Libia Opinioni

Il conflitto internazionale per la Libia e le prospettive di pace

Morone Antonio M.

Dall’aprile 2019 la guerra per la Libia ha subito una nuova escalation militare a seguito dell’avanzata dell’Esercito nazionale libico nell’Ovest del paese. Le truppe del generale Khalifa Haftar sono arrivate a controllare alcuni quartieri meridionali di Tripoli grazie all’appoggio militare dell’Egitto, degli addetti militari francesi, dei droni forniti dagli Emirati Arabi Uniti e degli ulteriori aiuti militari sauditi e russi, ai quali si sono aggiunti più di recente soldati irregolari sudanesi già impegnati nella guerra in Darfur.

Sul fronte opposto, il governo di Accordo Nazionale riconosciuto dalle Nazioni Unite e guidato da Fayez al-Sarraj è stato sempre più costretto sulla difensiva, accerchiato dalle forze avverse e limitato al territorio compreso tra le città di Sirte, Misurata e Tripoli. Gli sponsor militari di Misurata, che di fatto controlla il governo di Tripoli, sono soprattutto l’Italia, il Qatar e sempre più la Turchia.

Lo scorso 27 novembre 2019, il ministro turco della difesa e quello libico dell’interno hanno siglato un Memorandum of Understanding (MoU) nel campo della sicurezza e della cooperazione militare che ha formalizzato una situazione già largamente in atto. La Turchia inviava da tempo munizioni, veicoli blindati e tecnologia militare a Misurata, direttamente o attraverso il porto di al-Khoms. Tra il 17 e 18 dicembre 2018 un cargo proveniente dalla Turchia scaricò proprio ad al-Khoms un carico di 4 milioni e 200 mila munizioni che, come denunciò allora Haftar, potevano essere sufficienti a uccidere l’80% della popolazione libica. A seguito del MoU, il governo di al-Serraj ha fatto seguire una formale richiesta di aiuto militare ad Ankara che appunto è stata approvata il 2 gennaio 2020 dal parlamento turco. I primi militari turchi sono arrivati a Tripoli proprio quanto Haftar stava tentando la spallata finale contro al-Serraj.

L’escalation militare tra i due fronti opposti ha registrato un sempre maggiore coinvolgimento dei rispettivi sponsors internazionali tanto che l’ipotesi di una guerra regionale per il controllo della Libia non è affatto da escludere. L’attuale guerra che si combatte in Libia non è più da tempo una guerra libica (e se si pensa al modo in cui il regime di Gheddafi cadde, probabilmente non lo è mai stata), ma è una guerra internazionale combattuta per il controllo della Libia.

La Conferenza di Berlino del 19 gennaio 2020 ha proposto un percorso di de-escalation imponendo ai due contendenti un cessate il fuoco, con l’ipotesi che la tregua possa essere monitorata da una forza internazionale, promuovendo un reale embargo sulle armi in Libia (che almeno formalmente è in vigore dal 2011). Alla Conferenza di Berlino hanno partecipato la maggior parte dei paesi coinvolti nella crisi, compresi Stati Uniti, Russia, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Turchia, Francia e Italia, dando così forza all’azione politica promossa dalla Germania, anche se impensierisce l’assenza di Qatar e Sudan che rispettivamente aiutano militarmente al-Serraj e Haftar.

Per un verso, non c’è dubbio che una soluzione militare non sia affatto alla portata di nessuno dei due contendenti, infatti è dal 2014 che Haftar tenta di occupare Tripoli senza mai esserci riuscito. In questo senso potrebbe essere utile una soluzione politica come quella caldeggiata a Berlino con la formazione di un nuovo governo, terzo rispetto agli attuali due contendenti, a seguito di nuove elezioni. D’altra parte la situazione di estrema fragilità istituzionale sul campo e soprattutto il radicamento dei diversi gruppi armati nel tessuto sociale ed economico del paese non lasciano spazio a facili illusioni e in effetti la tregua potrebbe essere stata accettata solo in funzione tattica da entrambe le parti per riposizionare le proprie forze.

