destinati a monocolture intensive, implica la delocalizzazione degli abitanti in zone poco adatte agli insediamenti umani. Ancora, la coltivazione intensiva di appezzamenti fertili utilizzati per produzioni destinate all’export comporta il mancato soddisfacimento della domanda locale e, di conseguenza, la violazione del diritto al cibo. Un esempio concreto di quanto detto riguarda la regione di Gambella, in Etiopia, dove a partire dal 2010 le Forze Armate etiopi hanno costretto molti abitanti locali ad abbandonare le proprie terre e reinsediarsi in “villaggi prestabiliti” secondo i piani di un progetto governativo per favorire l’accesso della compagnia saudita, Saudi  Star, alle terre coltivabili.

Un altro aspetto che spesso non viene messo adeguatamente in luce è l’ulteriore violazione dei diritti delle donne che, in molti paesi africani, costituiscono più del 50% della forza lavoro nel settore agricolo e, sebbene siano le stesse a lavorare manualmente la terra, le decisioni spettano ai mariti che godono della proprietà terriera e possono decidere, in qualunque momento, di riappropriarsene e cederla alle multinazionali straniere per le coltivazioni intensive. Come diretta conseguenza viene non solo sfruttato il lavoro femminile ma, in più, le donne rimangono spesso prive di fonti di sostentamento non potendo trarre i dovuti benefici dagli investimenti agricoli e, spesso, sono costrette alla prostituzione pur di provvedere ai bisogni essenziali della famiglia. A tal proposito, alcuni dati di Land Matrix mostrano che in Ghana le donne costituiscono il 52% della forza lavoro nel settore agricolo mentre in Mozambico sono le donne per il 90% a lavorare la terra, nonostante il 70% delle decisioni in merito spettino agli uomini. Ancora, in Mali è stato introdotto il concetto di “women’s field”: si tratta di terre povere che vengono cedute dai mariti alle mogli che se ne prendono cura coltivandole sebbene, in qualunque momento, gli uomini possano riappropriarsene e destinarle alle piantagioni di biocarburanti.

Strettamente correlato al fenomeno del “land grabbing” è quello del “water grabbing”, ossia l’accaparramento delle acque, divenuto, soprattutto in Africa, la principale causa di conflitti poiché i confini amministrativi dei vari stati non coincidono con quelli naturali, tracciati dal corso dei bacini idrici e quasi tutti gli stati si trovano a condividere almeno un fiume. Analogamente al land grabbing, anche in questo caso stati, imprese e società straniere si trovano a prendere il controllo o a deviare a proprio vantaggio corsi d’acqua, sottraendoli a comunità locali o, spesso, ad intere nazioni la cui sopravvivenza si basa proprio sulle risorse idriche che vengono depredate. Così come si è parlato di finanziarizzazione dell’agricoltura, allo stesso modo si parla di finanziarizzazione dell’acqua, con la conseguenza che una risorsa naturale, un bene pubblico di norma liberamente fruibile, viene trasformato in asset finanziario scambiato nelle principali piazze azionarie.

Anche in questo caso, come per il land grabbing, uno dei paesi più impattati è l’Etiopia che, al fine di favorire lo sviluppo economico ed aumentare l’accesso alla rete elettrica (tra i più bassi  del pianeta) a partire dagli  anni ’80  ha  approvato la costruzione di  grandi dighe idroelettriche come la Gibe III e la Grand Ethiopian Renaissance Dam, costruite sul lago Turkana, in cui sfociano principalmente le acque del fiume Omo. Centinaia di migliaia di persone che vivono in villaggi lungo il suddetto fiume sono state direttamente colpite dal progetto e, di conseguenze, costrette a rilocalizzarsi in altri villaggi agricoli. In più, essendo il bacino del Turkana al confine con il Kenya, la costruzione di questi sbarramenti ha alimentato il contenzioso tra il governo keniota ed etiope, quest’ultimo accusato di aver fatto poco o nulla per mitigare gli impatti della diga che ha pericolosamente abbassato il livello delle acque, mettendo a rischio l’ecosistema e il sostentamento delle popolazioni locali.