In Libia si combatte dal 2011 sempre per la stessa posta: lo Stato, le sue istituzioni e le sue risorse energetiche (gas e petrolio), ma anche per il controllo dello spazio, dei confini e delle migrazioni. Nella primavera del 2017 la Libia estraeva all’incirca 800 mila barili di petrolio al giorno, circa la metà di quanto era estratto negli ultimi anni del regime di Gheddafi, ma pur sempre il livello più alto dal 2014. Non a caso la politica dell’Italia si è sempre mossa sulla difesa degli interessi energetici, accoppiandoli con il controllo del flusso dei migranti irregolari e la conseguente realizzazione di efficaci quanto illegali politiche di contenimento.

Anche la Turchia non fa mistero di collegare il MoU firmato recentemente con al-Serraj all’obiettivo di sfruttare i giacimenti sottomarini libici nel Mediterraneo centro-orientale, promettendo di mettersi in linea diretta di collisione con gli interessi dell’East Mediterranean Gas Forum (EMGF) e dei suoi paesi promotori (Grecia, Cipro, Egitto, Israele, Giordania e Italia).

L’Egitto è infine intervenuto ampiamente in Libia contro il governo di al-Serraj perché per il generale Abdel Fattah al-Sisi la crisi libica non è semplicemente una questione di politica estera, ma di sicurezza nazionale. Dopo aver incarcerato il suo predecessore Mohammed Morsi, alla guida dell’Egitto tra 2012 e 2013, e aver arrestato e perseguitato i membri della Fratellanza musulmana nel paese, è facile intuire le ragioni del sostegno di al-Sisi ad Haftar contro l’ipotesi di una Libia in mano ad al-Serraj e di un governo ampliamente espressione dei fratelli musulmani libici (specie misuratini), che al contrario e proprio per questo hanno potuto contare sull’appoggio turco.

La crisi in Libia è dunque parte di una più ampia partita all’interno del mondo musulmano tra due alternative di statualità e soprattutto di società che vedono alleati qatarini, turchi e misuratini contro sauditi, egiziani ed emiratini.

L’Europa ha faticato a imporre una sua propria linea, specie per le divisioni interne: la Francia non ha fatto mistero di appoggiare militarmente Haftar, mentre l’Italia è presente sul campo a sostegno delle forze di Misurata. Nel 2016 l’Italia dispiegò un dispositivo militare non lontano dalla città tripolitana, con il compito prioritario di installare un ospedale da campo per curare i feriti delle truppe di Misurata, allora impegnati nella lotta contro l’Isis a Sirte. La base aperta con la “Missione Ippocrate” non è mai stata chiusa e dal gennaio 2018 è stata inserita nel quadro della “Missione bilaterale di assistenza e supporto in Libia”. Oltre a curare i feriti, i militari italiani hanno addestrato le truppe di Misurata e continuano ad avere un ruolo di consiglieri militari. Allora la domanda sorge spontanea: perché gli italiani sì e i francesi no? Perché noi stiamo dalla parte “giusta”? Difficile dire allora chi siano i “buoni” e i “cattivi” in questo scenario.

Il progetto di Haftar è quello di un governo militare, con una soluzione per la crisi libica simile a quella dell’Egitto di ʿAbd al-Fattah al-Sisi, mentre Misurata e la sua dirigenza politica per essere parte del network internazionale dei Fratelli Musulmani propendono per uno Stato nel quale sia l’Islam ad avere la centralità.
Dal punto di vista prettamente italiano, la scelta di appoggiare Misurata e il governo di Accordo Nazionale è stato dettato dall’ordine di squadra e dal legame con l’Europa, le Nazioni Unite e gli Stati Uniti, specie con la precedente amministrazione Obama.

Il fatto che Italia e Turchia si trovino a sostenere la stessa parte politica non è il frutto di un fronte comune concertato, quanto piuttosto di una convergenza di interessi diversi. Non a caso Italia e Turchia sono sempre più in concorrenza nell’appoggio al governo di Tripoli e nella pretesa di esserne il maggiore (e più influente) partner. Non vi è dubbio che gli ultimi sviluppi hanno portato la Turchia ad assumere un ruolo di preminenza, sostanzialmente perché l’appoggio della Turchia è stato oltre che politico anche decisivo dal punto di vista militare. L’intervento a terra che fu ventilato a più riprese anche dall’Italia e da diversi presidenti del Consiglio, da Renzi a Gentiloni, fortunatamente non ha mai preso una forma concreta. Non va infatti dimenticato, e i libici non si stancano mai di ricordarcelo, che l’Italia fu quella potenza coloniale che dal 1911 al 1943 occupò il paese e dal 1911 al 1931 fu impegnata in una guerra di occupazione lunga venti anni che portò, si è calcolato, alla morte di almeno un sesto dell’allora popolazione del paese. I soldati italiani difficilmente sarebbero ben visti in Libia, da tutte le parti in campo. L’appoggio al governo di Accordo Nazionale in definitiva non è mai stato un appoggio ideale, quanto pragmatico nella misura in cui esso poteva garantire gli interessi italiani (risorse energetiche e controllo dei confini) e infatti non sono mancati a più riprese i tentativi di abboccamento anche con Haftar, ufficialmente per mediare la composizione del conflitto, ma in effetti anche per avere un piano di riserva nel caso fosse l’uomo forte della Cirenaica ad avere la meglio tra i due contendenti.

I libici, dal canto loro, sono sempre più le vittime di una guerra combattuta sulla loro pelle da parte di altri e per altri. La guerra è entrata in profondità nella capitale libica. Interi quartieri sono teatro del conflitto e solo il centro della capitale per ora è stato risparmiato. Negli ultimi mesi sono ormai otre 70 mila i nuovi rifugiati che hanno dovuto lasciare le loro case.

Nella narrativa eurocentrica che pervade le informazioni e i commenti sulla crisi in Libia si continua a distorcere la realtà, parlando di migliaia di migranti pronti a invadere l’Italia e l’Europa. La realtà è un’altra. La maggior parte dei cosiddetti migranti sono lavoratori stranieri residenti in Libia che vengono sistematicamente discriminati, sfruttati e incarcerati anche e soprattutto a causa delle politiche di contenimento dei flussi migratori volute dall’Italia e dall’Europa sulla base della presunzione (falsa) che queste persone vogliano tutte attraversare il Mediterraneo non appena ne abbiano occasione. Accanto ai lavoratori internazionali, la maggioranza delle persone che stanno scappando dalla guerra a Tripoli sono per la maggioranza libici, che a loro volta sono rifugiati e perseguitati.

A soffiare sulle paure europee non sono solo in modo del tutto irresponsabile i politici di casa nostra, ma anche quelli libici. La minaccia di partenze di massa, che mai vi saranno, serve all’obiettivo reale del governo di Tripoli per ottenere maggiore appoggio politico e militare dall’Italia e dall’Europa per il suo potere sempre più in crisi.

Fa male camminare per le vie del centro di Tripoli e vedere le strade inondate dai rifiuti, una buona parte degli esercizi commerciali che, solo pochi anni prima popolavano le vie centrali, oggi sono chiusi, per non parlare delle continue interruzioni di acqua e corrente elettrica. Chi può si è comperato un generatore di corrente e, fuori dal centro, scavato un pozzo. Dopo le dieci di sera sono poche le persone in giro: in una città dove ai tempi passati si poteva tranquillamente girare soli a qualsiasi ora della notte, oggi tutti hanno paura, ci sono interi quartieri dove è meglio non avventurarsi e le case sono sempre più dei piccoli fortini. Sono spuntate inferriate, cancelli e sistemi di sicurezza, perché la guerra e le diverse forze in campo alimentano una conflittualità permanente.

Uno dei pochissimi, forse il solo, spazio di socialità che ha continuato a rimanere aperto e inclusivo per tutti i libici, specie per i giovani, è stato il campus dell’università di Tripoli. Non è stata un’impresa da poco tenere aperta e funzionante l’università in una stagione di conflitto come quella attuale. Sono state diverse le accuse rivolte alla dirigenza dell’Ateneo di aver usato in modo illegittimo i fondi dell’università e di aver pagato le milizie, comprando la loro protezione. In effetti, al di sotto dei due grandi schieramenti in lotta, a ben vedere, questi sono composti da una serie diversa di milizie che combattono spesso non per ideali alti, ma più banalmente in ragione del denaro che ricevono.

In Libia il problema non è la mancanza di ricchezza e liquidità (che continua ad arrivare dalla rendita petrolifera), ma piuttosto a chi va a finire il denaro e come questo viene impiegato. Negli anni di Gheddafi l’accesso ai proventi della rendita petrolifera era la principale leva del consenso al regime, più si era “gheddafiani”, più si era dentro al sistema e più vi era la possibilità di beneficiare dei proventi della rendita, ma una serie di servizi di base, uno stipendio minimo e l’esenzione dal pagare le tasse non lo si negava quasi a nessuno.