Molteplici fenomeni sono riconducibili al water grabbing, tra cui è essenziale ricordare i principali: dirottamento dell’acqua necessaria alle colture locali verso l’irrigazione di colture da esportazione; sfruttamento di bacini idrici per l’estrazione mineraria, come il “fracking offshore” per estrarre il gas di scisto, meccanismo impiegato anche nel Golfo del Messico, nel Canale di Santa Barbara, in Brasile, nel Golfo Arabo e nel Mare del Nord, con il sostegno delle cosiddette “navi per la stimolazione dei pozzi”; lo sbarramento di fiumi per convogliare l’acqua verso le dighe destinate alla produzione e vendita di energia elettrica, spesso insostenibili dal punto di vista ambientale. Il paese in cui vengono maggiormente sfruttati i bacini idrici per l’estrazione mineraria è, senza ombra di dubbio, il Sud Africa diventato, negli ultimi anni, uno dei paesi meno sostenibili del continente africano, a causa della presenza del 3,5% delle risorse mondiali di carbone che, come ben noto, ha un costo idrico elevatissimo. Per quanto riguarda invece il citato meccanismo di fracking, nato dal connubio di due tecnologie gas-petrolifere, la fratturazione idraulica e il completamento con filtri meccanici (gravel pack), uno degli esempi più citati di come la tecnologia di fratturazione idraulica possa infondere nuova vita nei bacini offshore, le cui prestazioni sono inevitabilmente in declino, è la campagna su ampia scala intrapresa da Eni, fra l’aprile e il giugno 2007, nel giacimento Kitina 3A al largo delle coste congolesi.

Il quadro, già di per sé critico, diventa ancora più drammatico se si pensa che secondo le previsioni delle Nazioni Unite, entro il 2030, una persona su due al mondo vivrà in zone ad elevato stress idrico.

Nonostante il Rapporto “Water as a Human Right?” promosso nel 2004 dall’UNDP e, la risoluzione 64/292 approvata nel 2010 dall’Assemblea Generale dell’ONU, su mozione presentata dall’allora Presidente boliviano Morales, abbiano, prima proposto, poi ufficialmente inserito l’accesso all’acqua potabile tra i diritti umani fondamentali, tale diritto oggi non viene rispettato e tutelato attivamente dalla comunità internazionale. Non è infatti previsto un quantitativo minimo di acqua potabile gratuita per le fasce di popolazione più svantaggiate dei paesi economicamente più deboli ma, al contrario, vengono spesso favoriti accordi commerciali che ampliano la privatizzazione dei servizi di gestione dell’acqua.

Sebbene a livello internazionale, il quadro normativo relativo al godimento di diritti umani quali il diritto alla terra e ad uno standard di vita accettabile, l’accesso al cibo, all’acqua e il diritto di proprietà sia abbastanza completo, la non obbligatorietà di questi documenti che sono per lo più convenzioni, risoluzioni, dichiarazioni o linee guida, permette agli investitori stranieri e ai governi nazionali di perseverare nello sfruttamento della terra e dei bacini idrici, sfociando poi in condotte lesive dei summenzionati diritti umani.

La pratica del land e del water grabbing nel continente africano, oltre ad erodere completamente le prerogative delle popolazioni locali, ha comportato – e continuerà a farlo negli anni a venire con la devastazione ambientale – l’aumento di idroconflitti e di situazioni di instabilità politico-sociale in zone dove la conflittualità era già di per sé endemica, nonché l’aumento del fenomeno migratorio, senza che il diritto internazionale abbia accordato alcuna forma di tutela giuridica ai migranti ambientali o alle cosiddette “displaced persons driven by development”. Sia le migrazioni ambientali, sia il development-induced displacement sono, di fatto, fenomeni di migrazione forzata le cui vittime, cagionate da catastrofi ambientali e da meccanismi di sviluppo e modernizzazione violenta e improvvisa, non hanno né diritti garantiti né assistenza adeguata, che sono invece concessi ai rifugiati o ai profughi.

In conclusione, è assolutamente necessaria e urgente un’azione congiunta da parte degli stati affinché trasformino le direttive relative ad una gestione responsabile dei diritti della terra e delle altre risorse naturali, in leggi internazionali ed interne vincolanti e assicurino una buona governance locale affinché i contratti di land grabbing siano conclusi in maniera trasparente. A tale fine, il ruolo dei governi nazionali è indispensabile per rafforzare i diritti dei cittadini e la sostenibilità ambientale e sociale, nonché per implementare una strategia “win-win” che consentirebbe lo sviluppo agricolo in termini di produttività ed impiego, trasformando gli investimenti esteri in un mezzo per ridurre la povertà locale.

Credits foto: Oxfam East Africa. Attribution-NoDerivs 2.0 Generic (CC BY-ND 2.0), attraverso www.flickr.com