Oggi non c’è più Gheddafi e a gestire i flussi della rendita petrolifera sono le cosiddette milizie che negli ultimi due anni di guerra hanno assestato la spallata finale alle istituzioni ancora funzionanti e si sono progressivamente sostituite alle istituzioni statuali. Sono proprio le milizie ad aver accentrato nelle loro mani la rendita petrolifera e a ridistribuirla ai loro miliziani e ai loro clienti. Nel suo meccanismo e funzionamento il sistema non è allora così diverso dai tempi di Gheddafi, ma sono oggi cambiati radicalmente gli obiettivi politici ai quali quel meccanismo è rivolto. La Libia di Gheddafi era sicuramente un regime autoritario e antidemocratico, ma pur sempre uno Stato che aspirava a redistribuire risorse nella prospettiva di un’unità nazionale. Al contrario le milizie non rappresentano lo Stato, sono piuttosto un anti-Stato che si alimenta dell’instabilità causata dalla guerra e attraverso la violenza ha piegato le logiche di un sistema economico formale a quella di un’economia informale, spesso illegale, che trae proprio dalla guerra la sua forza.

Il rafforzamento rapido del potere delle milizie retrodata ad un provvedimento approvato dall’allora governo di transizione nazionale, appena dopo la caduta del regime di Gheddafi, che di fatto istituzionalizzò le milizie destinando ingenti fondi ai thawar, i rivoluzionari, ossia i libici che avevano combattuto contro il regime. Si trattava di una sorta di indennizzo per i veterani della rivoluzione, ma nella complessità del momento furono molti coloro che si inventarono da un giorno all’altro a capo di una brigata e dei relativi thawar per prendere i soldi. Una volta accaparratisi i soldi, almeno parte delle brigate rivoluzionarie si trasformò in milizie, finendo per occupare il potere e ostacolare la transizione post-Gheddafi verso un regime democratico. I veri sconfitti della rivoluzione sono stati i giovani e giovanissimi libici che hanno combattuto per abbattere il regime di Gheddafi e successivamente sono stati esclusi dalla gestione del potere e ridotti a miliziani al soldo dei diversi capi-qatiba (milizia). Il lavoro nelle milizie è in effetti oggi l’unica possibilità di impiego redditizio per molti giovani libici e sempre più è diventato un lavoro ambito non solo per lo stipendio, ma anche per i privilegi e lo status sociale che ne conseguono.

Difficile allora per un libico qualunque prescindere dal rapporto con le milizie. Per riuscire a prelevare qualche dinaro in banca, bisogna chiedere alla milizia che “protegge” la banca del proprio quartiere e pagare il dovuto per il suo aiuto. Lo stesso se si vuole tenere aperto un negozio o un’attività qualsiasi. Bisogna però fare attenzione, perché farsi trovare con troppi soldi in tasca o far sapere che se ne hanno tanti in banca può essere il modo più rapido per solleticare gli appetiti di qualche gruppo dedito all’industria dei rapimenti su commissione (e alla liberazione dietro pagamento) che lavora per qualche milizia concorrente.

Nella Libia di Gheddafi la corruzione e il clientelismo erano capillarmente diffusi, però vi erano anche dei limiti: oggi il rapporto di dipendenza dal potere (e dal volere) delle milizie è potenzialmente senza limiti. Come in molti altri paesi dove lo Stato è progressivamente arretrato di fronte al conflitto, le logiche di guerra si sono intrecciate fortemente con quelle economiche. Sono le milizie ad avere il vero controllo dei centri nevralgici della capitale e del paese e spesso a dettare le loro condizioni alle istituzioni propriamente politiche. Lo Stato può rappresentare un bene che spesso si tende a dare troppo spesso per scontato e proprio la sua messa in discussione con l’intervento internazionale in Libia nel 2011 ha aperto la crisi odierna.

La rivolta dei libici nel 2011 fu contro lo Stato di Gheddafi e per uno Stato maggiormente inclusivo e partecipativo; la guerra internazionale ha portato invece a un progressivo indebolimento dello Stato di per sé.

Foto Credits:EU Civil Protection and Humanitarian Aid. Attribution-NoDerivs 2.0 Generic (CC BY-ND 2.0), attraverso www.flickr.com